mercoledì 19 settembre 2018
Carter Dickson : Mani invisibili (Death by Invisible Hands , 1957) - Speciale del G. M N° 52 del 2007
Pubblicato per la prima volta nell’Agosto del 1957, nella rivista Lilliput, a firma Carter Dickson (pur avendo come personaggio principale Gideon Fell), il racconto King Arthur’s Chair, ebbe anche un altro titolo : Death by Invisible Hands, utilizzato per l’edizione americana. Apparve infatti sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’Aprile 1958, e la stessa illustrazione per la copertina vi fu improntata.
E’ uno straordinario racconto “dark”, in cui il tema del doppio fa capolino ovunque, pieno di simboli e significati metaforici, connessi con alcuni dei “sette peccati capitali”, un racconto che amo particolarmente. Oltretutto, il lavoro è una delle tante variazioni di Carr sulla Camera Chiusa, ed in particolare sulla variazione della spiaggia: un delitto viene commesso su una spiaggia, senza che vi siano le impronte dell’assassino, ma solo quelle della vittima. Carr scrisse altre opere utilizzando questa sottospecie di ambientazione: ricordiamo per esempio una delle sue opere maggiori, e ancor oggi poco conosciuta che è The Witch of the Low Tide, “Un Colpo di pistola”, romanzo di poco successivo (1961) al periodo del racconto.
Qui il problema è particolarmente complesso, ma la soluzione che viene proposta è straordinaria: direi che è uno dei migliori racconti di Carr, proprio per la soluzione ineccepibile, ma anche per la struttura del racconto, quantomai interessante.
Innanzitutto la storia.
Dan Fraser, è innamorato di Brenda Ray. Lei gli ha dato appuntamento alla sua villa sul mare, dove abita assieme alla cugina povera, Joyce Ray. E’ però un tempo pessimo per vedersi. E’ una sera calda, quella in cui lui la rivedrà. Calda e afosa. Le nubi gravano e ogni tanto un fulmine squarcia l’oscurità, illuminando la notte ed il mare. Dan deve affrontare una discesa per nulla agevole con la sua auto, prima di arrivare alla casa. Tuttavia, stranamente la trova al buio.
E’ una casa ricca di decorazioni, com’è nella natura di Brenda, che lei chiama “la casa del re”. Ma, diversamente da come Dan si aspetterebbe, è immersa nel buio: il buio della notte ed il buio causato dalle luci che le finestre dovrebbero irradiare tutt’attorno, che invece non vede. Lasciata l’auto, si accorge che le tende sono tirate del tutto. L’atmosfera, gravida di elettricità (i fulmini) e oscuri presentimenti, convince Dan che c’è qualcosa che non va. La villa sembra disabitata. Sembra, perché quando lui si affretta in direzione della porta d’entrata, si accorge che è chiusa, ma non a chiave, e quando la apre, si vede inondato dalla luce, che si spande dall’interno.
Neanche il tempo per riflettere ed una porta si apre: una figura femminile si staglia. Non è Brenda, ma sua cugina Joyce. I loro sguardi si incrociano. E’ come se dialogassero, come se confessassero l’un l’altro i propri desideri più segreti, è come se parlassero una lingua che mai fino a quel momento avevano scandito. Fatto sta che capiscono, in un solo istante che si sono sempre amati. O meglio, Dan capisce che l’ha sempre amata, e che quella per Brenda era solo un’infatuazione, Joyce, l’ha sempre saputo. Dan si aspetterebbe di trovare Brenda. Vorrebbe a questo punto incontrarla, ma non per passare con lei una notte infuocata, quanto, per una sorta di correttezza morale, confessarle che ha capito di non amarla e che invece ama la cugina povera. Ma Brenda non c’è. Perché è morta. L’hanno trovata la mattina. Ora la casa è illuminata, perché tutti sono andati via da poco: il cadavere, il medico legale, la polizia, l’ispettore Tregellis, il grande detective amico della Polizia, Gideon Fell.
La situazione è cambiata: ora Joyce non è più povera, ma ricca. E soprattutto ora Dan è libero di amarla; e non devono neanche rendere conto a Brenda, lui e Joyce. Tuttavia Dan pensa che Brenda sia morta, affogata, dopo una nuotata.
“No – disse Joyce. – E’ stata strangolata.
– Strangolata?” (John Dickson Carr : King Arthur’s Chair (1956) – “Mani Invisibili” – Trad. Mauro Boncompagni – Gli Speciali del Giallo, N. 52 del 2007, Mondadori, pag. 429).
Strangolata, significa assassinata, non più solamente morta. Se qualche minuto prima la situazione per Dan e Brenda pareva essersi miracolosamente risolta, ora essa ritorna intricata, molto più di quanto si potrebbe pensare. Assassinata significa uccisa da un assassino. E la polizia su chi concentrerà la propria attenzione? Su chi quella mattina avrebbe potuto avere l’occasione (e allora avrebbe vagliato gli alibi) ma anche le ragioni di farlo (il movente). E doveva essere un movente valido per uccidere.
Nella villa oltre che Joyce, e naturalmente Brenda, sono presenti altri due soggetti, amici delle due cugine: Toby Curtis e Edmund Ireton. Ma chi quella mattina avrebbe avuto l’occasione e un motivo più che valido per uccidere, sarebbe stata proprio Joyce: l’invidia del patrimonio, e la gelosia nei confronti della sorella, per Dan.. Due moventi più che validi per assassinare. Ecco perché Joyce cerca di far comprendere a Dan che la dichiarazione d’amore avrebbe dovuto fargliela tempo prima, ma non in quel momento. Perché fornirebbe alla polizia immediatamente la certezza che la cugina povera, cioè lei, abbia avuto a che fare nell’eliminazione fisica della cugina ricca.
“– Qualsiasi cosa dovessi dirmi,o pensassi di dovermi dire…
– Su.. di noi ?
– Su tutto! Ti rendi conto che devi dimenticarla e non accennarne mai più? Mai più!” (op. cit. pag. 431).
Però, c’è un problema cui la polizia sta dedicando la sua attenzione, pare. Che concerne il modus agendi dell’assassino. E’ noto che Brenda, quando si recava a nuotare, portava una sciarpa annodata al collo ed un copricostume, sopra il costume da bagno; poi il copricostume e la sciarpa li abbandonava su The King Arthur’s Chair, sul “Trono di Re Artù”, uno scoglio a forma di sedia che era vicino al mare: si sedeva, fumava e poi andava a fare il bagno. Tuttavia non si riesce a capire come l’assassino abbia potuto strangolare Brenda: se l’assassino l’avesse strangolata alle sue spalle, lei poi sarebbe caduta faccia in avanti. Ma così non è: Brenda è stata trovata nella sabbia. E del resto nessuno può averla affrontata, dalla parte del mare, emergendo dall’acqua, perché sulla sabbia del bagnasciuga, si sarebbero dovute ritrovare delle orme, che invece non ci sono. E che Brenda sia stata strangolata, lo prova la sciarpa che aveva intorno al collo oltre al copricostume: mentre il primo è stato abbandonato, la seconda è penetrata così a fondo nella pelle, che quelli della polizia non sono riusciti a rimuoverla.
Oltre a questo, c’è il problema della individuazione del possibile colpevole: nessuno avrebbe potuto ucciderla. Ireton, era appena arrivato; Curtis stava facendo del tiro a segno con un fucile cal. 22 sul retro della casa; e la stessa Joyce, per sua stessa ammissione, era in casa. Tutti e tre sono usciti e l’hanno vista: e nello spazio di sei metri sulla sabbia, non c’erano orme.
