“An Island Called The Kraken”
THE CRASH OF THE SEA on the rocks was the first
sound Nancy heard. She found herself, still dressed in her evening
gown, lying across the foot of the bed. It was nearly a minute before
she realized she was in the room given her on her arrival at The Kraken
that afternoon. The girl pulled herself to her feet and groped her way
toward the dim outline of the window. The wind that had lashed the
Carolina coast since sundown was beginning to die, but the night was
still dark. Nothing could be seen but the white crests of the breakers
below.
Nancy stood for a minute gazing out into the
night, wondering idly what time it was and why she had not undressed.
All at once she became aware of the fact that she had no answer to these
questions or to a dozen others. Everything that had happened since
dinner was as blank as though she had fainted at the table and been
carried up to bed.
Earlier events seemed clear enough: the end of
the long drive from New York; the shining mahogany speedboat; the island
itself, so curiously named The Kraken, and seeming strangely rocky
against the low shore only a quarter of a mile away; the great stone
house; the unexpected nature of her fellow house guests; the storm, with
its attendant doubts for Rogan’s safety; and the curious incident of
the broken mirror.
Yes, all that stood out sharply in her mind.
She could even recall the beginning of dinner, with Jack Frant’s lean
little figure looking so out of place at the head of the table, his
seven guests ranged on both sides of him, and the five empty chairs.
Nancy winced at the picture. Somehow those vacant chairs seemed more
ominous than if all thirteen places had been filled. Her last definite
memory was of Jack’s high-pitched laughter when Evan had knocked over
the salt cellar. After that there were only occasional flashes—old Miss
Makepeace’s acid smile—the black faces of the Negro servants—
meaningless words—and then nothing. Yet if she had fainted at dinner,
why had no one taken care of her? She could not believe she had been
merely carried upstairs and dumped on the bed like a bundle of soiled
clothes, but what other explanation was possible?
Well, the answer certainly was not to be found
here. With growing alarm Nancy felt her way to the door and pulled it
open. A faint glow from her right illuminated the four-foot corridor,
and she followed it to emerge upon the wooden gallery built along one
wall of the main room of the house—a room so huge that the candles
placed on a table in its center did little more than call attention to
the shadow-haunted darkness which pressed in upon them. Except for the
candles and an occasional hiss from the burning driftwood in the great
fireplace, there was no sign of life.
As the girl turned to the stairs that led down
on her right, a low-toned clock struck somewhere in the depths of the
ancient house. Mechanically she counted the strokes—ten of them. Dinner
would have been over about nine, so she must have been unconscious all
that time. Suddenly, the full implication of the hour struck her. If it
were only ten o’clock, where were the other members of the house party?
Normally they would be here, grouped around the fire, playing cards, or
strumming the piano. Even if they were in the library, there would at
least be more lights and the sound of voices. Instead she found only
four candles and a dying fire ( Hake Talbot, The Hangman’s Handyman, Ramble House, 2009)
Così comincia il primo dei due romanzi che Hake Talbot (pseudonimo di Henning Nelms) scrisse: The Hangman’s Handyman, che anticipa di due anni Rim of the Pit (1944).
Già dai primi righi ci vediamo proiettati in un’
isola sperduta, battuta dai venti di tempesta, che ha un nome che è già
un programma: Kraken, come il mostro mitologico degli abissi marini. E
l’atmosfera già esprime le sue prime avvisaglie strane e minacciose.
Nancy Garwood, attricetta e showgirl, si ritrova
distesa di traverso sul fondo del letto: ha ancora il vestito da sera e
lì per lì non si ricorda come possa essere arrivata lì. Si ricorda di
quando vi è arrivata nel pomeriggio assieme a Jackson Frant e della
cena; dell’atmosfera pesante e palpabile di quella casa in pietra
sull’isola battuta dalla bufera; dei domestici, silenziosi e senza
identità quasi fossero delle ombre; della strana tavola e degli invitati
seduti attorno:otto compreso il padrone di casa e cinque posti vuoti, a
formare tredici posti, presagio di sventura. Si ricorda il sale caduto
per errore sulla tovaglia, si ricorda dello specchio rotto, si ricorda
delle facce spaventate. Poi non ricorda più nulla.
In quella casa silenziosa, troppo, scende nel
salone. L’orologio batte le dieci. Lei si ricorda che era a cena alle
nove. Un’ora dev’esser rimasta incosciente. Ma..comunque gli invitati
dovrebbero essere lì, a suonare il pianoforte , a giocare a carte..
