mercoledì 19 aprile 2017

Carter Dickson : L'Appartamento disabitato (The Empty Flat, 1940) da "Dipartimento Casi Bizzarri" - trad. Mauro Boncompagni - il G.M. 2175 del 1990

Come dissi molti anni fa, nel mio primo e fortunatissimo contributo al Blog Mondadori, "I quattro racconti di Bencolin", è accaduto che alcuni racconti di Carr siano stati usati per dare vita a lavori più grandi, siano stati cioè ampliati. Io non parlerei di cannibalizzazione, termine usato da un amico oltreoceano, John Norris, per definire l'appropriamento dei subplot di un racconto da parte di romanzi, bensì di ampliamento: Carr quando lo riteneva giusto, utilizzava sue idee già espresse in un racconto precedente, in un romanzo successivo. Questo procedimento è accaduto più volte, e non solo nel suo caso: parecchi autori hanno usato questo modus agendi, da Agatha Christie a Craig Rice. Perchè allora stupirsi? Piuttosto, una volta individuata quest'altra caratteristica carriana, la ricerca e l'individuazione e l'analisi delle sue componenti narrative si affina e diventa più stuzzicante.
E' il caso per esempio di un racconto con protagonista il Colonnello March.
Questi racconti sono tra i più ricchi di inventiva, potrei dire dei banchi di prova talora, talaltra il modo di rispondere a delle sfide: per esempio uno di questi, The Footprint in the Sky, "Impronta in cielo", per quanto sia secondo alcuni non una prova granitica come altre di Carr - a me pare un racconto sublime invece - risponde all'istanza di rispondere, come in una tenzone, alla sfida virtuale lanciatagli dal suo amico Clayton Rawson, che aveva pubblicato il suo romanzo The Footprints on the Ceiling, "Le impronte sul soffitto"
Il racconto che esaminiamo oggi  è "L'appartamento disabitato", The Empty Flat. 
Fa parte della raccolta The Man Who Explained Miracles del 1963 e non invece di quella degli altri racconti con March, The Department of Queer Complaints, del 1941. Qui dobbiamo fare una breve digressione: dopo aver inizialmente creato tutti i 9 racconti con March,  Carr, per ragioni solo a lui note (io penso per ragioni di opportunità legate proprio al racconto oggi da me analizzato, e forse anche per non appesantire troppo l'antologia The Department of Queer Complaints), nel 1941 dette alle stampe  The Department of Queer Complaints con soli sette racconti:


The New Invisible Man
Footprint in the Sky
The Crime in Nobody's Room
Hot Money
Death in the Dressing Room
The Silver Curtain
Error at Daybreak

in quanto gli altri due, che originalmente avrebbero dovuto farne parte, The Empty Flat e  William Wilson's Racket, furono tenuti da parte e ripresentati in altra collezione carriana posteriore di vent'anni, The Man Who Explained Miracles del  1963. 
Come tutti gli altri racconti con March, anche The Empty Flat presenta un quesito legato ad un delitto impossibile, che si connoti più propriamente o meno anche come Camera Chiusa. E come tutti gli altri racconti ha un carattere che ne limita in certo senso la fruibilità: presenta un parco di sospettabili estremamente ridotto, tale che la ricerca non sia molto difficile. Qui, come in tutti i racconti con delitti impossibili francesi, per Carr ha maggiore importanza il "come" sia avvenuto un determinato fatto più che il "chi" l'abbia commesso: infatti senza che venga sciolto l'elemento risolutivo, non può procedersi all'incriminazione del colpevole, che sino a quel momento, magari sospettato, non può essere però accusato prove alla mano.
Qui c'è un appartamento disabitato in un palazzo, da cui nel cuore della notte proviene musica ad alto volume. Già di per sè questa è una stranezza: come può provenire da un appartamento disabitato da anni, chiuso e dimenticato quasi, musica ad alto volume? La seconda stranezza, di per sè inquietante è legata alla causa del mancato affitto di quell'appartamento: ad esso era legato un fatto di sangue presumibilmente avvenuto in quel palazzo prima che le sue stanze venissero affittate, e c'era chi diceva che fosse infestato. Addirittura in passato chi vi aveva passato la notte era stato costretto ad andare via: vi si manifestava una tale paura che poi tutti coloro che vi erano stati a più riprese interessati, si erano eclissati.