Detto così, il problema è insolubile. La polizia brancola nel buio, anzi è meglio dire, brancolerebbe se…non ci fosse Gideon Fell, casualmente in vacanza da quelle parti, in Cornovaglia, e arrivato accompagnato dalla polizia.
Gideon Fell ragiona e suppone quello che sarebbe potuto accadere. Innanzitutto elimina il problema delle orme: se non ci sono, significa che non ci sono mai state. Quindi l’assassino o l’assassina (nel caso sia stata Joyce, o una delle due cameriere, che però non avrebbero avuto alcun motivo ad uccidere chi forniva loro un lavoro) non ha mai percorso il tratto di sabbia. E allora? Come ha potuto materialmente strangolarla? Volando?
No. Non si è mai mosso materialmente dalla casa.
Questa è la soluzione sorprendente di Carr: l’omicida non ha lasciato orme, perché non ha ucciso la vittima strangolandola, ma usando qualcosa che simulasse lo strangolamento, e fosse anche estremamente rapido.
Partendo da questo presupposto, Fell ricostruisce, interrogando i presenti, le loro mosse.
E individua l’omicida. Inchiodandolo alle proprie responsabilità.
Ma prima che ciò possa accadere, a dare la misura del dramma è un altro personaggio, quasi un altro detective. Mentre Fell è il detective che vede la natura materiale del peccato, Ireton qui è il detective che ne mette in rilievo la natura spirituale. Ireton è la coscienza, la voce di Carr.
“– Il salmista ci dice – attaccò seriamente – che tutto è vanità. Qualcuno di voi ha mai notato..e che Dio mi perdoni se lo dico..che il tratto più sorprendente di Brenda era la sua vanità?…
– Una vanità spaventosa. Se qualcuno avesse tentato di grattare quella vanità abbastanza in profondo, la nostra cara Brenda avrebbe commesso un omicidio.
– Non è che sta considerando la situazione a rovescio? – chiese Dan. – Brenda non ha commesso nessun omicidio. Anzi, è stata Brenda…
– Ah! – esclamò il signor Ireton. – E in questo ci potrebbe essere una lezione, non crede?
– Senta, non vorrà mica dire che si è strangolata da sola con la sua stessa sciarpa, eh?
– No, ma mi ascolti bene. La nostra Brenda, indubbiamente, aveva molte passioni e molte fantasie. Ma c’era solo un uomo che lei amava e voleva sposare. E non era il signor Dan Fraser.
– Allora chi era? – chiese Toby.
– Lei.
Lo stupore di Toby era troppo genuino per essere stato simulato…
– Che il cielo mi aiuti! – disse – ma io non lo sapevo! Non mi sarei mai immaginato…” (op. cit. pag. 432). Più in là in un dialogo innocente, parlando di una persona, individua l’arma dell’omicidio, senza che se ne sia ancora fatta menzione (op. cit. pag. 434). Ma lo fa senza coscienza, quasi che parlasse non per sua volontà, ma che fosse espressione della volontà divina. E’ come la Sibilla che parla non per volontà propria ma del dio che la possiede, descrivendo esattamente quello che è avvenuto.
Sarebbe potuta essere una commedia degli equivoci, se non fosse finita in dramma: lei ama lui, lui ama lei ma non sa di essere amato, anzi pensa che lei ami un altro, che è innamorato di lei a parole, ma in realtà ama un’altra. E poi c’è un assassino che strangola non avvicinandosi, ma usando uno strumento fantomatico. Insomma, un gran casino. Ma se vediamo bene, casino proprio non è, appare semmai.
Il racconto, a parere mio, più che un “giallo” è un “nero”, un racconto che se non sapessimo essere della seconda metà degli anni ’50, si sarebbe tentati dal ritenerlo un’opera scritta nei primi anni ’30, magari sotto l’influsso di Bencolin. E’ un manifesto etico, pieno di significati simbolici, quasi una condanna dell’eccessivo fasto, del il trionfo dell’apparenza, del narcisismo: in altre parole una condanna della Vanità.
Questa sorta di manifesto metaforico, io direi si strutturi su almeno “quattro piani mistificatori”: la mistificazione è presente in varie espressioni, che vanno dalla personalità dell’assassino e dell’assassinata, a quelle degli altri attori del dramma, alle stesse manifestazioni poste in essere, tra cui il piano omicida.
Il primo potrebbe essere la mistificazione dei sentimenti: Brenda ama Toby, così come Toby ama Brenda. Ma entrambi sono permalosi e vanitosi: nessuno dei due vuole abbassare la testa per confessare di essere innamorato dell’altro, e quindi simulano indifferenza, quando non arrivano a punzecchiarsi vicendevolmente. E così facendo entrambi ignorano di essere amati, l’uno dall’altro. E’ un amore che non si dona, ma che si nutre di se stesso e quindi destinato a contorcersi. Per es. Toby non sa di essere amato, ma a sua volta la ama, disperatamente struggendosi per l’amore che ella dimostra per Dan. A sua volta, Dan, credendo di aver fatto colpo su una donna bellissima, si convince di esserne innamorato, mentre è solo veramente innamorato di Joyce, il cui amore lui trasferisce su Brenda. E nel mentre, Joyce lo ama.
Il secondo piano mistificatorio è attinente alla psicologia dell’omicida: egli spiega agli astanti, sostituendosi al detective di turno, come l’assassino non possa essersi avvicinato alla vittima: né dal mare, “perché il punto più elevato dell’alta marea, dove l’acqua avrebbe potuto cancellare le orme, si trova a più di sei metri davanti alla sedia”; né alle spalle, perché “dal lastricato della terrazza alla parte posteriore della sedia ci sono almeno sei metri”; né spiccando un salto, perché “un campione olimpico in buona forma forse ci sarebbe riuscito, se avesse avuto un punto per prendere la rincorsa ed un punto per atterrare. Ma le cose non stavano così. Non c’era nessun segno sulla sabbia” (op. cit. pagg. 434.435). E così facendo dimostra come l’assassinio non possa essere spiegato: senza arma, e senza la possibilità di dimostrare l’assassinio, il caso non può che essere archiviato. Ma a questo punto appare il deus ex machina, che fino a quel momento non è stato presente, Gideon Fell, che risolve l’enigma.
Il terzo piano, riguarda lo strumento usato per uccidere, utilizzato come arma per uccidere.
Di per sé non è un’arma per uccidere: lo diventa solo se viene utilizzata in un certo modo. Ed è stato proprio il modo di usare lo strumento a causare la situazione impossibile.
Del resto quest’arma produce un suono caratteristico che può essere facilmente confuso con un altro. E la mistificazione riguarda appunto l’uso di questi due strumenti in maniera tale che l’uso di uno mistifichi l’uso dell’altro.
Il quarto ed ultimo piano, concerne la mistificazione dei sospetti che possono essere solo Joyce Ray, poi Edmund Ireton, infine Toby Curtis.