Invece, non c’è nessuno.
Nancy sempre più tesa, gira per il salone buio e minaccioso, a lume di candela.
Osserviamo la scena: Hake Talbot, con consumata
esperienza vorremmo dire (ma questo è l’esordio) introduce la storia
quasi fosse non un romanzo poliziesco ma uno fantastico, gotico:
sembrerebbe quasi uno della Radcliff o di Walpole: una dimora baronale,
su un’isola battuta dalla tempesta; un’invitata svenuta, che si ritrova
sola in una stanza, vestita come lo era a cena; scende ma non trova
nessuno; tutto deserto, vuoto, buio. Un senso di oppressione ci
accompagna, sminuito solo dal chiarore della candela, che aumenta
quest’atmosfera così palpabile, perché dona alle cose che ci circondano
un’aura diversa, da quella della luce elettrica: illumina direttamente
ciò che ti è davanti, ma lascia nell’oscurità tutto il resto.
E mentre Nancy avanza spaventata, impaurita e tesa, ecco un rumore potente ed inaspettato: qualcuno bussa al portone:
“Hesitantly Nancy crept down the stairs and had
almost reached the center of the room when she heard the thud of the
knocker beating against the main door. The shock to the already
frightened girl was so great that she was forced to clutch the edge of
the table to steady herself. In a few seconds her sturdy common sense
came to her rescue. She had wanted company—well, here it was. If some
evil were abroad on The Kraken it would be in the house, not out in the
storm. She picked up one of the candles and moved forward, holding it
before her like a shield.
Then, leaving the inner door of the vestibule wide behind her, she opened the outer door.
Seen in that flickering light, the man who
stood there bulked enormous. He was clad in dripping oilskins, and the
sou’wester cast a mask of shadow over the upper part of his dark face.
“Please, ma’am, would you have half a bed for a poor ship-wrecked sailor that got crowded out of Davy Jones’ locker?”
Nancy felt her small stock of courage drain
away. Then to her relief she heard a chuckle that she recognized, her
candle was caught as it fell, the man’s sou’wester was jerked off and
she looked up into his laughing eyes.
“Rogan Kincaid!”
“Remember me? I was afraid you wouldn’t.”
“I couldn’t see you at first. I’m—I’m awfully glad you’re here.”
“Thanks. I’m glad to get here. There’ve been
times in the last few hours when I didn’t expect to make it.” He glanced
into the darkness beyond her. “This is Frant’s island, isn’t it?”
(op.cit).
Lei va ad aprire, perché neanche i domestici lo
fanno, come se la casa fosse vuota, e si trova davanti Roger Kincaid, giocatore
di professione, con un passato non cristallino, ma che conosce la natura
umana meglio di altri, e soprattutto sa andare in fondo alle cose,
anche a quelle che apparentemente non si vedono.
Talbot riserva a Kincaid un’entrata da
protagonista, da prima donna: già in quest’entrata possiamo capire che
ci troviamo dinanzi al “deus ex machina” della situazione.
La natura del personaggio è affidata anche che alle
vesti che indossa: un pesante impermeabile e un cappellaccio dalle
larghe tese, ci ricordano istantaneamente (almeno vale per chi sia
avvezzo al personaggio letterario) il personaggio più famoso di Carr, il
dottor Fell. E’ un modo come un altro, per dire al lettore che: si
tratta dell’investigatore; ci saranno condizioni tipiche dei romanzi
carriani, cioè delitti impossibili o camere chiuse.
Il delitto impossibile è quello che connota il romanzo, ed è anche l’evento che ha provocato l’amnesia della ragazza.
Kinkaid esorta Nancy a fare uno sforzo. A cercare
di ricordare cosa sia successo, un po’ uno psicanalista che inviti il
suo paziente ad aprirgli i suoi pensieri. Ed ecco che questo sforzo
indotto, dà i suoi frutti: si ricorda come Kinkaid, atteso come
un’intera famiglia di quattro persone, fosse in ritardo, mentre le
restanti persone, spaventate dalla tempesta, avessero deciso all’ultimo
istante di non partire per l’isola; nonostante ciò i posti a sedere
apparecchiati erano rimasti tredici, un modo perché Jackson Frant,
industriale chimico, potesse prendere in giro il suo fratellastro, Lord
Evan Tethryn, enormemente superstizioso.