Al primo piano, proprio sopra l'appartamento da cui proviene musica ad alto volume, sta preparando la propria tesi per avere la libera docenza, Douglas Chase Ph.D. membro della sezione storica della Royal Society. Già la presenza di un altro concorrente al suo traguardo, tale K.G.Mills la cui conoscenza storica pare formidabile, gli da appresnione; figurarsi quella insopportabile musica al piano di sotto! Per cui con un maglione e in pantofole, scende al piano di sotto per protestare, trovandosi davanti una porta su cui campeggia la targhetta K.G.Mills: possibile che sotto di lui abiti il suo avversario? Suonato al campanello gli veine ad aprire la porta una bella ragazza, con le dita sporche di inchiostro che si qualifica proprio come Kathleen Gerrard Mills, laureata in storia. Presentatisi entrambi ed entrambi stupiti e anche accigliati di essere avversari alla libera docenza ed abitare uno sopra l'altra, si spiegano riguardo a quel rumore che non proviene affatto dalla casa dell'incantevole laureata, ma dall'appartamento di fronte. Si spiegherebbero l'un l'altro e anche le proprie tesi davanti ad un boccale di birra, se anche lei non spiegasse all'incredulo inquilino del piano di sopra, che anche lei sta patendo da quella sera gli effetti di quella strana musica ad alto volume: eppure lì in quella casa, non dovrebbe esserci nessuno. Ma come fare? L'appartamento è disabitato e chiuso.
Tuttavia la porta ha il passa vivande, uno spazio troppo angusto tittavia perchè la ragazza possa passarvi attraverso; Douglas è invece alto e sottile e quindi con difficoltà riesce a passarvi attraverso. La casa è buia. La luce è disabilitata. Ma la musica ad alto volume si diffonde dappertutto: proviene da una stanza pure buia. La luce di un lampione nella strada gli permette di capire che è una radiolina a transisor collegata ad una presa di corrente. La spegne. Poi si dirige alla porta di ingresso, la apre trovandosi davanti alla fanculla e la rassicura, parlandole della scoperta strana. Tutto finito. Sembrerebbe. Il fatto è la mattina dopo degli operai che passano lì vicino, alal luce del sole, vedono nella stessa stanza dov'era la radiolina, un uomo raggomitolato per terra: è Arnot Wilson, avvocato e fiduciario della ragazza K.G.Mills, morto. Di paura. Collasso. Nelle tasche del morto trovano: un taccuino, una stilografica, un anello con sei chiavi, la chiave dell'appartamernto 11,  un orologio con catena, un portafoglio.
Ovviamente c'è un'indagine, e i due giovani vengono convocati a Scotland Yard e relazionano su quanto accaduto la sera prima del ritrovamento del cadavere, davanti al Colonnello March, a capo del Dipartimento D 3 - Casi Impossibili: tutti i casi di fantasmi, sparizioni, avvenimenti apparentemente insolubili in quanto impossibili, vengono mollati a lui. Capiscono che lui non pensi ad un incidente bensì ad un omicidio: l'avvocato era molto conosciuto a Londra, frequentatore di clubs esclusivi, uomo estremamente pulito e freddoloso: non sarebbe mai andato a stare la notte in quella casa, piena di polvere e senza caloriferi, nonostante fosse incuriosito dal racconto circa la presunta presenza infestante, fattogli dalla sua protetta Mills.
 Dopo aver sentito le testimonianze del maggiordomo di Wilson, Maurice Delafield, e dell'agente immobiliare, che affitta i vari appartamenti, James Hemphill, March individuerà l'assassino, questa volta non malvagio, ma una persona rimasta al centro di un ingranaggio perverso per un banale incidente di cui è rimasto vittima l'avvocato, che ha pensato bene di salvarsi, portando il cadavere in quella casa abbandonata. Tuttavia è lui che, volendo far ritrovare al più presto il cadavere di Wilson, ha messo in funzione la radiolina.
In questo racconto non vi è tanto una impossibilità di fondo (nella stanza vi si accede addirittura passando attraverso il passavivande, e la porta di casa non è chiusa dall'interno), in quanto l'assassino, dopo aver fatto quello che ha fatto, ha aperto la porta e l'ha chiusa alle sue spalle. Semmai l'impossibilità è data dall'atmosfera: da quella musica ad alto volume in un appartamento "infestato" desabitato, e dal cadavere trovatovi dentro, un avvocato in vista della city, morto di paura. Per cosa?
E soprattutto da come un morto di paura si trasformi in una vittima di un omicidio colposo. Carr nella sua straordinaria visionarietà collega questa trasformazione del giudizio del coroner alla assenza di qualcosa che sarebbe dovuto essere rinvenuto nelle tasche del morto - che aveva detto ad alcuni suoi conoscenti che quasi quasi avrebbe passato un giorno una notte in quell'appartamernto proprio per confutare la presenza di una fantasma -  e che invece non c'è, ma che la vittima, se davvero avesse pensato di stare di notte in un appartamento disabitato, avrebbe portato con sè. E quindi ci sarebbe dovuto essere in quella stanza ed invece non era stato trovato.