Joyce è la prima ad essere sospettata per la ricchezza acquisita in seguito alla morte della cugina. Poi c’è Edmund Ireton ( che a suo dire vuole proteggere Joyce): egli ha consigliato Dan di non far parola a nessuno del sentimento reciproco che hanno scoperto di sentire vicendevolmente, pena la possibile accusa di omicidio rivolta a Joyce. Tuttavia l’amico Toby Curtis (strano che si chiami come Tony Curtis che megli anni ’50 fu famosissimo come attore!) gli rinfaccia di aver usato un modo di fare, diretto a far accusare direttamente Joyce invece di proteggerla: perchè invece di ammonire in separata sede Dan a non dire in giro che era innamorato di lei e lei di lui, gliel’ha gridato in maniera tale che tutti nella casa ne fossero, volenti o nolenti, a conoscenza? In realtà non vi è un sospetto, ma due. Anzi tre, perché Fell comincerà a parlare del fucile. Già perché è il fucile cal. 22 l’arma usata per mistificare il suono dello strumento usato invece per uccidere Brenda. Chi possedeva il fucile e si era esercitato per la mattinata? Toby. Quindi anche lui è sospettato. Anche se qualcun altro potrebbe averlo usato in sua assenza.
Il racconto può avere però anche un’altra lettura: accanto ai quattro piani su cui si struttura la storia, io in questo racconto, vedo molte manifestazioni del doppio: alcune possono essere casuali, altre no, e comunque i doppi connessi alla personalità dell’omicida, della vittima, dell’arma, e di alcune situazioni del racconto, fanno riferimento ad un oggetto presente a profusione nella casa. E l’individuazione della natura doppia di tanti oggetti, situazioni, soggetti, usati simbolicamente, è da mettere a parer mio in riferimento alla “morale” del racconto. Mi spiego.
Innanzitutto doppia è l’atmosfera che accoglie Dan : il buio che avvolge la casa sulla spiaggia, il lampo che squarcia l’oscurità e illumina fugacemente la scena del delitto, mentre dentro tutto è illuminato, può essere una metafora: il buio dell’indagine viene squarciato da qualche supposizione che qua e là comincia a diradare le tenebre, fino ad arrivare alla luce della soluzione. Ma è anche il buio, le tenebre (il male) contrapposto alla luce (il bene). Fuori della casa il male ha portato ad un omicidio, ma sarà nella casa che Fell svelerà il movente e come sia stata uccisa Brenda. E da chi.
Doppia è la natura dei sentimenti delle persone che vivono in quella casa: carnefice e vittima, si contrappongono e si confondono, tanto che alla fine l’assassino non si dimostrerà che la vittima di Brenda, quando non di se stesso. Ma doppie sono anche le personalità di chi si muove: Ireton è colpevole o innocente? Amico o nemico? Toby è innocente o colpevole? Giudice o reo? Dan è davvero estraneo alla vicenda o vi è coinvolto? Joyce è davvero innocente o è un’assassina astuta?
Doppia è la possibilità di come l’omicidio sia stato perpetrato: l’assassino era davanti oppure dietro la vittima?
Doppia è la natura dell’amato e dell’amante, di chi ama e di chi viene amato.
Ma doppio è anche il significato dell’uso di un’arma, che non è solo quello che appare ma anche altro: un fucile, cal. 22, con cui Toby faceva il tirassegno. Il fucile ha una natura doppia: spara ma anche mistifica il rumore che produce, cosicché si pensi che anche quando si sente un certo rumore esso venga associato allo sparo mentre non lo è.
Due sono le cameriere presenti in casa.
Due sono le cugine: una povera, l’altra ricca.
La presenza di due cugine, una povera, una ricca, tra l’altro mi da modo di evidenziare una curiosità: nel 1940, di Norah Lofts (pseudonimo, Peter Curtis) fu pubblicato il primo di quattro romanzi, Dead March in Three Keys (che con il titolo “Marcia Mortale in Tre Tempi”, fu pubblicato nel 1950, in Italia, dalla Casa Editrice Aldo Martello, nella serie “I Gialli del Veliero”). Si tratta di un bel romanzo, che potrebbe essere proposto ancor oggi, un thriller, in cui il lettore vede pianificato un omicidio per interesse. Gli attori di questo dramma sono tre: due cugine, Antonia ed Eloisa, la prima povera ma molto estroversa con gli uomini, la seconda ricchissima ma estremamente chiusa; e Riccardo, l’amante di Antonia, povero anche lui, che per calcolo sposa Eloisa, tradendola di continuo con Antonia, finchè…
A me interessa sottolineare solo come Carr potesse aver letto il romanzo, che ottenne un robusto successo nei primi anni ‘40, e avesse potuto trarre l’idea di due cugine di censo completamente diverso, che contendono l’amore ad un uomo, che anche qui è veramente innamorato della povera e solo apparentemente della ricca. Però qui la situazione è opposta: quella estroversa è quella ricca, e timida è invece la povera, che però avrebbe comunque le ragioni per uccidere, ma che invece, in ragione proprio della propria umiltà, non sembrerebbe vi pensi affatto.
Due ancora sono i carnefici e le vittime di questo racconto: sempre loro, Brenda e l’omicida. Nel mentre Brenda ne è la vittima, dell’assassino è anche il carnefice, perché è lei che lo ha spinto ad ucciderla.
E cosa è ancora doppia? La vanità : la vanità di Brenda e la vanità di Toby. Ma anche la La Vanità che non ha consentito loro di essere felici. Del resto si potrebbe pensare sin dall’inizio che gli unici soggetti vanitosi in questo piccolo dramma siano Brenda e Toby. In realtà, anche Ireton potrebbe essere vanitoso. E’ rappresentato vestito in maniera ricercata, da snob. Con sul viso l’espressione bonaria di un satiro, quando non beffarda. Dice di essere stato uno zio putativo di entrambe le cugine: ma che era in realtà? Era solo un amico discreto o amava qualcuna delle due?
E sicuramente lo è Dan. Ma la vanità di Dan non è quella di Brenda: Dan crede di essere affascinante, non perché egli ci creda in fondo, ma perché la stessa Brenda gliel’ha fatto credere, irretendolo. La vanità di Brenda è diversa: ella crede davvero di essere affascinante e superiore agli altri. E’ la Femme Fatal, e come tutte le femmine fatali ha un destino amaro. Nel MedioEvo la sua vanità, che è anche superbia, sarebbe stata condannata senza appello, e lei probabilmente sarebbe stata punita duramente. Perché la Vanità (assieme alla Superbia) era connessa col Male. Vanitas Vanitatum. Uno dei sette peccati capitali.
E’ la vanità il movente dell’assassinio, uno strano movente, in verità. Non c’è odio, avarizia o cupidigia, ma vanità. Che è prodotta dall’eccessivo narcisismo, dall’eccessivo innamoramento di se stesso, della protezione della propria più intima natura, che non dev’essere per nulla svelata, perché da ciò vi sarebbe un indebolimento della propria personalità. Per una volta tanto, vediamo come l’assassinio non sia il prodotto dell’odio, ma dell’amore, anche se non rivolto ad altri ma a se stessi. Anche l’amore qui è doppio: amore di se stesso, ma anche amore dell’altro. Se non ci fosse stato l’amore verso un altro, non si avrebbe avuto paura di essere deriso e messo a nudo. Narcisismo, e Vanità. L’opposto dell’umiltà, che sembrerebbe essere il connotato di Joyce, invece.
L’assassino è quindi un debole, che, deriso per la propria debolezza, cioè dell’amore che prova, uccide. Se fosse stato forte, non avrebbe avuto paura della propria debolezza. Lui però non lo è. Deve simulare all’esterno di non essere debole, ma lo è, e proprio questa sua doppiezza nell’animo è la causa del suo reato, del peccato mortale.
