Anni fa, Roland Lecourbe, noto critico di letteratura poliziesca,
pensò di creare una guida ideale alla Letteratura delle Camere Chiuse,
invitando una serie di conoscitori del genere, quelli che a lui
risultavano essere al momento i massimi: tra essi, innanzitutto Robert
Adey, estensore di una celeberrima bibliografia sul genere, “Locked Room
Murders and Other Impossible Crimes: A Comprehensive Bibliography” e
insieme a Jack Adrian co-autore di una antologia di straordinarie camere
chiuse (racconti) pubblicata in Italia da Garden Editoriale, “The Art
of the impossibile”. Assieme a Robert Adey, furono invitati : 3 esperti
belgi (M.Soupart, Philippe Fooz, V. Bourgeois), uno studente che aveva
scritto una tesi sulla Letteratura delle Camere Chiuse (Roman Brian), 2
traduttori dei romanzi di Paul Halter (J.Pugmire e I. Longo), il
coeditore del Mystery Scene Magazine (Brian Skupin). Tutti quanti,
assieme allo stesso Lecourbe, avrebbero dovuto stilare una lista di
Camere Chiuse, che fossero il meglio del genere, un po’ una sorta di
revival ampliato di quell’altro incontro, patrocinato da Edward D. Hoch[i]
nel lontano 1981, e cui avevano partecipato grandi nomi della
letteratura e della critica poliziesca (diciassette per l’esattezza[ii]),
a corollario dell’introduzione dell’antologia da lui curata “All But
Impossibile”: se dall’incontro promosso da Edward D. Hoch era stata
prodotta una lista comprendente 14 romanzi, dall’incontro patrocinato e
organizzato da Lecourbe, ben 99 Camere Chiuse furono elencate, come i
migliori esempi del genere. Questa lista ampliava quella essenziale,
stilata sedici anni prima, includendo opere anche di autori di lingua
francofona, prima d’allora non esaminati. I risultati furono acclusi in
appendice all’antologia, pubblicata nell’aprile 2007, dal titolo
“Mystères à Huis Clos”. Notiamo che tra gli esperti dell’incontro
francese figurava il consulente editoriale del Giallo Mondadori, Igor
Longo, traduttore di molti degli Halter, dei tre Steeman più recenti, e
degli Abbot pubblicati in Italia da Mondadori, anni fa.Tra i molti
autori che prima non erano stati inclusi, troviamo ovviamente i francesi
(Noel Vindry, Marcel Lanteaume, Stanislas Andrè Steeman, Gaston Boca,
Pierre Boileau anche in associazione con Thomas Narcejac, Pierre Siniac,
Paul Halter, Jean Alessandrini, Herbert & Wyl, etc..), ma anche
parecchi autori di lingua inglese (A. Abbot, A.Boucher, C.Brand,
I.Asimov, Leo Bruce, F.Brown, E.Crispin, Freeman Wills Crofts, etc..).La
cosa che ci interessa sottolineare è che non vennero prese in esame,
perché novelle, 2 opere famose: “The Big Bow Mystery” di Israel Zangwill
e “The Third Bullet” di J.D.Carr.Opera famosa “The Third Bullet” ? Da
noi, possiamo dire che sia quasi sconosciuta, o almeno non conosciuta
come le grandi Camere degli anni ’30: The White Priors Murders, The
Judas Window, The Three Coffins, ma, nel novero delle opere di Carr, è
una delle più interessanti, e vedremo perché.Innanzitutto è da dire che
di questo racconto esistono due versioni: la prima, pubblicata a nome
Carter Dickson, nel 1937, piuttosto lunga (l’edizione è di circa 128
pagine); ed una più corta, pubblicata prima nell’EQMM del gennaio 1948 e
poi nell’antologia, “The Third Bullet and Other Stories”, nel 1954, a
firma John Dickson Carr, assieme ai racconti”The Clue of the Red Wig”,
“The House in Goblin Wood” (Sir Henry Merrivale), “The Wrong Problem”
(Dr. Fell), “The Proverbial Murder” (Dr. Fell), “The Locked Room” (Dr.
Fell), and “The Gentleman from Paris.” Il racconto nella versione
originale è stato ripubblicato nella raccolta del 1991, “Fell and Foul
Play”.