Al di là di queste cosucce - ma la cosa che non si trova e di cui viene fatta menzione negli ultimi righi è un pugno nello stomaco - il racconto non è niente di più. Eppure contiene dei particolari interessantissimi, proprio alla luce di un romanzo che Carr pubblicò lo stesso anno dell'uscita della raccolta. Anche lì si trovano due giovani resi avversari dalla passione storica e che si affrontano prima mediaticamente sulle pagine di un giornale e poi si ritrovano uno dinanzi all'altro: per di più il nome della ragazza pur non essendo lo stesso, comincia comunque per K. Anche lì i luoghi sono legati a tragedie storiche e "strane presenze". Anche lì infine l'impossibilità legata alla terza vittima, viene spiegata con qualcosa che sarebbe dovuta esserci e che invece non è stata trovata. Solo che nel romanzo, quei due giovani che la musica chiassosa ed assordante ha fatto conoscere nel racconto, che forse si sono spiegati davanti ad un boccale di birra ma che Carr non ci dice se poi abbiano passato la notte insieme oppure no, si innamorano davvero. Il romanzo trasforma un racconto senza pretese in un capolavoro assoluto, uno dei migliori della produzione di Carr, con Gideon Fell. E spiega anche secondo me anche il perchè Carr avesse rinviato la pubblicazione del racconto di quasi vent'anni: perchè la singolare conoscenza-scontro di due avversari storici, uno uomo l'altro donna, con tutta la ovvia serie di conseguenze, avrebbe tolto freschezza alla storia del romanzo, se fosse stata presente in un racconto pubblicato per di più lo stesso anno.

                                                                                                                    Fine 1^ Parte

Pietro De Palma


venerdì 31 marzo 2017

Mignon Eberhart : La trappola (The Mystery of Hunting’s End, 1930) – trad. Alfredo Pitta – I Classici del Giallo Mondadori N.1346 del 9 maggio 2014





Il romanzo della Eberhart è uno dei meno conosciuti, se si può dire sia conosciuta lei stessa, scrittrice molto ripubblicata una trentina di anni fa, ma oramai quasi del tutto dimenticata.
La traduzione è quella storica di tanti romanzi americani del periodo, affidata ad Alfredo Pitta.
Famoso come gran sforbiciatore (tagliava alquanto i romanzi), Pitta era però un eccellente traduttore oltre che anche un discreto scrittore (si provò anche lui come i vari Ciabattini, Vailati, Spagnol, De Angelis, d’Errico a rinverdire i fasti del Giallo made in Italy, che un decreto fascista stabiliva che dovesse essere attuato in un periodo in cui il Giallo all’inglese e alla francese, la facevano da padroni. Come traduttore,  i tagli che effettuava erano intelligenti; e così ancor oggi, i romanzi da lui tradotti, possono essere tranquillamente letti (magari rinfrescati, come è stato fatto probabilmente per quello in edicola).
Il romanzo The Mystery of Hunting’s End di Mignon Eberhart, il terzo da lei scritto, dopo La stanza N.18 (Patient in Room 18, 1929) e L’elefante di giada ( While the Patient Slept,1930), fu pubblicato con il titolo “La Trappola”, che può essere compreso solo dopo aver letto il romanzo.
Mignon Eberhart, fu una scrittrice statunitense popolarissima. Inventò il personaggio femminile dell’infermiera Sarah Keate, e lo inserì in un filone suo , contraddistinto da trame in cui c’era di solito una donna in pericolo, e in cui l’elemento misterioso si allaccia a quello romantico sentimentale, un po’ come i gialli rosa della serie Nancy Drew, “per signorine”, che sfornava Carolyn Keene (pseudonimo sotto cui si celavano parecchi autori dello Stratemeyer Syndicate, gruppo diretto da Edward Stratemayer, di cui la più famosa fu Mildred Augustine Wirt Benson che scrisse parecchi dei primi gialli della serie). A differenza di questi romanzi, che sono dominati dalla suspence, perché diretti più che altro ad un pubblico di ragazzi,  e che attengono a vicende in cui si muovono truffatori e ladri ma non assassini, e in cui quindi l’elemento violento è molto annacquato, quelli di Mignon Eberhart, che cominciò a scrivere nell’alveo dei romanzi di Mary Roberts Rinehart, contraddistinti da forti atmosfere e da un thriller spasmodico, contengono eccome omicidi! Anche se la vicenda è spesso intrecciata a ceneri romantiche.
Qui l’infermiera Sarah Keate, chiamata in causa dal detective Lance O’ Leary, suo amico, è coinvolta in una vicenda in cui domina la suspence ma anche il mistero.
Mary Kingery, figlia del finanziere Hubert Kingery, a distanza di cinque anni dalla morte del padre, avvenuta in circostanze non perfettamente chiarite, decide di voler sapere tutta la verità e per questo, riunisce nella residenza del padre, vicino Barrington, tutte le persone che erano presenti alla morte di suo padre, che accettano anche per non dire no, e quindi per allontanare  il sospetto che vi possano essere state coivolte: Julian Barre, Jasper Fraley, Nicholas Morse, Charles Killian, sono tutti amici e soci, e comunque personaggi connessi alla finanziaria fondata da Hubert Kingery; Jose Paggi è un tenore e sua moglie è Helen Paggi; Blanche Von Turcum è una baronessa; Lucy Kingery, è sorella di Hubert e zia di Mary; Brunker, è il domestico e Anne, la cuoca. Tutti erano presenti cinque anni prima. Gli ultimi due continuano a servire in casa, e come gli altri, avrebbero avuto validi motivi di risentimento, e quindi un valido movente per desiderare la morte di Hubert.