L’apparenza che è commessa alla vanità, al bello, a ciò che si vede, è già messa in evidenza
all’inizio del racconto quando si dice che la casa sul mare veniva chiamata “la casa del re”, per via di tutte le decorazioni che Brenda aveva voluto che l’abbellissero, esternamente e internamente.
Ma l’apparenza e la vanità sono rappresentate da un oggetto, che si trova all’interno della casa, di cui, come abbiamo detto prima, vi è profusione, e che ha un forte valore simbolico: lo specchio.
Brenda era vanitosa, ed in quanto innamorata di se stessa, aveva bisogno dello specchio. Degli specchi. Che erano numerosi in casa.
Ed è in ragione dello specchio che il racconto, talora, è così costruito sui doppi.
Il doppio è da mettere in diretta relazione con lo specchio: lo specchio infatti riflette una visione, creando il suo doppio. I due doppi, solo apparentemente sembrerebbero essere uguali, mentre sono antitetici, vicendevolmente. Il doppio è l’opposto, l’anima nascosta, la parte nascosta di noi. Anticamente si pensava che gli specchi, duplicando la realtà, avrebbero potuto imprigionare l’anima nell’immagine riflessa dallo specchio. Ecco perché alcuni coprivano gli specchi alla morte di qualcuno per permettergli di raggiungere l’oltretomba.
Ma lo specchio genera un’immagine di sé, permette di vedere la propria bellezza. Che può essere positiva o negativa. Quando è negativa, è legata al narcisismo e all’attaccamento dei beni terreni. Come tale, questa visione della vita, e quindi di se stessi, rimanda al Male, e ai due peccati capitali cui si ricollega: Vanità e Superbia. Tanto che nella Firenze del 1497, con il Rogo delle Vanità, durante il Martedì Grasso, i seguaci di Girolamo Savonarola bruciarono gli specchi.
Ecco allora già due simboli chiave del racconto: lo specchio ed il doppio che viene generato da esso e in esso.
Ma c’è un altro simbolo: è l’arma usata per uccidere.
“ – Il vero strumento? E quale sarebbe questo rumore?
– Lo schiocco di una frusta di pelle di serpente – rispose il dottor Fell”( op. cit. pag. 441).
Non è il fucile, che è servito solo a distogliere l’attenzione, illudendo i presenti che il rumore sentito fosse uno sparo, mentre invece era il rumore di una frusta. Ma è una frusta di pelle di serpente. Una frusta da mandriano. Che usata abilmente è stata avvolta al collo di Brenda, mentre era ancora seduta sul Trono di Re Artù con il collo avvolto da una sciarpa. Del resto la sciarpa era essenziale alla messinscena: se non ci fosse stata, si sarebbe visto sul collo il segno della frusta. Appoggiata alla curva della roccia dietro il sedile, la frusta, tirata verso l’omicida, l’aveva soffocata in pochi secondi. Poi, dovendo svolgerla dal collo, l’omicida aveva dovuto dare uno scatto verso l’alto, che aveva sollevato Brenda e l’aveva lasciato cadere nella sabbia, creando la situazione impossibile.
Il terzo simbolo non è però la frusta in sé, ma il materiale di cui è fatta: la pelle di serpente.
Non è stato il serpente, il male, Satana sotto mentite spoglie, a suggerire alla donna che era nuda? Eva molto spesso è ritratta col pomo, ma anche con lo specchio: superbia e vanità, sono spesso associati. Come in questo caso, perché vittima e carnefice sono espressione di debolezza: superbi e vanitosi.
Nell’ultima scena, tutti e tre i simboli sono presenti.
Fell inchioda l’assassino, che è ritratto mentre si specchia, e man mano che indietreggia si trova con le spalle vicino ad un altro specchio. E gli specchi sono dovunque:
“L’Ispettore Tregellis era riflesso dappertutto negli specchi, con la lunga frusta arrotolata sopra il braccio” (op. cit. pag 444);
lo specchio è come se ci rimandasse la faccia non evidente dell’assassino, quella che Fell mette in luce, la sua anima votata al male, il suo doppio:
“Guardatelo, tutti quanti! – disse il dottor Fell. – Persino quando viene accusato di omicidio, non riesce a togliere lo sguardo da uno specchio” (op. cit. pag. 443);
a conclusione dell’arringa di Fell, arriva l’Ispettore Tregellis che brandisce la frusta.
“Ma più che una frusta sembrava che stesse portando una corda..la corda del capestro” (op. cit. pag. 444).
La frusta che è formata da pelle di serpente.
In sostanza l’assassino è inchiodato alle sue responsabilità, ed è come se il serpente, il male del peccato originale, che aveva instillato nell’uomo la superbia e la vanità, ora reclamasse il suo prezzo: la morte e la dannazione, per chi lo ha scelto consapevolmente, mediante l’impiccagione.
Ma la vera condanna dell’assassino non si avrebbe senza un colpo di scena. La ricostruzione di Fell è perfetta, ma così raccontata in un’aula di un tribunale non avrebbe nessuna ragion di essere accettata, perché vi sono indizi, c’è l’arma dell’omicidio, c’è la presunzione che essa possa esser stata usata dall’assassino medesimo (che è un ricco possidente in Sudafrica, dove si usa il tipo di frusta rinvenuto), ma parrebbe che non ci fosse alcun testimone presente. Ed invece..
Invece la Provvidenza divina, il fato, la Giustizia divina, chiamatela come volete, che non può permettere che un assassino, che ha ucciso con l’aggravante diremmo noi “dei futili motivi”, cioè per cattiveria, vada impunito, si materializza ancora una volta in un racconto di Carr.
E’ rappresentato da una delle due cameriere, Sonia, infatuata dall’omicida. E’ come se qualcosa di sovrumano, che sfugge all’umano raziocinio, alla pianificazione di un delitto perfetto, si inserisse, una piuma che fa inceppare un ingranaggio ritenuto inceppabile, messo in moto inconsapevolmente ed inconsciamente da quello stesso vizio, la vanità, che è stata alla base dell’omicidio. Il desiderio di essere belli a tutti i costi, produce infatuazione in quelle donne che sono soggette a questo tipo di fascino esteriore. Una di queste è Sonia.
“…Vi avevo anche avvisato di aver interrogato le cameriere, Sonia e Dolly, le quali oggi avevano fornito solo risposte incoerenti. Mio caro signore, lei sottovaluta il suo fascino personale.
– Sembra che Sonia..abbia sviluppato una certa simpatia per lei. Quando stamattina ha sentito quell’ultimo “colpo” isolato, ha guardato di nuovo fuori dalla finestra. Ma lei non c’era…E questo l’ha colpita talmente che è corsa fuori sulla terrazza anteriore e si è accorta che lei era lì. L’ha vista, insomma.” (op. cit. pag.443).
E’ come se Carr emettesse un giudizio di massima, ancora una volta: il male non paga mai.