La derisione era continuata in un crescendo di
tensione: prima leggendo un antico documento che attestava qualcosa di
antico, un innominabile segreto di famiglia, che il fratellastro aveva
lanciato nel fuoco; poi urtando deliberatamente la mano dell’attrice al
fine di far cadere e rompere lo specchietto da cipria; e poi facendo
versare il sale sulla tovaglia, e nel contempo ammonendo la nipote,
fidanzata del fratellastro, Sue Broadwood che così non avrebbe potuto
sposarsi con quello per sette anni. Insomma questa tensione accresciuta e
rinfocolata da uno mentre l’altro fa di tutto per calmarsi, porta ad
una inevitabile catarsi: la maledizione lanciata da Evan contro Jack.
Una maledizione che pare fosse un’antica tradizione
di famiglia, il segreto innominabile: la possibilità che chi la
lanciasse riuscisse a far morire il destinatario. Ancor più: a farlo
marcire!
Così aveva fatto l’esasperato Lord Evan contro il fratellastro Jack Frant. E al sentire la maledizione “Che Od ti faccia marcire!”,
Jack era caduto fulminato, morto: a quanto pare Od, la divinità marina
cui si era rivolto, era stata lesta ad accontentarlo. Il cadavere era
stato quindi trasportato nella sua camera e lasciato lì.
Ecco il delitto impossibile. Ma cosa c’è di
impossibile nella morte istantanea per quanto sicuramente ricadente in
una pura coincidenza, di un uomo maledetto dal fratellastro? Si sarebbe
potuto trattarsi benissimo di un attacco di cuore! Fino a qui niente
indica un’impossibilità manifesta: c’è solo una coincidenza anche se
strana. L’impossibilità invece si estrinsecherà davanti ai nostri occhi,
quando vivremo "in fieri" il momento in cui Kinkaid si reca a vedere il
cadavere, non nel passato del ricordo offuscato di Nancy. Che ricorda
solo di essere andata nella camera di Jack dove era stato deposto il
corpo per svenire di nuovo.
Per quale motivo Nancy avrebbe sentito il dovere di
andare a trovare il cadavere di Jack? Lo si spiegherà dopo, con un
sibillino “..intimamente forse ma certo non bene.. ” (pag.75) che vuol
dire tanto: Nancy ci andava a letto, ma come persona non lo conosceva
poi tanto. Mentre Kinkaid si preoccupa di prestarle le prime cure, si
vede aprirsi una porta ed uscire un personaggio, Arnold Makepeace, che
comincia un conciliabolo con Rogan.
Faccio notare che l’espediente della tensione
accresciuta, che abbiamo già visto sia nel risveglio di Nancy che si
ritrova in una casa sconosciuta e nell’oscurità, e nello scontro verbale
tra i due fratellastri, riappare ora nel breve dialogo tra questi due
personaggi: Arnold convalida il racconto di Nancy parlando della morte
improvvisa di Jack Frant, e aggiunge che sicuramente si tratta di un
colpo apoplettico, e che anche il dottor Braxton (altro personaggio) non
avrà alcuna remora a riconoscere ciò. Il fatto è che Arnold parla quasi
urlando, con un tono che fa capire a Rogan, come il suo interlocutore
voglia far apparire il tutto come naturale, mentre, spaventato com’è, in
cuor suo pensa di no.
Insomma, egli nel presentare ovvio il colpo
apoplettico si auspica in cuor suo che anche Braxton lo definisca tale. E
la tensione si accresce. E continua quando prima Rogan frugando tra le
ceneri del camino, trova quasi intatto il malloppo di pagine che erano
stato lanciato sul fuoco (che è una serie di cronache antiche attestanti
poteri di magia nera donati alla famiglia dei due fratellastri da Od,
uno spirito elementare, quasi un demone) e poi quando egli stesso, nella
biblioteca, trova una serie di libri di carattere espressamente
occultistico, letti e riletti. Una collezione con in vuoto, un volume
che è stato tolto e che egli trova su una poltrona a faccia in giù.
Aperto, il libro si apre all’ultima pagina di un celebre racconto di
Edgar Allan Poe: Cronaca del caso del Signor Valdemar. Ve lo
ricordate quel caso? No? Parla del mesmerismo, di un caso di magnetismo
animale effettuato su un uomo in punto di morte, che rimane in uno stato
di morte sospesa, finchè risvegliato da questo stato, di decompone in
un baleno. Uno che l’abbia letto comincerà a chiedersi: perché Talbot
volontariamente accenna proprio a questo racconto di Poe ? Altra
tensione..