Apparentemente, Hubert è morto per attacco cardiaco, ma qualcosa non è chiaro e la stessa Mary non è persuasa che il padre sia morto in quel modo: fu trovato in pigiama, per terra, senza pantofole, con il letto approntato per dormirvi e sul comodino il lume acceso. Dentro una stanza chiusa dal di dentro. Questa circostanza autorizzò a pensare che la morte fosse avvenuta per cause naturali; in realtà, vi fu opera di dissimulazione e di corruzione nei confronti del medico che firmò l’atto di morte, perché egli tacesse sulla vera causa, cosa che viene rivelata da Lucy in secondo tempo: era morto per un colpo di pistola a bruciapelo che l’aveva colto in pieno petto. Ella, che “apparentemente” è stata colta da paralisi all’atto della morte del fratello, per il troppo bene che gli voleva, in realtà pare che l’avesse avversato in tutte le forme, per i giochi finanziari di quello troppo spregiudicati, volti ad arricchirsi a danno delle persone che lo circondavano, infischiandosene dei loro risparmi persi: tutti o quasi coloro che la nipote vuole che trascorrano quei giorni a La Vedetta, il luogo solitario da loro scelto, in mezzo alla sabbia.
Il fatto è che Mary vorrebbe anche evitare di sposare uno che potrebbe avere assassinato il padre: tra i suoi invitati c’è anche il suo promesso sposo.
Assegna le camere al piano terra, in un padiglione. Pochissimi vanno a dormire al primo piano, in cui la balconata si affaccia direttamente di fronte alla stanza in cui morì Hubert: ora quella stanza, finisce per dover andare ad uno tra Julian Barre, Jasper Frale e Charles Killian, cioè al secondo. Che poi è il fidanzato di Mary. Di notte, mentre Josè Paggi e l’infermiera detective Keate stanno parlando davanti al camino, e si trovano casualmente di fronte alla porta della stanza di Fraley, sentono prima un fruscio, come se qualcuno passasse in punta di piedi sopra di loro, nella balconata, poi sentono una detonazione che proviene dalla stanza. Vi trovano Jasper morto, colpito da una pallottola al cuore, mentre indossa un pigiama, i piedi scalzi ed il letto acconciato per la notte. La porta è aperta, ma loro che vi stavano davanti, anche se non frontalmente ma in posizione defilata, giurano e spergiurano che nessuno vi è uscito, per di più le finestre sono chiuse e la porta che mette in comunicazione la stanza con quella di Barre è chiusa da una sbarra. E non si è trattato di suicidio, perché si dovrebbe trovare l’arma e questa non c’è. Quindi…
Ma l’assassino/a cos’è ? Un fantasma?
Alcuni degli invitati sono impressionabili, perché il vecchio cane di Hubert, Gerico, guaisce tutte le volte che passa davanti alla porta dell’ex padrone e si comporta quasi che vi fosse una presenza soprannaturale tra loro.
La ricerca dell’assassino è quantomai ardua. Eppure è lì, tra di loro: non può essere scappato, perché fuori nevica, nevica, nevica incessantemente: la villa dove tutti sono riuniti, “La Vedetta”, è completamente isolata. Ma se l’assassino non può fuggire, non possono farlo anche gli altri, casomai lui volesse ammazzarne qualche altro. Già, perché Jasper prima di essere ucciso, durante la cena, aveva fatto cenno a certe carte che lui si era premunito di nascondere, che erano come un lasciapassare, e che contenevano le prove dell’attività fraudolenta della finanziaria di Kingery. Proprio per questo, Hubert aveva costretto la figlia a fidanzarsi con Jasper: era il prezzo del ricatto. Ora tutti cercano queste carte.
Prima scompare un foglio trovato da Keate nella stanza del morto, contenente una sequenza di numeri e indirizzato a Morse; poi scompare il parrucchino del morto, che poi ricompare (lo trova Sarah) per poi scomparire di nuovo e di nuovo ricomparire; poi scompare addirittura il morto, mentre c’è chi giura, la baronessa, che in quella stanza non era entrato nessuno.
Reticenze, mezze verità, bugie, tutto concorre per inficiare l’indagine della coppia Keate-Leary. Anche la volontà di alcuni degli invitati, prima che il cadavere scomparisse, di farlo scomparire, perché se il cadavere non c’è e quindi non c’è la prova di un reato, non ci può neanche essere (in teoria) un’indagine.
La situazione dei presenti diventa assurda, le cibarie cominciano a scarseggiare, perché la loro tenuta è completamente isolata nella tormenta di neve. E intanto l’assassino colpisce.
Prima cerca di avvelenare con la stricnina il cane. Poi, quando la neve finisce di cadere, e Morse vorrebbe andare via per cercare soccorsi, cerca di ammazzare O’ Leary, colpendolo alla testa con un attizzatoio, di notte, mentre è sprofondato in una delle poltrone della sala. Infine ammazza Morse, infilandogli un ferro da calza, che l’infermiera aveva perso, nel cuore. E ne nasconde il cadavere.