Pietro De Palma
sabato 15 settembre 2018
Shimada Soji : The Executive Who Lost His Mind (Hakkyō-suru Jūyaku) - Ellery Queen's Mystery Magazine, Agosto 2015
"The Locked House of Pythagoras"
(original title: P no Misshitsu) EQMM, Agosto
2013), "The Executive Who Lost His
Mind" (original title: Hakkyō-suru Jūyaku) (Ellery Queen's Mystery Magazine,
Agosto 2015), "The Running Dead"
(Ellery Queen's Mystery Magazine, Novembre-Dicembre 2017), The Executive Who Lost His Mind è il
secondo, ed è assieme al terzo più che una Camera Chiusa, un crimine con
sparizione impossibile. Inoltre, mentre in The Locked House of Pythagoras e in The Running Dead, chi risolve gli enigmi è il Mitarai interprete di The Tokyo Zodiac Murders, in The Executive Who Lost His
Mind, figura centrale è il Takeshi Yoshiki interprete di una serie alternativa di romanzi.
The Executive Who Lost His Mind ha un elemento molto marcatamente fantastico, che sconfina nell’Horror, prima di venir razionalmente spiegato.
The Executive Who Lost His Mind ha un elemento molto marcatamente fantastico, che sconfina nell’Horror, prima di venir razionalmente spiegato.
La storia è
raccontata da Yoshiki, un detective della polizia al narratore, che come spiega
al lettore, è un fan di mystery. In sostanza si parla di una vicenda che sconfinerebbe
nel fantastico se proprio Yoshiki non risolvesse il mistero.
Tutto accade
a Hibiya, dove ha sede una fabbrica. Un giorno un operaio, salendo nell’ufficio
del suo datore di lavoro, lo trova seduto alla scrivania che fissa una scarpa
femminile dal tacco alto posta davanti a lui, con l’espressione e lo stato
fisico di uno che ha perso la mente. E infatti poi lo ricoverano con un grave
esaurimento nervoso. Cosa era successo tanto da ridurlo così? Yoshiki racconta
l’avventura di quest’uomo, così come evidentemente l’aveva raccontata lui
stesso.
Il
protagonista è Shintaru Inudo, un 41enne capo d’industria rampante: la sua
fabbrica, un vecchio edificio, cade quasi a pezzi, almeno nei locali
adibiti al lavoro dei suoi operai, mentre
il suo studio è di tutt’altra pasta: nuovo, arredato con un divano scandinavo
ed una scrivania di pregio ed una collezione di rinomati e costosi brandy è a
disposizione. E per di più ha una bella vista sul giardino sottostante al piano
stradale: una distesa verde di forma triangolare, con un’oasi formata da cespugli
e arbusti posta al vertice di uno dei tre angoli. Quest’uomo, che non nutre
nessun rispetto per i suoi operai, ma fa la bella vita, ha una famiglia e due
figli in età scolare. E fin qui, poco male. Il fatto è che Shintaru è uno donnaiolo
della più laida risma: è attratto dalle donne, e con la scusa del lavoro fino
ad ore piccole, le porta nel suo grande studio sito nei piani alti della
fabbrica e fa sesso con loro.
Non è andata
sempre così bene. Anzi, da ragazzo ha avuto esperienze da riformatorio, e da
piccola delinquenza. Poi ha fatto vari lavori e ha anche venduto ghiaccioli.
Anzi, mentre ne stava vendendo, nell’estate del 1960, aveva incontrato una
ragazza, bella e sola e, approfittando del fatto che non ci fosse nessuno,
l’aveva violentata. Ikuko Koike, di antica famiglia, aveva portato con sé
questo ricordo scioccante e non ne aveva parlato neanche a suo marito, un
diplomatico. Fino al giorno in cui Shintaru Inudo aveva cominciato a
ricattarla. Lei avrebbe fatto di tutto perché la persona di suo marito e la sua
famiglia non fossero state interessate e quindi aveva pagato una grossa somma,
con cui Inudo,assieme a dei suoi amici aveva messo su una piccola fabbrica,
facendo sempre più carriera. Dopo un periodo in cui Ikuko non aveva più sentito
parlare del suo ricattatore, egli si era fatto vivo, e questa volta l’aveva buttata
sul sesso: Ikuko si sarebbe dovuta concedere sia a lui che ai suoi amici e
appagare le loro voglie sempre più spinte.
Anche quel
pomeriggio, Ikuko era da lui, nello studio della sua fabbrica: lui come al
solito le aveva chiesto di spogliarsi, ma questa volta si era fatto più
ignobile: l’avrebbe costretta a non ritornare a casa da suo marito e restare da
lui a sua disposizione per la notte e per questo aveva chiuso nella sua
cassaforte a combinazione i vestiti di lei: in mutandine e reggiseno non
sarebbe potuto mai andare via, senza scatenare un pandemonio. Questo pensava
Inudo andando via e lasciandola mezza nuda e sola nel suo studio. Ma al ritorno
non la trovò.
Possibile
che fosse andata via? Interrogando il personale di servizio seppe che si era
rivolta ad una donna delle pulizie per avere qualche suo vestito. Eppure il
guardiano giurava di non averla vista uscire, anche se lui talvolta dormiva
dopo avere bevuto.
Inudo la
chiama più volte, ma di Ikuko nessuno sa più nulla. Fino a quel maledetto
giorno del 1980 quando riceve una strana lettera in cui Ikuko lo contatta,
quasi dopo un anno. Una scrittura però strana: non quella elegante di Ikuko ma
goffa. Che gli chiede di farsi trovare nel suo ufficio di notte.
Inudo è
attratto da quella richiesta. Ma quando la notte dell’appuntamento si trova di
fronte non la Ikuko che conosceva ma quella che aveva violentato vent’anni
prima, ha un colpo. Prima di capire, per ammissione della ragazza, che non è
Ikuko, ma sua figlia. Una figlia segreta, tenuta a studiare in Francia, che era
giunta in Giappone sulle tracce della madre e fattasi riconoscere, aveva
trovato tra gli effetti della madre un notes e degli appunti da cui aveva
ricavato degli squallidi appuntamenti a cui aveva dovuto soggiacere la madre
con lui e i suoi amici, e il ricatto in soldi che aveva dovuto sborsare.
In quegli
appunti c’è la condanna di Inudo. Ci sono le prove che potrebbero distruggere
la sua vita e l’onore della sua famiglia. E allora matura la decisione di
uccidere la ragazza. Inudo pianifica come potrebbe fare per non destare
sospetti ed esce dal suo studio; dopo aver pianificato tutto, vi rientra ma non
trova in un primo tempo la ragazza; si accorge dopo della sua presenza, e
allora lei capisce i piani dell’uomo, anzi lui le grida che deve ucciderla
perché lui non corra rischi. I due lottano, lui perde gli occhiali, ma alla
fine fa volare la ragazza fuori dalla finestra. Si sente un urlo, uno stridio
di freni ed un rumore come di un corpo che atterra su qualcosa; poi di nuovo il
rombo di un motore che va via.
Inudo è
senza occhiali. Deve innanzitutto chiudere la finestra per evitare che si pensi
che la ragazza sia caduta da lì. Poi recupera gli occhiali e scende.
La ragazza è
lì. Stranamente è caduta sotto la finestra, nel giardino vicino agli arbusti.