In Italia la versione del 1937, secondo alcune fonti (Il
Dizionario Bibliografico del Giallo, il Pirani per intenderci ) pare
esser stata pubblicata da Mondadori quasi quarant’anni fa (“Ellery Queen
presenta”: Inverno Giallo 1972, The Third Bullet, Il terzo
proiettile, traduz. Hilia Brinis) e dieci anni fa da Polillo, nella
collana I Bassotti, all’interno della raccolta “I Delitti della Camera
Chiusa”, con la traduz. di Giovanni Viganò: noi faremo riferimento a
quest’ultima, perché la prima non è molto facile a reperirsi. In realtà
alcune ipotesi ci porterebbero a ritenere che non si sia tradotta la
versione originale, ma quella accorciata, prima fra tutte il fatto che
sia la traduzione di Hilia Brinis che quella di Giovanni Viganò fanno
riferimento come autore, non a Carter Dickson, bensì a John Dickson Carr[iii]La
versione accorciata si spiega col fatto che, per essere compresa nella
pubblicazione “Ellery Queen Mystery Magazine”, il racconto non poteva
mantenere intatta la sua lunghezza ( era un romanzo breve) e a questo
provvide Frederick Dannay (uno dei due cugini autori di Ellery Queen)
col consenso di Carr stesso, come è spiegato nella bibliografia su Carr a
firma di Douglas G. Greene[iv].
The Third Bullet
è una grande Camera Chiusa, costruita seguendo puntigliosamente le 20
regole per la costruzione del poliziesco, di S.S. Van Dine: un giudice
viene ucciso in un padiglione. Fin qui nulla di strano: le cose
cominciano a complicarsi allorché si riscontra che il probabile
assassino non ha ucciso il giudice e oltre alla sua nella stessa camera,
nell’attimo in cui lui ha sparato, altre due armi hanno fatto fuoco, di
cui una ad aria compressa; solo che di una che viene trovata, non viene
trovato il proiettile mentre dell’altra, vien trovato il proiettile ma
non l’arma. In altre parole una doppia volatilizzazione, oltre quella
ancor più sconcertante degli sparatori, in quanto nel momento in cui
l’indiziato, poi arrestato ha fatto fuoco, mancando il giudice, nessuno
ha visto altre persone: infatti casualmente sul luogo della sparatoria
c’erano dei poliziotti: uno ha avuto sotto controllo l’uscita del
padiglione interna (nel corridoio) e da lì nessuno è scappato, la
finestra centrale è stata attraversata da un altro, e quelle del lato
ovest sono così arrugginite e incrostate che neanche Ercole sarebbe
capace di aprirle. Eppure lì vengono trovate delle impronte come se
qualcuno fosse uscito da lì, mentre il proiettile, che prima non si
trovava, si trova infisso nel tronco di un albero non essendo però in
linea retta rispetto al punto dove si suppone sia stato fatto fuoco, ma
alla fine di una traiettoria curvilinea: vi ricordate la teoria del
proiettile vagante fatta per spiegare che ad uccidere Kennedy fosse
bastato solo Lee Oswald? Ecco..così. Insomma un fuoco pirotecnico di
enigmi e di situazioni impossibili.Il lungo racconto tuttavia è
interessante secondo me anche per altri motivi, che a prima vista
sembrerebbero essere di assai relativa importanza.Innanzitutto
il protagonista di questo racconto è il Colonnello Marquis: è un
personaggio che appare solo in questa opera e poi..scompare. O
meglio..Carr dice che egli sarebbe stato “”probably a mental forerunner
of Colonel March”[v];
ma, se davvero ciò fosse stato vero, il Colonnello March , a Capo della
Sezione D-3 Omicidi Bizzarri, che Carr definisce “Department of Queer
Complaints”, avrebbe dovuto conservare delle caratterizzazioni del
proprio progenitore; invece, a ricordare una possibile filiazione, è il
gruppo di tre lettere che inizia il cognome: Marquis – March.L’
aspetto di Marquis è molto dissimile da quello che sarà quello del
Colonnello March, a capo del Dipartimento D-3, Casi Bizzarri[vi],
in cui peraltro (lentiggini, basette, baffi) si cumuleranno
caratteristiche dei Watson carriani , Masters e Hadley: “..un uomo
amabile e imponente (peserà almeno un quintale) dalla faccia
lentigginosa, gli occhi azzurri vivaci e cordiali, ed una pipa
estremamente corta che gli sporge da sotto i baffi ben curati, di un
colore incerto, tra il grigio ed il sabbia” (J.D.Carr, The New Invisibile Man, Il nuovo uomo invisibile, dalla raccolta Department of Queer Complaints,
traduz. Mauro Boncompagni, Supergiallo Mondadori n.21 “La porta sul
delitto”, 2001, pag.8). Inoltre, come è costumanza di Carr, egli per
March prenderà a prestito la fisionomia e personalità di qualcuno che
ben conosceva: così come Merrivale ricalcherà Churchill, e Fell
Chesterton, così March sarà creato guardando come modello, a John
Rhode, grande scrittore, amico suo (con cui scrisse a quattro mani Fatal Descent,
“Discesa Fatale”). Tante altre volte Carr prenderà a prestito nei suoi
romanzi, personaggi veramente esistiti: per es. in The Bowstring
Murders egli creerà John Gaunt, probabilmente guardando a quel John di
Gaunt, quartogenito di Edoardo III, Duca di Lancaster e d’Aquitania,
capostipite dell’omonimo casato reale dei Lancaster e tutore di Riccardo
II, che ritornerà in tanti romanzi di Paul Harding pseudonimo di Paul
Doherty (serie di Fratello Athelstan); e nello stesso The Burning Court,
La Corte delle Streghe, due personaggi ricalcheranno quelli storici:
Marie d’Aubray , guarderà volutamente alla celebre avvelenatrice La
Marquise de Brinvilliers; e Gaudan Cross, sarà contrapposto al Cavaliere
Gaudin de Saint-Croix (Croix in inglese è Cross cioè Croce), per non
parlare di Mark Despard, il vicino di casa di Edward Stevens, la cui
moglie si assomiglia in modo sconcertante alla celebre avvelenatrice del
‘600, che muore avvelenato da una misteriosa dama vestita con un abito
seicentesco: Mark Despard richiama alla mente quel Desgrais o Desgrez o
anche Desprez (Despard-Desprez), affascinante capitano di alcune truppe
acquartierate vicino al convento dove si aveva certezza che si fosse
rifugiata l’avvelenatrice (usufruendo della extra-territorialità e del
diritto di asilo di cui godevano le istituzioni ecclesiastiche), che
riuscì a far uscire dal convento la Brinvilliers, e ad arrestarla.[vii]A sua volta Marquis è raffigurato così : “Sul
bordo della scrivania del vicecommissario, un giornale era piegato in
modo da mostrare parte di un titolo: “II giudice Mortlake assassinato…”.