Sarà Leary a spiegare all’impaurita Keate, come Hubert e Jasper sono stati ammazzati e a indurre l’assassino a scoprirsi.
Con questo romanzo, Mignon Eberhart vinse nel 1931 lo Scotland Yard Prize. Perché?
Indubbiamente ci troviamo dinanzi ad un buon romanzo che ha delle caratteristiche ben specifiche (anche se le descrizioni che probabilmente sono state assottigliate nella traduzione italiana, probabilmente  avrebbero contribuito a meglio inquadrarle): una atmosfera opprimente e claustrofobica, che è un po’ la caratteristica di tutti quei romanzi in cui la casa è nel mezzo di qualcosa da cui i suoi occupanti non possono fuggire: un ciclone (La casa nel ciclone, di Newton Gayle), il mare (Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie), porte elettrificate (L’Ospite invisibile, di Bristow & Manning), un incendio nel bosco (Il Caso dei gemelli Siamesi, di Ellery Queen); la presenza di condizioni climatiche e atmosferiche estreme (è qualcosa che appare anche in altri romanzi della Eberhart); una donna in pericolo (qui c’è l’infermiera, ma anche Mary Kingery); una storia d’amore (quella tra Killian e Mary); una indagine che si muove più per eventi isolati che invece per una concatenazione di tessere messe a posto; una storia più che poliziesca, romanzesca, ma neanche tanto; e soprattutto una soluzione che pur riuscendo convincente, lascia il passo a dei bug qua e là. Tuttavia, proprio per la stranezza dell’indagine, che si discosta parecchio da quella più classica, tipica del Mystery, la Eberhart che a torto o a ragione (da questo primo romanzo, direi più, “a torto”) venne definita la Agatha Christie d’America, si apparenta più al genere Suspence o Thriller, visto che la soluzione non arriva come la logica conclusione di un certo discorso, ma come il tentativo riuscito, da parte del Detective, che sospetta ma non ha le prove (dice lui), di costringere colui che pensa sia l’assassino a scoprirsi,  costringendolo assieme ad altre persone che fanno da specchietto per le allodole, a evitare di essere sparato dal congegno che lui stesso ha approntato in precedenza. In sostanza il lettore aspetta solo di vedere se l’assassino si scoprirà o meno, perché lui non ha capito chi possa proprio essere (io l’avevo capito ma per altro ragionamento, che non rivelo, e che è insito nell’assegnazione delle Camere: come mai proprio Jasper muore? E questo non perché sia tonto, ma perché l’autrice non fornisce gli indizi in maniera chiara (salvo poi spiegarne il significato dopo: “Recondite Armonie”!) perché possa capirlo. Ecco perché il finale! Ecco perché cerca di indurre in trappola l’assassino, dopo che la trappola per tanti giorni era stata la stessa casa in cui erano stati costretti a vivere!
Nonostante ciò il romanzo fila che è un piacere. Merito della Eberhart che confeziona tutto sommato un bel romanzo e merito anche di Pitta che sforbicia è vero, ma con raziocinio.
E’ evidente che LA TRAPPOLA è una classica Camera chiusa, pur non sembrando tale a prima vista: riassume il caso presente in It Walks By Night di Carr (La porta non era chiusa ma era tenuta sott’occhio da persone fidate), e quello dei romanzi in cui l’assassino anche se materialmente può sembrare che fosse presente, non lo era (in sostanza si ripresenta il caso descritto in The Greene Murder Case di Van Dine, in cui una pistola è azionata con un congegno apposta predisposto); e ovviamente, come abbiamo detto prima, potrebbe dirsi una Camera Chiusa allargata, essendo la casa stessa una grande Camera chiusa, dalla quale, per la tormenta di neve in atto, l’assassino non può essere fuggito.
Il fatto che alcuni critici importanti stranieri non abbiano espresso calorosi apprezzamenti nei riguardi di questo romanzo, è da mettere in relazione probabilmente alla natura della Camera Chiusa. Ne parla Carr nella sua Locked Room-Lecture in The Hollow Man:
Primo! C’è il delitto commesso in una stanza ermeticamente sigillata che è realmente sigillata ermeticamente e dalla quale nessun assassino è mai uscito perché nella stanza non c’era nessuno” ( http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2011/07/29/dissertando-di-camere-chiusejohn-dickson-carr-vs-clayton-rawson/ ).
E’ evidente che non può essere accaduto che  l’assassino abbia inscenato una qualche pantomima allo scopo di distrarre lo spettatore, entrare ed uccidere il malcapitato facendo credere che fosse già morto (come in The wrong shape di Chesterton), perché in questo secondo caso, ci sarebbe il concorso del colpevole e quindi un’azione spettacolare volta ad inscenare qualcosa; e quindi non si spiegherebbe lo scarso credito della critica specializzata. E’ evidente quindi che ricadiamo in altra casistica.