Vede i suoi capelli, da dietro. La ragazza è affondata nel terreno, da esso
emerge solo il busto, la testa e le braccia. Vicino al corpo c’è una delle
scarpe col tacco alto della ragazza. Più si avvicina più Inudo nota delle
stranezze: le braccia sembrano più magre, anche i fianchi come se avesse perso
peso cadendo. Ma poi quando si trova dinanzi alla ragazza, i suoi occhi si
dilatano dall’orrore: la pelle ha un colorito marrone, il petto è avvizzito,
tanto che il reggiseno pende al vento e al posto della faccia vi è un volto
mummificato con al posto degli occhi due buchi. Solo i capelli sono rimasti
quelli di prima. Inudo è sconvolto, i suoi capelli sono diventati bianchi dal
terrore, dalla bocca cola una bava, gli occhi sono sbarrati, raccoglie la
scarpa e ritorna barcollando in ufficio, dove lo trova l’operaio. La ragazza,
volando dalla finestra, era ridiventata quella di un tempo: la donna che
sembrava essere la figlia di Ikuko era in realtà già l'Ikuko morta che era
tornata in vita
e che poi volando dalla finestra era ridiventata quella che era?
Inudo se ne
è convinto e per questo è impazzito.
Ma la storia non può avere una soluzione
irrazionale. E’ Yoshiko a svelare invece una soluzione assolutamente razionale,
in cui entra prepotentemente la collocazione degli arbusti nel giardino: il
cadavere ritrovato da Inudo è quello di Ikuko, la donna che si riteneva
scomparsa quasi un anno prima. Come era scomparsa? Rimasta in mutandine e
reggiseno, non sopportando l’onta e il disonore, si era buttata dalla finestra
e….
E la ragazza
che era volata dalla finestra davanti a Inudo? Era davvero la figlia di Ikuko,
anzi era anche la figlia di Inudo, la figlia di quella violenza carnale patita
da Ikuko, cresciuta in Francia lontana da tutti. La figlia ritornata in patria,
per capire se davvero Inudo era responsabile della scomparsa della madre, se
l’avesse uccisa.
Che fine ha
fatto? Yoshiko, risolve anche questa scomparsa con la sua pura deduzione,
spiegando l’origine dei rumori che Inudo aveva sentito privo degli occhiali. E
anche la presenza della scarpa, e la presenza di segni di pneumatici sul
marciapiedi del giardino e tangenzialmente agli arbusti.
E così da
una soluzione perfettamente razionale ad un problema che navigasse nel mare del
fantastico.
Dico subito
che questo dei tre è il racconto più metafisico, ed è anche il più letterario,
quasi un’opera d’arte: Soji va oltre il semplice racconto mystery e crea
qualcosa che ha origini lontane, con una scrittura finissima ed estremamente
allusiva. Un storia al limite del noir, dell’orrore puro, ma che poi, come il
doppio finale di The Burning Court di
Carr, spiega il finale che sembrerebbe relegato alla dimensione fantastica (un
morto che rivive, ma che nell’attimo in cui dovrebbe morire, ritorna ad essere
il corpo morto che era prima) con una soluzione perfettamente razionale,
veramente sorprendente.
A definire
la natura letteraria di questo piccolo capolavoro, le figure retoriche: per
esempio, la fabbrica cadente nelle strutture dove lavorano gli operai e invece
splendente di oggetti preziosi lo studio di Inudo, non è una metafora
dell’anima di Inudo stesso, della sua disarmante e vile persona, gretta e
debosciata e cadente nella sua intimità, ma riconosciuta come splendente e
ricca nella sua esteriorità? E la doppiezza degli ambienti della sua fabbrica e
della sua anima, è anche la doppiezza che egli applica al rapporto con le
donne: sua moglie e i suoi figli sono espressione del suo tentativo di crearsi
una sua aura di rispettabilità, le donne che egli paga per farci sesso e quelle
che conquista le porta nel suo studio, il suo mondo segreto, precluso a tutti
fuorchè a lui e alle sue conquiste estemporanee. Ma non finisce qui la vena
letteraria di questo racconto: infatti la tragedia di un uomo che violenta una
donna, che partorisce un figlio (una figlia) che ritorna nei luoghi natii alla
ricerca di risposte e che rischia di morire per mano del padre, ma che poi lo
uccide ( uccide l’anima: la pazzia è la morte della personalità) riducendolo ad
un vegetale, sembra tratta da qualche tragedia greca: per esempio quella di Creusa
violentata da Apollo che genera un figlio che abbandona in un posto lontano?
Al di là di
questo, il racconto ha tutte le sembianze di un racconto dell’orrore, fin
quando Yoshiki non rivela la sua verità allo sbalordito lettore di gialli e
narratore, ricamando una soluzione assolutamente perfetta e precisa, in cui i
rumori hanno una valenza visiva, perché, quando spiegati, ricreano visivamente
quello che è accaduto realmente. E il cadavere affondato a metà nel terreno è
quello di Ikuko scomparsa otto mesi prima, caduta nella macchia e lì marcita
senza che nessuno se ne accorgesse: del resto, la scusa di Yoshiko, affonda
nella realtà di ogni giorno: quante persone scompaiono, e magari un giorno se
ne trovano i resti, senza che nessuno si sia preoccupato della loro mancanza o
anche di certi odori?
Ancora una
volta Shimada rivela una vena matematica: ognuno dei delitti presenti in
ciascuno dei tre racconti, viene spiegato o con teoremi matematici, o con
figure geometriche, o con piantine molto precise e per nulla affidate al caso.
Si può dire che il caso non entri mai, salvo che in The Running Dead, quando la potenza del vento fa sì che…ma che
invece tutto sia accuratamente pianificato. E qui, dove a differenza dei due
precedenti racconti (in realtà questo è il secondo e viene dopo Pitagora) non
c’è quasi sangue (nel terzo non ce n’è ma possiamo immaginarlo pensando a cosa
deve essere rimasto di un corpo investito da un treno), in realtà l’orrore e la
malvagità, l’indifferenza al destino altrui e un egoismo ed una vanità
spaventosi connotano la storia più cattiva e più indimenticabile delle tre.
Pietro De Palma
sabato 8 settembre 2018
Keigo Higashino: Filastrocca per l'assassino (Hakuba Sansō Satsujin Jiken,白馬山荘殺人事件?, 1986) - trad Lydia Origlia - Il Giallo Mondadori N.2672 del 2000
Keigo
Higashino è uno scrittore giapponese molto conosciuto (anche in Italia ) non
solo per alcuni suoi romanzi tradotti, ma anche per il soggetto della
famosissima serie cartoon, Detective Conan.
In
Italia già parecchi suoi romanzi sono apparsi:
Il
primo comunque ad essere pubblicato nel 2000 da Mondadori nella collana de Il Giallo Mondadori, col titolo Filastrocca
per l’assassino fu Hakuba Sansō Satsujin Jiken (白馬山荘殺人事件?) del 1986.
Era
stato anni fa il secondo romanzo di Kigashino ad essere stato pubblicato, dopo
l’esordio fulminante dell’anno prima di Hōkago (放課後?), un romanzo con un delitto in una camera chiusa anzi…in uno
spogliatoio di una scuola, chiuso dall’interno.
Anche 白馬山荘殺人事件 che
significa “Il caso di omicidio di Hakuba Sanso” in realtà è una camera chiusa,
ma il romanzo non si impernia su di essa ma su una serie di delitti, la cui
spiegazione è affidata alla comprensione di una serie di filastrocche di Mamma
Oca.