Sopra il giornale c’era un modulo di rapporto, compilato nell’ordinata
grafia dell’ispettore Page. Sopra il modulo, bene accostate, giacevano
due pistole. Una era un revolver Ivor-Johnson, calibro 38. L’altra una
Browning automatica, calibro 32. Sebbene fossero appena le undici del
mattino, una luce livida e plumbea penetrava dalle finestre che si
affacciavano sull’Embankment e la lampada dal paralume verde, sopra la
scrivania, era accesa. Il colonnello Marquis, vicecommissario della
Polizia Metropolitana, si appoggiava comodamente alla spalliera e fumava
una sigaretta, con aria volutamente cinica. Il colonnello Marquis era
un uomo lungo e smilzo, al quale le palpebre spesse e un tantino rugose
conferivano un’espressione un po’ sardonica. Non era calvo, ma i
capelli bianchi cominciavano a diradarsi sul cranio, quasi a voler
imitare i baffi, ridotti al minimo. La faccia ossuta era quella
inconfondibile del militare, nonché quella altrettanto inconfondibile
del militare in congedo; e la ragione diveniva evidente quando lui si
alzava in piedi: era claudicante. Ma gli occhi erano piccoli e vivaci, e
l’espressione divertita” (Carter Dickson, The Third Bullet, Il
terzo proiettile,ed. 1937, in “I Delitti della Camera Chiusa”, traduz.
Giovanni Viganò, Polillo Editore, collana “I Bassotti”, 2007, pag. 87-88). Tuttavia
possiamo ben affermare che il modo con cui viene tratteggiato nel corso
del lungo racconto il Colonnello Marquis, tiene conto delle
caratteristiche di altri personaggi carriani. S.T.Yoshi dirà :
“Toward the end note is made of his “deplorable foundness for flourish
and gesture”, but this is equally a trait of Bencolin, Fell, Merrivale,
and even Rossiter and Gaunt”[viii].Non
possiamo non esser d’accordo con Yoshi : infatti il Colonnello Marquis
ricalca molti dei tratti degli altri più famoso detectives carriani. Per
esempio talora il Colonnello, pur claudicante, per la contentezza, si
abbandona a sconcertanti manifestazioni di esultanza: “..Page capì che,
se non fosse stato zoppo, il superiore si sarebbe messo a
ballare”(Carter Dickson, op. cit. , pag.111), manifestazione che ci fa
chiaramente pensare al Dottor Fell; altrove Marquis si presenta molto
elegante: “..in cappotto blu scuro e cappello grigio perla, il
Colonnello Marquis era un vero figurino..”(Carter Dickson, op. cit.,
pag.121) : qui possiamo guardare al Juge d’Instruction Henri
Bencolin.Certo è che la prima cosa che balza agli occhi è la differenza
del nome: Marquis per noi guarda alla Francia, March all’Inghilterra.
Carr sembrerebbe essersi dimenticato delle atmosfere nebbiose e cariche
di mistero della Parigi bencoliniana e guardare semmai ai fantasmi
britannici : ricordiamoci che quando Hodder & Stoughton a Londra nel
1937 pubblica il lavoro, sono già usciti da poco tempo i primi grandi
Carter Dickson e questo lavoro così è targato (The White Priors Murders, The Red Widow Murders, The Unicorn Murders, The Magic-Lantern Murders, The Peacock Feather Murders, e di lì a breve uscirà The Judas Window), ma anche i primi grandi Fell (Death-Watch, The Three Coffins, The Arabian Night Murders).