Leggendo anche voi il romanzo, capirete a quale dei tipi di Camera Chiusa di cui parla il Dottor Fell, possa ascriversi questa. Direi che in un certo senso, possa essere accostata ad un’opera di Carr scritta con il suo pseudonimo, Carter Dickson, a quattro mani assieme al suo amico John Rhode, Fatal Descent :
chi ha letto il romanzo potrà forse immaginare a cosa io voglia alludere; chi non l’abbia letto (un capolavoro) non dovrà fare altro che acquistarlo.

Pietro De Palma

martedì 21 marzo 2017

John Dickson Carr : Il segreto di Vicky Adams- trad. Tina Honsel – Estate Gialla 1979, Mondadori,pagg.191-210






Usualmente, quando uno pensa a opere di John Dickson Carr in cui vi è anche il risvolto sovrannaturale, il riferimento è d’obbligo: The Burning Court (La Corte delle Streghe). Indubbiamente.Tuttavia pochi sanno, che questa, seppure la più lunga, non è l’unica opera di Carr in cui vi sia un qualche sconfinamento nella letteratura fantastica. Da questo punto di vista, Todorov, quando faceva riferimento al romanzo di Carr come uno dei capisaldi del Romanzo Poliziesco e nello stesso tempo esempio di sconfinamento nella Letteratura Fantastica, unico, assieme ad uno di Agatha Christie, altrettanto indubbiamente non diceva una cosa esatta. Il fatto è che, probabilmente, Todorov aveva sentito parlare solo di quel romanzo di Carr e non conosceva bene la mole dei racconti, che invece riservano sempre notevoli sorprese.
Ad es. quella del racconto di cui parliamo oggi, un altro dei capisaldi della produzione breve del Maestro, non però incentrata sulle gesta deduttive di Gideon Fell, quando dell’altro grande personaggio, Henry Merrivale.
Il segreto di Vicky Adams è in realtà conosciuto in Italia sotto altro titolo: La casa di Goblin Wood . Si tratta dello stesso racconto, ripubblicato però successivamente nell’Omnibus La nobile arte del delitto .Quattro casi per Sir Henry Merrivale, sempre nella traduzione di Tina Honsel ). Si tratta di uno dei più celebri casi di Camera Chiusa in assoluto di Sir Henry Merrivale, pervaso da un’atmosfera sinistra e da un’esplosione di malvagità allo stato puro.
Il racconto, per strano che possa essere è uno dei soli due racconti che Carr scrisse con il personaggio di Sir Henry Merrivale (l’altro è All in A Maze cioè The Man Who Explained Miracles). Del perchè Carr avesse pubblicato parecchi racconti con Gideon fell e solo due con Merrivale, non è dato sapere. Tuttavia i due racconti sono tra i suoi migliori. E tra i due, quello che trattiamo oggi, è, a detta di molti, il suo capolavoro assoluto.
Un’ auto è parcheggiata fuori il Senior Conservative’s Club. Dentro vi sono due persone: stanno aspettando che esca, in un pomeriggio afoso d’estate, Il Grande Vecchio, Sir Henry Merrivale.
Ecco che esce: indossa un completo di lino bianco, da cui esce un’enorme pancia, un grande panama fà ombra su un viso con un naso carnoso su cui sono appollaiate delle lenti cerchiate di tartaruga. Mentre sta scendendo le scale, dei due passeggeri dell’auto, una donna lo saluta: è la figlia di un suo conoscente. Sir Henry scende le scale, dirigendosi verso di loro, ma non si avvede di.. una buccia di banana. Cosa ci sta a fare lì ? L’hanno messa dei monellacci, in attesa di vedere qualcuno fare un capitombolo. Vuoi vedere che Il Grande Vecchio, risolutore di tanti enigmi, cadrà a gambe all’aria? Beh, è quello che accade. Per di più viene beccato proprio dai due tipi che lo stavano aspettando, mentre si massaggia il didietro. Al di là dell’imbarazzo, fatte le presentazioni, viene a sapere che i due sono Eve Drayton e il suo fidanzato, tale William Sage detto Bill. La ragazza dice di essere la cugina di tale Vicky Adams.
Sir Henry si ricorda di costei: una ragazzina viziata, di famiglia ricchissima, che ormai è diventata donna, al centro di una vicenda oscura capitata vent’anni prima: la ragazzina, era scomparsa dal letto in cui si trovava, nonostante la stanza fosse stata ritrovata con le imposte e la porta chiuse dall’interno, e quando ormai il padre la piangeva disperato, e la si cercava dappertutto, non riuscendo peraltro a capire come fosse svanita nel nulla, era stata ritrovata addormentata nel suo letto, nella stessa stanza da cui era scomparsa, con porte e finestre sbarrate. Ora la cugina, prospetta a Sir Henry la possibilità che si riesca a sapere veramernte cosa successe vent’anni prima. E lo invita, assieme a loro, ad un pic-nic cui parteciperà anche Vicky. Tuttavia non vuole per il momento dire cosa ci guadagni lei.