Infatti
Makoto e Naoko, due amiche intime, fanno un viaggio alla volta della pensione
di Hakuba Sanso, una costruzione a forma di L, in mezzo alle montagne, dove ha
trovato la mort, un anno prima, il fratello di Naoko, Koichi Hara. Naoko non si
fa registrare alla pensione con il suo vero cognome ma con un altro, per non
rendere palese la sua consanguineità col fratello e poter svolgere le indagini
in tutta calma: infatti entrambe non sono persuase della motivazione di morte
data dalla polizia: suicidio. Il ragazzo è vero che era piuttosto chiuso, ma la
sorella è persuasa che non avrebbe mai fatto un gesto simile, tanto più che non
aveva mai dato luogo a manifestazioni di depressione violenta. Tuttavia se la
polizia ha dato quella motivazione, è perché il giovane è stato trovato nella
sua camera, chiusa dall’interno, e con la finestra ermeticamente chiusa, e dopo
aver fatto esperimenti ha sancito che non poteva essere in alcun modo rinchiusa
dall’esterno.
Tuttavia
le due amiche, che fanno conoscenza con due coppie di persone e con una serie
di individui, più o meno strani, vengono a sapere dell’esistenza nella
pensione, di una serie di incisioni, una per ogni camera, recante ognuna una
delle filastrocche di Mamma Oca, sia nella versione inglese che in quella
tradotta giapponese; e vengono anche a sapere della strana disposizione
testamentaria della padrona di quella casa, una inglese, vedova, che alla morte
del marito, l’aveva venduta per pochi soldi, ad un amico giapponese del marito,
che lì avrebbe voluto impiantare una pensione: in sostanza, non avrebbe dovuto
spostare dalle camere quei quadri.
Ciascuna
camera ha un nome particolare.
Naoko
viene a sapere il fratello prima di morire di era interessato accanitamente a
quelle filastrocche, tanto da procurarsi il libro originale in inglese di Mother Goose, anche se del libro non era
stata trovata alcuna traccia.
A
queste strane filastrocche, che secondo lui sarebbero dovute essere lette
secondo un ordine ben preciso, e avrebbero celato un significato nascosto, si
aggiungono altri interrogativi (che noi chiamiamo Subplots): la morte due anni
prima di un gioielliere, Kawasaki, malato terminale di cancro, fuggito da casa d’inverno
con una cassetta piena di pietre preziose e diamanti, destinata ad un suo
figlio illegittimo, e riparato presso quella pensione, che era stato ritrovato
nella scarpata di un ponte di pietra, franato nel mezzo, come se fosse
scivolato sul ghiaccio; una strana statuetta della Madonna, con due corna; la
morte, mentre le due amiche dimorano nella pensione, di un tipo, Oki, che aveva
sentito rientrare nel cuore della notte in camera, proveniendo non si sa da
dove fuori della casa, e tendendo presente che fuori la temperatura era
sensibilmente bassa e c’era neve e ghiaccio. In verità prima che Oki venga
ritrovato morto, sfracellato anche lui nella scarpata sotto il ponte, le due
ragazze avevano trovato sotto il ponte un asse nuova di legno, pesante e
stabile che forse qualcuno avrebbe potuto utilizzare come passarella per
passare al di là del ponte, forse Oki. Quando lo trovano morto, la polizia
trova anche un asse, che non è quella che le due ragazze avevano trovato, ma
un’altra, vecchia e tarlata, con le orme dell’uomo. E’ evidente che qualcuno,
fidandosi dell’oscurità, avesse cambiato l’asse sotto il ponte, e Oki pensando
che fosse la sua, l’avesse utilizzata, rompendosi essa e morendo lui.
Naoko
si confida a Muramasa, l’ispettore di polizia, che sembra essere meno
intelligente di quel che si pensa fino a quando lui scopre una cosa a cui le
ragazze non avevano pensato: la carbonaia, il luogo che c’è al di là del ponte.
In attesa di vedere come la carbonaia possa essere collegata al resto, le due
ragazze fanno una scoperta: ogni primo verso della filastrocca non finisce con
una virgola come gli altri versi, ma con un punto. Leggendo ogni prima frase
accanto a quella di ognuna delle filastrocche presenti nelle varie stanze,
comprendono di avere un testo, in pratica un codice cifrato, nascosto.
E così
comprendono il messaggio finale che allude a qualcosa sepolto laddove in un
certo periodo dell’anno le ombre dei due monconi del ponte crollato, si
allungano e per un attimo lo restituiscono intero. Quando vi si recano, trovano
ad attenderli l’ispettore e il suo attendente, che hanno capito tutto: una
cassetta di legno c’è ma è vuota.
A
questo punto l’Ispettore, come in un romanzo anglosassone, convoca tutti i
clienti della locanda e il personale in una sala della stessa ed espone i
fatti, risolvendo il problema della Camera Chiusa e ovviamente individuando il
colpevole, anzi..i colpevoli. Perché l’omicida ha avuto un complice.
Responsabili anche delle altre due morti.
La
storia finirebbe qui ma lascia un grande quesito al lettore attento: se la
pensione esisteva da prima che arrivasse il gioielliere, e pure le
filastrocche, com’è possibile che facessero riferimento ad un luogo posteriore
nel tempo? A questo non indifferente quesito pone rimedio un doppio finale, in
cui Makoto e Naoko, rivedendo la propria soluzione delle filastrocche capiscono
di aver fatto un errore e che invece del tramonto per osservare le ombre, si
parla dell’alba, quando le ombre si ricongiungono in un’altra parte di terreno.
Anche qui trovano una cassa, più grossa
e dentro uno scheletro, quello di un bambino, del figlio dell’antica
padrona della pensione, l’inglese che aveva venduto tutto a Kirihata prima di
uccidersi. Non a caso una delle filastrocche faceva riferimento ad una
sentinella, a qualcuno sepolto sotto il ponte, erede di una tradizione macabra
medievale, quella di seppellire viva una persona dentro le fondamenta di un
ponte o di un castello, per una sorta di protezione magica.
Un
triplo finale, spiegherà la presenza di un pezzetto di ferro, trovato da chi
era insieme a Naoko e Makoto all’apertura della cassa, e occultato prontamente,
testimone della morte di un bambino durante una tormenta di neve, e poi di una
signora inglese, che era costata la felicità anche di un’altra persona.
Romanzo
notevole di Kigashino, si apparenta per
un’atmosfera costantemente triste più che macabra, e per una fantasia
straripante, forse anche troppo straripante, che appassiona ma talora frastorna
anche.
Nel
romanzo si distingue 1 plot , sostantazialmente, cioè la morte di Koichi Hara
all’interno di una Camera Chiusa, e vari subplots che dipendono direttamente o
indirettamente dal plot: le filastrocche, la morte del gioielliere Kawasaki e
la sparizione delle pietre preziose che portava con sé, la morte del bambino
dell’antica padrona della pensione e di lei stessa per suicidio, la morte di Oki
durante l’avventura delle due ragazze nella pensione.
Tutto
viene spiegato dettagliatamente, persino l’improbabilità di reperire un veleno
così raro come l’aconitina.