Fatto sta che un po’ dopo proprio di questo caso di
Poe, si parla. E Kinkaid comincia a sospettare che non gli abbiano
detto tutto: possibile che la maledizione alluda più specificamente alla
capacità di colui che la lancia di far morire e più specificamente far
marcire in men che non si dica il cadavere altrui?
Saliamo le scale più tardi assieme a Kinkaid,
sentiamolo aprire la porta della stanza di Frant e capire il perché di
quel secondo svenimento di Nancy: Frant sarebbe dovuto essere nelle
condizioni di un uomo morto da poche ore, ed invece si trova in quelle
di un cadavere vecchio di un mese, cioè in decomposizione tanto avanzata
che l’unico modo per assegnargli l’identità di Jack Frant è un anello
che non può essere stato infilato da morto.
Ecco l’impossibilità. Che ci ricaccia in
un’atmosfera di tensione, di paura, di mistero, di orrore
soprannaturale: dobbiamo allora credere per forza che la maledizione sia
la causa della morte di Frant. E che Od, la divinità delle acque, un
demone, abbia avuto la sua parte determinante nella morte di Frant.
Se a tutto questo si aggiunge anche un intruso,
che penetra nella villa con lo scopo di uccidere Jack Frant, da lui
ritenuto colpevole della morte della moglie ad opera del dinitrofenolo,
una sostanza pericolosissima derivata dal carbon fossile, usata
primariamente per la produzione degli esplosivi, e poi invece utilizzata
per le diete dimagranti, allora abbiamo raggiunto il punto di
saturazione.
Insomma un bel po’ di carne sul fuoco. Tutto qui?
No. Ricordiamoci della premessa che avevamo
annunciato spiegando l’arrivo di Kinkaid vestito in quel modo: delitti
impossibili o camere chiuse. Il delitto impossibile c’è stato: più
impossibile di uno che, maledetto, muoia all’istante, e nei minuti
successivi si decomponga come se fosse morto da almeno un mese, non
credo esista.
Il fatto è che ad un certo punto della storia
qualcuno cerca di uccidere Kinkaid: Rogan sale in camera sua, serra il
chiavistello dall’interno al buio, e poi qualcuno cerca di strangolarlo,
non riuscendovi, ma lasciandolo svenuto. Il fatto è che se questo
qualcuno è entrato dalla porta, da essa non è uscito, perché dopo che
Evan ha abbattuto la porta a spallate, in alcuni la trovano serrata
dall’interno, e le zanzariere che sono fissate alle finestre dimostrano
la loro vetustà, la loro impossibilità nel poter essere smontate e
rimontate dall’esterno o qualsiasi artificio nel passarvi attraverso,
oltre che la loro integrità. Chi mai allora può esser riuscito a quasi
uccidere Rogar e volatilizzarsi, “vanished into air” come direbbe Carr?
Non può esser stato che Od in persona!
Ma perché mai Od dovrebbe voler uccidere Kinkaid?
Il tentativo di omicidio trova la propria causalità
solo nell’accreditare con ancor maggior forza l’esistenza di forze
soprannaturali.
Non vado oltre, solo per non togliere a chi avesse
ancora la fortuna di leggere questo romanzo, il gusto di scoprire
l’assassino, dopo una serie di depistaggi e depistaggi di depistaggi.
Dirò solo che il finale è strepitoso.
Perché mi ha impressionato favorevolmente?
Innanzitutto ci troviamo dinanzi ad un delitto così
impossibile che più impossibile non si può, ed anche ad una bella
Camera Chiusa. Talbot, insomma, per la sua opera prima crea un romanzo,
in onore di Carr e di Rawson, e vi inserisce tutto il corollario
carriano e rawsoniano per eccellenza: delitti impossibili e camere
chiuse, in ambiente soprannaturale; trucchi illusionistici (lo stesso
Hake Talbot si dilettava in magia).
Altrove, poi, ho già asserito che secondo me questo
romanzo d’esordio centra un bersaglio: si rifa ad uno schema
consolidato di mystery classico (isola battuta dalla tempesta, villa
isolata, maledizione, delitto impossibile e in più anche una camera
chiusa, sostituzioni di persona, continui ribaltamenti di trama) creando
un’atmosfera densa e palpabile in grado di affascinare.