Questo è l’ultimo grande pensiero alla Francia: col passaggio alle
atmosfere caliginose di Londra, il Colonnello Marquis si trasformerà nel
Colonnello March. Insomma si può proprio dire che questo racconto sia
un gran pentolone, in cui bollono tanti progetti, tanti personaggi,
tante vicende: si può anche trovare qualcosa dei romanzi precedenti. Per
es. non sarà inutile ricordare che l’immagine dell’avvocato Travers,
evocata a spiegazione del fatto che lui potesse uscire da un ufficio la
cui unica porta di uscita era sorvegliata dal suo segretario, in
cappotto e cilindro mentre scende le scale antincendio del palazzo, farà
ricordare un altro personaggio in cappotto e cilindro in The Arabian Night Murders (lì
avrà una barba posticcia, un libro di ricette di cucina accanto e un
coltello infisso nel corpo)A mio modo di vedere, il Colonnello Marquis è
ancora legato come genesi, alla fase francese di Carr: Marquis è nome
francese non britannico, e significa Marchese. Bencolin guardava a
Mefistofele come suo probabile referente, Marquis invece a chi guarda ?
Douglas G. Greene, “fa risalire il nome di Marquis a un voluto omaggio
carriano a Melville Davisson Post, uno dei cui personaggi si chiamava
proprio Sir Henry Marquis”[ix].
Io tuttavia credo che Carr debba aver guardato ad altro e sempre di
area francese: del resto cosa fa lo scrittore a corto di risorse mentali
per inventare un personaggio? Attinge da ciò che lo circonda.Per
Marquis il riferimento per me è un romanzo carriano, coevo: The Burning Court
“La Corte delle Streghe”, 1937. Uno dei personaggi del romanzo, quello
femminile, è Marie d’Aubray che sembrerebbe la reincarnazione di una
celebre avvelenatrice del diciassettesimo secolo, La Marchesa di
Brinvilliers, personaggio storico al centro di una torbida vicenda di
avvelenamenti, uno dei pochi rappresentanti dell’aristocrazia francese
(del tempo di Luigi XV) che sia stato nei secoli affidato al braccio
secolare: la Brinvilliers fu cioè torturata (sottoposta alla tortura
dell’acqua) e poi arsa : in francese si direbbe “La Marquise de
Brinvilliers”. Possibile che Marquise si sia trasformata in Marquis?
Potrebbe essere, anche se io penso che The Third Bullet debba essere considerato strettamente imparentato a The Burning Court
per altri motivi: sono due opere coeve, del 1937; nel primo c’è un
Marquis, nel secondo c’è una Marquise; in entrambi vi sono dei
personaggi negativi femminili: nel primo ha i capelli neri (Carolyn
Mortlake), nel secondo ha i capelli biondo-castano (la Marchesa di
Brinvilliers), la prima è flessuosa e magra, la seconda è rotondetta e
più piccola di statura. Del resto, uno dei motivi base del romanzo breve
è il confronto-scontro tra le due sorelle Mortlake: tra la nera,
impetuosa, affascinante e volgare Carolyn che fin dall’inizio è indicata
come la pecora nera, e la piccola, bionda e gentile Ida, il prototipo
di donna che la letteratura dell’epoca trasformava sovente in una tigre.
Vorrei far notare un’altra caratteristica che a me è balzata agli
occhi: entrambe le figure femminili dei due romanzi sono simili, pur
avendo fattezze diverse: Marie d’Aubray Marquise de Brinvilliers era una
donna di appetiti sessuali insaziabili, che aveva avuto a più riprese
rapporti incestuosi coi fratelli e aveva avuto numerosi amanti tra cui
l’ultimo, quello fatale per lei Jean-Baptiste Gaudin de Sainte-Croix;
Carolyn Mortlake è una donna anche lei di appetiti insaziabili, che ha
avuto più amanti: “ ..Sono incline a credere che si trovasse in gravi
difficoltà per la sua precedente relazione con Ralph Stratfield il
ricattatore. E a lei servivano soldi per i suoi svariati amanti, tipo
Stratfield .. e Gabriel White” (Carter Dickson, The Third Bullet,
Il Terzo proiettile, pag. 183, in “I Delitti della Camera Chiusa”,
Polillo Editore, 2007). Inoltre sia la Marchesa di Brinvilliers che
Carolyn Mortlake hanno disperatamente bisogno di soldi, e hanno un padre
che avversa la loro storia d’amore, e stringe i cordoni della borsa:
Dreux d’Aubray, padre de la Brinvilliers fa incarcerare nella Bastiglia
il Cavaliere de Saint-Croix, e rifiuta di dare alla figlia le ingenti
somme di danaro che questa utilizza per appagare i propri appetiti,
mentre il giudice Mortlake fa incarcerare Gabriel White (che guardacaso,
come il Cavaliere di Saint-Croix, ha origini nobili, e il cui cognome
originario, comincia alla stessa maniera: Croix – Cray) e si presenta nel romanzo come un padre che venendo a conoscenza dei suoi turbolenti amori “..difficilmente le avrebbe lasciato un soldo nel testamento”
(Carter Dickson, idem, Pag. 173).Infine, ancora un parallelismo : così
come la Brinvilliers è accusata dalle lettere di confessione trovate in
una cassette metallica, tra i resti del laboratorio in cui Saint-Croix,
suo amante, preparava i veleni di cui ella si serviva per sopprimere i
suoi familiari, così lo stesso Gabriel White in realtà figlio del Conte
di Cray, in un drammatico confronto, la accusa di essere un’assassina :
“..Non sono stato io a commettere l’omicidio.Date le circostanze sarò
costretto a testimoniare contro di te” (Carter Dickson, op. cit., pag.