Sir Henry incontra, dopo che i due sono andati via, l’Ispettore Capo Masters con l’immancabile bombetta e gli chiede ragguagli sul caso; e così viene a sapere che quella era stata la casa, prima ancora che l’abitasse il padre di Vicky, di un grande criminale. Che ovviamente l’avrebbe potuta dotare di marchingegni atti a facilitargli la fuga qualora fosse stato in condizione di dover fuggire senza passare necessariamente dalla porta: in altre parole gli chiede se fossero stati trovati marchingegni o passaggi segreti. Risposta negativa.
Sir Henry si accomiata dall’amico..
L’indomani, Sir Henry Merrivale in compagnia dei due amici e di Vicky partecipa a questo pic-nic. Vicky si dà le arie di chi sia in possesso di poteri speciali e si vanta di riuscire a svanire anche questa volta. Dal passato Merrivale non riesce a cavare un ragno dal buco: del resto un reato vero non c’è stato e semmai, vi è stata simulazione di reato. Fatto sta che il pic-nic si materializza nello stesso posto dove la ragazza aveva abitato anni prima: una casetta nei pressi di un lago, su cui in inverno si pattinava, e nel quale in estate si pescava.
Vicky è infatuata di Bill che però è fidanzato con Eve.
Dopo che hanno allegramente pranzato, sparecchiato e riposto le masserizie nei cesti da picnic , accantonati in casa, Bill prende qualcosa e segue Vicky in casa che gli vuol far visitare la casa e vorrebbe che Bill le cercasse delle fragoline di bosco.
Passano i minuti, e i due non si fanno vivi. Dopo tre quarti d’ora circa, Eve decide di andare a vedere cosa sia successo ai due, pensando che Vicky staia cercando di adescare il fidanzato. Si sentono i suoi tacchi che battono sul pavimento, aprendo e chiudendo porte; poi riappare e dice di non aver trovato nessuno. In quel momento si sente la voce di Bill che non proviene dalla casa ma dal bosco: lo trovano tutto sporco e sudato, mentre sta cercando nel sottobosco delle fragoline. Dice che Vicky l’ha salutato precedentemente, chiudendosei la porta alle spalle.
Già, ma dov’è Vicky?
Vicky è scomparsa. Non è uscita dalla porta dicasa, altrimenti l’avrebbero vista Eve ed Henry Merrivale e non può essere uscita dalla porta che dà nel bosco, perchè Bill dice che Vicky l’ha chiusa alle sue spalle e l’ha salutato.
E in effetti la porta viene trovata chiusa dall’interno.
Dove è finita Vicky? Svanita nel nulla! Quello che aveva promesso, cioè di smaterializzarsi, è avvenuto.
La cercano in ogni dove, ma in casa non c’è: trovano solo un rubinetto che gocciola nella vasca da bagno e un pezzo di un foglio di plastica su cui quasi scivola Sir Henry.
C’è solo una stanza da controllare, dopo che è stato controllato tutto, persino i camini (lo testimoniano delle manate nere di Sir Henry sul suo candido panama): è la stanza da letto di Vicky, quella della sparizione di vent’anni prima. Merrivale la esamina, alla luce di un fiammifero, perchè la casa è abbandonata e non c’è luce, ma non trova nulla. Poi..il buio. E nel buio qualcuno parla. E’ la voce di Vicky che promette di farsi viva entro l’indomani. Accendono una lampada. Ma nella stanza stanno loro tre.
Poco dopo tutti e tre corrono via da quella casa e ritornano a casa. Sir henry ammette che in quell’occasione ha avuto paura.
Alle tre di notte qualcuno chiama Sir Henry: è Vicky che sfida Henry a trovare la soluzione. Dato che è stato svegliato, “Il Grande Vecchio” trova conveniente che anche qualcun altro si svegli, e così fa cadere dal letto il vecchio Masters, che tuttavia gli rivela come la ragazzina era riuscita a scappare dalla casa venti anni prima: l’ha saputo dal vecchio avvocato degli Adams. Merrivale non gli è da meno: aveva già, nell’ esame della casa dopo la sparizione di Vicky capito dove fosse il trucco, ma ha anche visto quello che ora gli rivela Masters: cioè che il padre della ragazzina, capito il trucco (l’intelaiatura di una finestra scorreva in un vano, dopo aver fatto scattare una molla) aveva fatto inchiodare il telaio della finestra con grossi chiodi le cui capocchie poi aveva verniciato con la stessa pittura dello stesso colore usata per dipingere il resto della finestra.
I due vanno a dormire, dopo che il Grande Vecchio ha invitato l’Ispettore a raggiungerlo a mezzogiorno al Senior Conservative’s Club.
L’indomani a quell’ora i due si incontrano. Masters gli dice che ha mandato ad ispezionare la casa il sovrintendente di Aylesbury, la località dove sorge il cottage, teatro della vicenda. Suona il telefono e il sovrintendente riferisce di aver ispezionato tutto, di aver visto persino nella credenza, per quanto impossibile fosse quel nascondiglio e di non aver trovato che stoviglie.
Il Grande Vecchio a questo punto, dopo aver ragionato, troverà la chiave della vicenda e scoprirà che non solo Vicky è scomparsa ma anche che è stata assassinata.