Curiosamente sembrerebbe quasi che questo fosse una prova riveduta e corretta di altro romanzo e che quindi The Hangman’s Handyman invece di venire prima seguisse Rim of the Pit. Per quale motivo? Perché non presenta le falle esistenti nel secondo, che sono più che altro riferite al finale.
Mi sono accorto, pochi giorni fa, parlando con
Mauro Boncompagni, di non essere il solo ad aver asserito pubblicamente
che questo romanzo sia meglio strutturato rispetto al secondo,
nonostante siano molti ancora a ritenere Rim of the Pit
superiore al nostro: quando io mettevo in evidenza come, dopo il can can
delle situazioni impossibili rimarcate in tutto il romanzo, il finale
apparisse insoddisfacente e per nulla pirotecnico come ci si sarebbe
aspettato che fosse, mi sono accorto che dicevo la stessa cosa che Mauro
rimarcava, affermando che a suo parere (posizione espressa da lui a Bob
Adey) Talbot aggiungendo impossibilità ad impossibilità, non fosse
riuscito nella spiegazione finale a rispondere a tutte le domande:
insomma non fosse riuscito a soddisfare tutta l’aspettativa che aveva
generato precedentemente, perché aveva voluto concentrare la spiegazione
del tutto, solo nel finale, “con un effetto di complessità un po’ troppo estenuante”.
Dicevamo cioè la stessa cosa (e la posizione di
Mauro contrastante con quella di Adey, la dice tutta sulla sua
autorevolezza anche in campo internazionale, nell’attestare una
posizione autonoma rispetto al resto della critica=n.d.r.).
Questo ci porta a considerare come, invece, il
primo romanzo, con una certa umiltà che manca invece nel secondo, non si
arrischiasse in questo “tour de force” finale, ma invece risolvesse gli
enigmi, volta per volta, lasciando al finale solo l’individuazione
dell’assassino (cosa per nulla facile). Infatti, prima risolve la Camera
Chiusa, e poi spiega il delitto impossibile.
Al di là di questo vi sono delle somiglianze tra i due romanzi.
Innanzitutto, le allusioni mitologiche: qui è ad
una divinità elementale, Od, un demone degli abissi marini; lì ad altro
demone, uno degli indiani, un Windingo. Inoltre tutti e due i romanzi,
presentano trucchi di magia eseguiti e spiegati dagli ospiti, come ad
esempio il trucco del bicchiere avvolto in un tovagliolo, che passa
attraverso il tavolo e che fornisce a Rogan Kinkaid l’idea che alla base
della Camera Chiusa vi sia una illusione, un trucco, non un espediente
reale. Dirò solo che l’illusione della camera Chiusa di Talbot è stata
poi utilizzata da Paul Halter nel suo “La mort vous invite”.
Qua e là si notano delle sviste, che è possibile
notare solo dopo aver letto più volte il romanzo: prima si legge che
all’esame dei polpastrelli del cadavere decomposto, da parte di Kinkaid,
il sergente Dorsey, il fotografo della polizia Feldman e il medico
legale dottor Murchinson, si nota che era stata asportata la pelle dei
polpastrelli (pag.127); poi, a fine romanzo, si legge che il cadavere
era di Frant perché Feldmann ne aveva preso le impronte digitali (pag.
203): incongruenza forse da spiegare con una precedente stesura diversa
del romanzo?
Al di là di questo, anche Talbot, come Halter, può
aver usato, per confezionare la trama del suo romanzo, una serie di
riferimenti a lui precedenti: gli invitati presenti in una villa su
un’isola, richiamano alla mente And Then There Were None, di Agatha Christie, del 1939;
i 13 invitati a cena, un altro romanzo precedente della Christie, Lord Edgware Dies, del 1933; e infine, sarei perfino tentato a credere che la stessa disavventura di Rogan a bordo del natante in mezzo al mare in tempesta e il suo approdo sull’isola dove l’aspettano altri invitati, potrebbe riferirsi a Careless Corpse, 1937, di Charles Daly King.
i 13 invitati a cena, un altro romanzo precedente della Christie, Lord Edgware Dies, del 1933; e infine, sarei perfino tentato a credere che la stessa disavventura di Rogan a bordo del natante in mezzo al mare in tempesta e il suo approdo sull’isola dove l’aspettano altri invitati, potrebbe riferirsi a Careless Corpse, 1937, di Charles Daly King.
Insomma…uno straordinario romanzo, che tiene avvinti fino all’ultima pagina.
Pietro De Palma
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