171).Se non bastasse già questo a sancire un evidente parallelismo tra
le due opere, ci sarebbe anche l’ulteriore denuncia dei due servitori:
infatti in The Third Bullet, il vecchio custode Robinson cui
era stato affidato un perno importante della messinscena, pur senza che
egli ne comprendesse le finalità, è colui che formula il più tremendo Je t’accuse, nei confronti dell’assassina : “..So
bene che le ho giurato sulla Bibbia che non ne avrei fatto parola con
nessuno, e mi ha anche detto che, se fossi andato a raccontarlo, nessuno
mi avrebbe creduto, ma io non ho nessuna voglia di finire impiccato per
colpa sua” (Carter Dickson, op. cit., pag. 172); e nel caso de La
Marchesa de Brinvilliers, ad accusarla, è il fido servitore e complice,
Jean Hamelin detto La Chaussée, che, denunciato alle autorità dalla
moglie di Saint Croix , sotto tortura, le attribuisce gravi
delitti.Vediamo quindi che The Third Bullet se individualmente
si inquadra come un notevole esempio di camera chiusa (la spiegazione è
veramente straordinaria), analizzato nelle sue componenti si può
individuare come la seconda faccia di una stessa medaglia, di cui
l’altra faccia è rappresentata dall’altro romanzo del 1937 che abbiamo
già citato: ne “La corte delle streghe”, la caratterizzazione e i
personaggi sono evidenti, mentre nel nostro sono mascherati. Perché
avrebbe celato questa seconda natura dei personaggi, Carr? Per
sovvertire le regole dei personaggi, e restituire alle affascinanti
donne bionde il loro posto nella società femminile, a quanto egli alla
fine del racconto, scrive: “..”In one way this has been a very
remarkable case,” said Colonel Marquis. “I do not mean that it was
exceptionally ingenious in the way of murders, or (heaven knows) that it
was exceptionally ingenious in the way of detection. But it has just
this point: it upsets a long-established and domineering canon of
fiction. Thus. In a story of violence there are two girls. One of these
girls seems dark-browed, sour, cold-hearted, and vindictive, with hell
in her heart. The other is pink-and-white, golden of hair, innocent of
intent, sweet of disposition, and (ahem) vacant of head. Now by the
rules of sensational fiction there is only one thing that can happen. At
the end of the story it is proved that the sullen brunette, who snarls
all the way through, is really a misjudged innocent who wants a lot of
children and whose hardboiled worldly airs are a cloak for a modern
girl’s sweet nature. The baby-faced blonde, on the other hand, will
prove to be a raging, spitting demon who has murdered half the community
and is only prevented by arrest from murdering the other half. I
glorify the high fates, we have here broken that tradition! We have here
a dark-browed, sour, cold-hearted girl who really is a murderess. We have a rose-leaf, injured, generous innocent who really is innocent. Play up, you cads! Vive le roman policier! Ave Virgo! Inspector Page, gimme my hat and coat. I want a pint of beer”[x] Una
metafora? Ave Virgo è la formula di saluto dell’Arcangelo Gabriele alla
Vergine Maria: e la Madonna è raffigurata nella tradizione occidentale
coi capelli biondi. E’ una rivalutazione di Carr dell’immagine femminile
tradizionale? Possibile, tenendo a mente la natura conservatrice di
Carr. Ma secondo me c’è anche qualcos’altro: Carr col doppio significato
dato ai personaggi vuol dire che la natura femminile ha due facce
diverse: la diabolica e l’angelica, e che non è detto che sempre la
diabolica sia veramente tale e l’angelica altrettanto.E Marquis allora a
chi si riferisce? Perché questo nome? Non potrebbe aver guardato Carr,
approfondito investigatore storico, anche a Donatien-Alphonse-François
de Sade? Il Divino Marchese? Marquis! Ma perché proprio per il
Colonnello Marquis avrebbe tenuto a mente Il Marchese de Sade?Forse
perché il Colonnello Marquis – come De Sade scopre la natura ambivalente
perversa della natura umana e di quella femminile in particolare e lo
svolge ne La Justine e l’Anti-Justine, mettendo a confronto le
personalità così diverse delle due sorelle Justine e Juliette: la prima è