Interessantissimo
il meccanismo della Camera Chiusa:
Koichi Hara era stato trovato avvelenato nella
sua camera da letto, la cui finestra era chiusa dall’interno, e la stessa
porta, e chiusa era stata trovata anche la porta che comunicava col corridoio,
perché la stanza si componeva di una camera da letto e di un salottino esterno
ad essa. I tempi del suo ritrovamento erano stati tre: prima Takase, un giovane
dipendente aveva trovato chiusa la porta della camera da letto, poi aveva
trovato chiusa anche la porta che dava sul corridoio, e infine era andato ad aprire entrambe con un
passe-partout trovando morto l’ospite. Ora per come ho capito dopo aver letto e
riletto parecchie volte il passo, l’assassino avvelena la coca cola di Harata;
poi lascia il complice nella camera da letto, e quest’ultimo chiude la porta
dall’interno con serratura a scatto automatica e la finestra col chiavistello. L’assassino
va a chiamare Takase e gli ricorda che Hara ancora non si è fatto vivo per la
cena. Entrambi vanno e trovano la camera da letto chiusa dall’interno. Poi l’assassino
convince Takase ad andare a vedere di avvertire Hara attraverso la finestra, ma
ovviamente è chiusa. Tutto per far capire a Takase che entrambe, porta e
finestra siano inaccessibili. Intanto arriva Takase che bussa: il complice è
ancora nella stanza. Dopo che Takase va via, il complice riapre la porta della
camera da letto e va a chiudere la porta che dà sul corridoio; poi attraverso
la finestra della camera da letto, esce fuori lasciandola socchiusa e rientra
in casa. Mezzora dopo, l’assassino rientra dalla finestra, chiude dietro di sé la
finestra e la porta della camera da letto e si nasconde dietro il divano.
Intanto la complice ha convinto Takase ad entrare usando il passe partout. Dopo
aver aperto la porta del salottino, e poi quella della camera da letto, lui
sguscia fuori da dietro il divano e va via, riuscendo a materializzarsi dietro
Takase, come se stesse giungendo da altro ambiente della pensione. E il gioco è
fatto! E’ un’altra di quelle grandi camere chiuse che per la loro
spettacolarità e difficoltà, devono necessariamente abbisognare di una
messinscena in cui entrino per forza due persone, che agiscono a turno per
truccarla.
Per
comodità ho diviso l’azione tra assassino e complice, ma nella realtà dei
fatti, è più probabile che il complice abbia assassinato Koichi mentre l’altro
ha provocato la morte di Osaki che li ricattava. In sostanza abbiamo due
soggetti uniti da un patto criminale che assassinano a seconda
dell’opportunità. Interessantissima la soluzione come si vede. Tuttavia lascia
uno spiraglio, che per me rende la
soluzione un po’ debole: il passe partout. L’esistenza di un passe partout, e
il fatto che le camere siano aperte da Takase, riduce l’impossibilità di
parecchio: qui non abbiamo porte chiuse dall’interno mediante chiavistelli e/o
con chiavi inserite dentro, ma porte chiuse con serrature a scatto. In
definitiva, chiunque dotato di passe partout senza fare il macello descritto,
sarebbe potuto entrare ed uscire comodamente. Perché questo non potesse
verificarsi si sarebbe dovuto eleminare dai sospetti sia Takase e Kirihara,
rispettivamente dipendente e padrone della pensione. Non solo. Chiunque sarebbe
potuto entrare col passe partout, se dipendente . E dipendenti sono anche
Kurumi, la cameriera; e lo chef. Quindi si sarebbero dovuti eliminare anche
loro dai sospetti. Quello che il romanzo non dice abbastanza è sul passe
partout: sull’impossibilità che esso potesse essere usato anche dagli altri; e
sull’innocenza di Kirihara e Takase.
Al di
là di questo punto debole, il romanzo è un tripudio di situazioni misteriose,
una vera bellezza.
Hakuba Sansō Satsujin
Jiken diversamente dai romanzi più posteriori, di taglio più psicologico
e più forti, procede nel verso del
Mystery di ispirazione anglosassone, anzi quasi ne è un tributo. Ovviamente ci
mette del suo: lo si vede soprattutto nell’atmosfera, nelle descrizioni sempre
molto vivide, nei paesaggi e nei riferimenti tipicamente asiatici (i due
tronconi del ponte crollato vengono paragonati a due draghi, madre e figlio che
si guardano l’un l’altro). Però il riferimento ai temi anglosassoni è
chiarissimo: La filastrocca di Mamma Oca, già utilizzata in romanzi di Agatha
Christie, S.S. Van Dine ed Ellery Queen.
Ora che Christie, Van Dine ed Ellery Queen, abbiano influenzato la
cultura giallistica nipponica, è un fatto assodato; e anche in maniera alquanto
marcata. E allora come non riconoscere l’influsso di alcuni loro romanzi su questo
di Higashino?
Tra i tre romanzi (There
Was an Old Woman del 1943, di Ellery Queen; The Bishop Murder Case di Van Dine, 1928,
che si sarebbe dovuto chiamare in origine The
Mother Goose Murder Case; A Pocket full of Rye, del 1953 di Agatha
Christie), quello che forse può aver avuto maggiormente peso è proprio quello
di Agatha Christie: infatti in entrambi i romanzi, la vittima del plot, è
uccisa mediante un veleno: aconitina come nel caso di Higashino, tassina in
quello di Agatha Christie. E in entrambi i casi, trattasi di veleni assai poco
conosciuti e difficili da procurarsi anche se mortali: l’aconitina si ottiene per
distillazione delle radici dell’aconito, un pianta dai fiori azzurri; la
tassina, per distillazione di foglie, rami e semi dell’albero del tasso, detto
albero della morte (la bacchetta magica di Valdemort, in Henry Potter , è fatta
di legno di tasso). Altro indizio che ci porta da Agatha Christie, è la figura
dell’Ispettore Muramasa. Infatti a pag.111 leggiamo: “Naoko pensò che l’uomo somigliava al famoso investigatore Poirot. Non
che la sua immagine si sovrapponesse perfettamente a quella del celebre
personaggio, era la scena ad evocarla: le pareva infatti di averla già vista”.
Per il meccanismo della Camera Chiusa, se devo dire la verità, questa
mi ha riportato alla mente, ma probabilmente è solo associazione di idee, la
prima camera Chiusa di Whistle Up The Devil di Derek Smith, anche per la
funzione che ha la finestra e la partecipazione di un complice alla riuscita
del piano.
Quel
che colpisce, è come dicevo l’atmosfera triste che pervade la storia. Ora i
romanzi nipponici sono di solito tristi, melanconici. Non so se sia una
caratteristica loro, oppure se quest’aura di pesantezza sia derivata dal
bombardamento nucleare del 1945. Non lo so. Fatto sta che di solito i romanzi e
i racconti nipponici non sono certo allegri. E normalmente sono pieni di
sangue. Qui invece c’è un accadimento diverso: neanche una goccia di sangue.
La
Camera Chiusa non condiziona tutto il romanzo, ma, esposta all’inizio della
storia, viene abbandonata e sostituita da tutta un’altra serie di vicende,
soprattutto il mistero delle filastrocche, per poi essere ripresa alla fine,
quando viene spiegata: un po’ come lo stesso procedimento che vediamo esposto
nel capolavoro di Alan Thomas: The Death of Laurence Vining. Da questo punto di
vista sembra un mystery anni Trenta; e un’altra caratteristica che ci porta di
filato alla miglior tradizione anglosassone, è la piantina che troviamo
descritta, così come Takate la schizza per desiderio di Makoto e Naoko. E poi
la spiegazione di Muramasa e l’individuazione dei colpevoli, fatte nel mentre
di una riunione nel salone dell’albergo davanti a tutti gli attori del dramma:
altra caratteristica peculiare dei gialli anglosassoni.
Insomma,
un bellissimo romanzo, che non sarebbe male riproporre in Italia.
Pietro De Palma
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