l’immagine della virtù e le sue disavventure, la seconda è quella del
vizio e dei suoi trionfi– così egli mette a nudo la natura delle due
sorelle, Ida e Carolyn, profondamente diverse: la bionda angelica cui
Carr si compiace di aver ridato per una volta espressione, si ribalta
nella bionda lussuriosa e perversa de La Marchesa de Brinvilliers; la
bruna che normalmente alla fine getta il manto e rivela una creatura
dolce e amante dei bambini, si specchia nella natura diabolica e
impetuosa di Carolyn.Ed ecco perché le due opere, The Bourning Court e The Third Bullet,
unite e non staccate, acquistano significati più profondi; e a unirle è
il nome: Marquise – Marquis.Infine si può notare un’altra cosa
importante: secondo noi, il giudizio che Carr mette in bocca al Marquis
in realtà è il suo, è la sua concezione etica: il bene trionfa sempre
sul male. Per questo il suo Marquis è un doppio del Marquis sadiano:
egli scopre e fa affermare la virtù sul vizio non viceversa. Ma tutto in
questo romanzo è doppio: le due sorelle innanzitutto, Ida-Justine e
Carolyn-Juliette sono dei doppi e lo sono anche in quanto nel corso del
romanzo sembrano ad un certo punto essere il doppio di loro stesse: Ida
sembra essere non la sorella virtuosa e Carolyn sembra non essere la
sorella viziosa; alle due sorelle si contrappongono i due spasimanti che
sono anche loro dei doppi: White-Travers, e lo sono anche in rapporto
al doppio delle loro amate, è quasi un chiasmo. Travers si sospetta
possa essere implicato invece non lo è, White che sembra essere fuori
proprio perché è dentro invece.. Inoltre White è il doppio di se stesso:
White di nome, in realtà nero dentro. White è la personificazione del
male: è bello, è nobile, è atletico, piace alle donne, ma è marcio
dentro. Il romanzo è un doppio rispetto a The Bourning Court
(in cui il doppio è palese: Gaudin de la Croix – Gaudan Cross; Marie
d’Aubray- Marie d’Aubray, reincarnazione l’una dell’altra e quindi il
doppio di se stessa, il doppelganger; Desprez-Despard) perché si basa
sul doppio Marie d’Aubray – Carolyn Mortlake.Doppia anche è la
volatilizzazione: un proiettile che si trova (quello ad aria compressa)
ma l’arma corrispondente no, e mentre la Browning si trova il proiettile
no invece. E se si vede doppia sarebbe stata anche la volatilizzazione
degli altri due presunti sparatori all’interno del padiglione, e nel
momento in cui si capisce che la pistola ad aria compressa è fuori dal
contesto delle altre due armi, queste rapprsentano un doppio affidate ad
un personaggio, White, che in quanto a natura, è il doppio di se
stesso.Inoltre Marquis è quasi un doppio di Marquise. Senza l’intervento
del doppio di Marquis, del Marquis Carriano doppio rispetto al Marquis
sadiano, la virtù non avrebbe prevalso sul vizio; e il fatto che
Robinson non ripari la finestra, mentre in realtà dice di averlo fatto,
dimostra come una doppia verità una volta tanto penalizzi il male a
favore del bene: è come se il Fato, il Caso, la Provvidenza divina come
la si suol chiamare, fosse intervenuta per cambiare il corso degli
eventi: se non ci fosse stata, la finestra sarebbe stata riparata e
White avrebbe potuto disfarsi della pistola, lanciandola fuori dalla
finestra: ecco allora lo sfogo etico di Carr. Non si capirebbe
d’altronde il perché dell’invocazione alla grandezza del romanzo
poliziesco. E si capisce del resto solo così forse il perché Dannay ci
tenesse tanto a pubblicare questo racconto sul suo EQMM, tanto da
ridurlo per l’occasione: anche i 2 cugini Queen sono un trionfo del
doppio: lo sono nel nome perché in Queen c’è una doppia e, e la u e la n
sono una lettera di eguale forma rovesciata, lo sono di fatto perché un
nome accomuna due persone, due cugini che sono nati entrambi nello
stesso anno, il 1905. Inoltre Barnaby Ross è un doppio di Ellery Queen,
e il doppio è presente sovente nella loro produzione, da Il caso dei
Fratelli Siamesi a Colpo di Grazia, a Il caso Khalkis, dove due cadaveri
sono trovati nella stessa bara.Insomma un trionfo del doppio.Vive le
roman policier !
[i]
Edward D. Hoch, critico e scrittore di Letteratura Poliziesca e
fantascienza: si stima abbia scritto quasi 1000 racconti, di cui
moltissime Camere Chiuse (soprattutto i casi di Sam Hawthorne e Simon
Ark). Scrisse anche alcuni romanzi di fantascienza, anche polizieschi
mascherati, pubblicati da Mondadori Urania: The Trasvection Machine “La Macchina televettrice”, The Frankenstein Factory “La fabbrica di Frankenstein”, The Fellowship of the Hand “Golpe Cibernetico”. Tra i romanzi polizieschi, ricordiamo l’ apocrifo queeniano The Blue Movie Murders “Vietato Essere Uomin” (vd. Luca Conti : Gli Apocrifi Queeniani: http://www.gialloweb.net/recensioni/apocrifiqueen.asp ).ii]
Robert Adey, Jack Adrian, Jacques Barzun, Jon L. Breen, Robert E.
Briney, Jan Broberg, Frederick Dannay, Douglas G. Greene, Howard
Haycraft, Edward D. Hoch, Marvin Lachman, Richard Levinson & William
Link , Francis M. Nevins, Jr., Otto Penzler, Bill Pronzini, Julian
Symons, and Donald A. Yates . Come si vede I più bei nomi della
letteratura: F.Dannay (Ellery Queen), B.Pronzini; illustri critici:
J.Symons, R.Adey. J.Adrian, F.M.Nevins (autore di un celebre saggio su
Ellery Queen); biografi celebri: D.G.Greene (su Carr); Levinson &
Link (autori della serie del Tenente Colombo), etc..[iii]
Uso una forma dubitativa perché, sulla base di un sillogismo, se
l’Ellery Queen presenta si chiamava così è perché intendeva riferirsi
all’omonima rivista che pubblicava racconti, e siccome per l’EQMM il
lavoro di Carter Dickson era stato condensato in forma di racconto e
accorciato, ne deriva che avrebbe potuto trattarsi, parlando del lavoro
della Brinis, di un racconto o non del romanzo breve. A ciò si aggiunga
che l’attribuzione a John Dickson Carr dell’opera presuppone l’edizione
almeno del 1948, mentre precedentemente era a firma Carter Dickson.
Anche per questo, l’attribuzione del lavoro all’edizione del 1937, per
quanto riguarda l’edizione Polillo, mi sembra tuttavia strana o almeno
imprecisa, perché non la riferisce a Carter Dickson bensì a John Dickson
Carr.[iv] Douglas G. Greene – J.D.Carr : The Man Who Expalined Miracles, Otto Penzler, New York, 1995[v] Idem[vi]
L’idea di Carr di supporre l’esistenza di un Department of Queer
Complaints è ottima ma non è l’unica: dobbiamo infatti ricordare di Roy
Vickers, un “Department of Dead Ends” che dipende dall’Ispettore Gorge
Rason.[vii]
Carr quando scriveva un romanzo storico, non ricreava solo l’atmosfera,
ma molte volte partiva da fatti veri. Come in questo caso.Una Marchesa
de Brinvilliers è esistita veramente, sotto Luigi XIV e Luigi XV : si
chiamava Marie Madeleine d’Aubray, Marchesa de Brinvilliers, e nacque
nel 1630. Fu destinata a sposare un nobile molto più vecchio di lei, e
ben presto scoprì come ingannare il tempo, intrecciando legami
lussuriosi all’interno della sua stessa famiglia. L’acme lo raggiunse
però quando intrecciò una relazione con il Cavaliere de Saint-Croix,
anch’egli veramente esistito : si chiamava Jean-Baptiste Gaudin de
Sainte-Croix, ed era un libertino, più vecchio di lei e dal passato
oscuro. Conosceva i veleni, e grazie a lui, dopo che il padre di lei lo
fece arrestare e quegli in carcere affinò le sue conoscenze in materia,
riuscì a far fuori gran parte della sua famiglia, compreso il marito e
cominciando dal padre. L’ultimo a perire, pare per un’incauta
combustione, fu proprio il Cavaliere de Saint-Croix che pare stesse
approntando dei veleni trasmissibili per via aeriforme; fu egli a
metterla nei guai, avendo lasciato in una cassettina dei veleni e delle
lettere di confessione, cassetta che si trovò tra i resti
dell’esplosione: pare che il Cavaliere de Saint-Croix, siccome la
Brinvilliers avrebbe voluto sposarlo e lui non voleva, mentre ella
propinava al marito (che poi morì) una dose di veleno al giorno, lui gli
dava l’antidoto. Il farmacista che forniva le strumentazioni di
laboratorio ed il valletto di Saint-Croix, furono arrestati e sotto
tortura confessarono il ruolo della Brinvilliers, che allora si rifugiò
prima in Inghilterra, poi dopo l’estradizione chiesta a Re Carlo II
Stuart dal Re Sole, la d’Aubray si rifugiò in un convento di Liegi. Fu
un capitano delle guardie, di un reggimento di cavalleria acquartierato
lì per la guerra contro l’Olanda, a farla uscire con l’inganno dal
convento e a privarla dell’ asilo inviolabile: per di più tra le sue
cose in convento si rinvenne un diario in cui la Marchesa denunciava
tutto, gli avvelenamenti perpetrati, le orge all’interno della famiglia e
le riunioni carnali lussuriose col Saint-Croix e molto altro.La
Brinvilliers fu arrestata e sottoposta a tortura (cosa molto strana per
una nobile : i nobili per i delitti gravi venivano tutt’al più frustati,
per cui si può ben immaginare quale fosse la portata dei delitti di cui
era accusata la Brinvilliers : essa era anche accusata di stregoneria
perché nel diario si erano trovate cose molto compromettenti che
mettevano nei guai molti esponenti nobiliari).La tortura che le venne
applicata fu non solo quella ordinaria ma anche straordinaria, e siccome
era stata condannata a morte, dovette inginocchiarsi e ascoltare il
verdetto. Quindi fu legata e sottoposta a tortura : prima “quella
ordinaria (4 bricchi di 0.75 litri ognuno per un totale di 3 litri
d’acqua)” dell’acqua, su un cavalletto di due piedi; poi “quella
straordinaria (il doppio di acqua su un cavalletto più alto)”.Si dice
che inizialmente quando entrò nella Camera di Tortura fosse tanto
spavalda, alla vista di quattro secchi colmi d’acqua, da esclamare :
“”Di certo serve per farmi il bagno! Non posso pensare che la beva
tutta”.In realtà la dovette mandare giù tutta.Poi, alcuni dicono che le
fossero state strappate le unghie di mani e piedi. Ma in realtà la
sessione di tortura terminava con la “question des brodequins” : a
seconda della città in cui il braccio secolare applicava la tortura, si
applicava una pena accessoria che andava dai tratti di corda, allo
spezzamento delle ossa delle gambe, all’olio bollente, alle micce accese
sotto le unghie, tutti sistemi “alquanto simpatici”. A Parigi vigeva
ciò : le gambe del condannato venivano denudate, fermate su 4 assi, dal
piede sino al ginocchio, poi fra gli assi venivano piantati a colpi di
martello dei grossi cunei di legno.Fatto sta che la poveraccia, volente o
nolente, alla fine fu costretta a confessare anche quello che non
voleva ma a cui purtuttavia aveva accennato nel suo diario : l’esistenza
di una setta dedita alla stregoneria e al satanismo, cui facevano parti
molti esponenti della grande borghesia e della nobiltà, tra cui la
stessa ex favorita del Re Sole, la Montespan.Dopo la tortura, la
Brinvilliers fu decapitata (un onore destinato alla nobiltà), il corpo
bruciato (perché ritenuta strega) e le ceneri disperse al vento, il 16
luglio 1676. Carr doveva conoscere molto bene il racconto di Sir Arthur
Conan Doyle (di cui mi parlò Luca Conti tempo fa), “L’imbuto di cuoio”.
Lo stesso Luca mi disse che esisteva, cosa in effetti vera, su Youtube
una versione del racconto, interpretata da Giancarlo Giannini e andata
in onda su Foxcrime:http://www.youtube.com/watch?v=0v0Bwtn3d4I .[viii] S.T.Yoshi – John Dickson Carr: A Critical Study, pagg. 55[ix] Precisazione di Luca Conti.[x] (Traduz.
Giovanni Viganò : “Sotto un certo aspetto, il caso è stato veramente
eccezionale”osservò il colonnello Marquis. «Non dico eccezionalmente
ingegnoso per quanto riguarda gli omicidi o (Dio ne guardi) per quel che
riguarda l’indagine. Ma la particolarità è questa: ha sconvolto un
canone antico e dominante della narrativa. Eh, sì.In ogni storia di
violenza ci sono due donne. Una delle due, in genere la bruna, sembra
gelida, torva, cattiva e vendicativa, con l’inferno nel cuore. L’altra è
sempre bionda, rosea, ingenua, dolce di carattere e… ehm… con la testa
vuota. Ora, secondo le regole dei romanzi, può succedere una cosa sola:
al termine della storia si scopre che la bruna scontrosa, aggressiva dal
principio alla fine, in realtà è un angelo incompreso, che sogna tanti
bambini e le cui arie da cinica donna di mondo sono solo un manto sotto
il quale si cela una natura dolcissima. La bionda dal volto di bambola,
al contrario, si rivelerà una belva ringhiante che ha già ammazzato
mezza umanità e che solo l’arresto la trattiene di l’uccidere l’altra
mezza. Sia lode al fato, abbiamo infranto la tradizione! Abbiamo una
bruna gelida e cattiva che è veramente un’assassina. Abbiamo una rosea e
dolce innocente, che è veramente innocente. Plaudi, o popolo! Vive le
roman policier! Ave Virgo! Ispettore Page, mia dia cappello e cappotto.
Ho bisogno di una pinta di birra», op.cit., pag.183-184).
Pietro De Palma
Nessun commento:
Posta un commento