Da chi? Movente? Ma come hanno potuto assassinare la ragazza? E di chi era la voce al telefono? E perchè i tre erano scappati fuori dalla casa?
Tanti interrogativi in un racconto di poche pagine, in cui c’è tutto: atmosfera, malvagità, deduzione, il sovrannaturale, e due Camere Chiuse.
Ancora una volta, per creare una grande Camera Chiusa c’è bisogno di una messinscena, e c’è bisogno che qualcuno apra o chiuda qualcosa. In questo, il racconto è molto simile a Whistle Up The Devil di Derek Smith.
Il racconto è un must (nonostante per molti sia un capolavoro assoluto, non lo è secondo me e anche altri: per esempio Mauro Boncompagni mi ha detto che non gli è mai molto piaciuto. Non so perchè – non me l’ha detto – ma forse l’unica grande pecca di questo racconto è che i personaggi sono ridotti all’osso e quindi non ci vuole moltio per capire chi possa essere stato: se non è zuppa è pan bagnato, diceva mia nonna!!!) anche perchè Carr passa da momenti di ilarità pura ( il capitombolo sulla buccia di banana è un classico, ancor di più come Merrivale descriva la sua caduta; il panama immacolato con una manata nera, che diventano tre quando Merrivale si esaspera davanti alle domande, a lui rivolte, dei due, su dove possa essere finita Vicky; Merrivale che non può più dormire perchè l’hanno svegliato alle tre di notte e che ritiene opportuno che qualcun altro debba come lui rimanere sveglio, e quindi sveglia Masters) a momenti di paura pura (la voce di Vicky che sentono in una stanza in cui non possono esserci che loro tre).
Usciamo di qui! – gridò improvvisamente Eve. – Lo so che c’è un trucco! Vicky è una commediante. E adesso, andiamocene, per carità!”
Bill si schiarì la gola. “- Io sono d’accordo. In ogni caso, non avremo notizie di Vicky prima di domani mattina.” – “Oh, sì che le avrete” – sussurrò nell’oscurità la voce di Vicky. Eve lanciò un grido. Accesero una lampada. Ma nella stanza c’erano soltanto loro tre. La loro ritirata dal cottage, bisogna ammetterlo, non fu molto dignitosa. Meglio non descrivere come si precipitarono, nell’oscurità, attraverso il prato incolto, come ammassarono nella macchina i cestelli da picnic e come riuscirono a trovarsi, poco dopo, sulla carrozzabile. Da allora, Sir Henry Merrivale si limita a sogghignare al ricordo di quell’episodio- – “Ho avuto un po’ di stupida paura, ecco tutto” (pag 204).
Ma perchè scappano dalla casa e Merrivale ammette a posteriori, di essersi spaventato in quell’occasione? E’ questa la domanda alla quale nessuno secondo me sinora ha risposto.
Una cosa è lo sconcerto e altra è la paura: lo sconcerto è lo sgomento davanti a qualcosa che non rientra nel proprio modo di pensare; la paura è però ben altro: è lo stato emozionale di chi è atterrito da qualcosa. E da cosa può essere atterrito Merrivale?
Non disquisisco sul perchè Eve e Bill corrano fuori: se sono complici nella sparizione di Eve, possono avere interesse a non rimanere in casa e ad andare via, prima che Merrivale affronti razionalmente il problema della sparizione e metta assieme i pochissimi indizi. Ma invece disquisisco sulla paura di Merrivale, un uomo di molta esperienza, addirittura Capo del Controspionaggio Militare, uno che ne ha viste di tutti i colori, che scappa addirittura rischiando di inciampare nel prato incolto: perchè scappa in preda alla paura? Perchè non riesce razionalmente a capire il problema, perchè la sua razionalità si arrende per un momento dinanzi alla pura irrazionalità. Che si manifesta dalla voce di una persona che in quella stanza non c’è.
Cosa voglio dire? Che Merrivale, che altre volte si è trovato dinanzi a fatti che apparentemente si prestavano ad essere interpretati come manifestazioni sovrannaturali ma non lo erano, e che non è mai corso in preda alla paura, questa volta l’ha fatto. Cosa allora c’è di diverso questa volta dalle altre? Che Merrivale per un attimo si è trovato di fronte a qualcosa che lui aveva sempre rigettato, alla presenza di uno spirito vero. Merrivale, uomo di poca fede, se non completamente agnostico, che non ha mai creduto a parole a qualcosa che vada al di là della natura, si arrende e si comporta come ogni persona che assiste ad una manifestazione spiritica senza esservi preparato.
Tuttavia, e questo è il punto focale, se è lo spirito di Vicky che parla, significa che Vicky non è più in vita. E quella assicurazione che le notizie riguardanti di Vicky le avranno prima del giorno successivo, può spiegarsi col fatto che per lo spirito non esiste il passato il presente o il futuro: esso sa come le cose si svolgeranno, sa che Merrivale risolverà il problema.
La risposta è che nel momento in cui accade, almeno inconsciamente Merrivale ha paura di qualcosa che razionalmente lui non riesce a comprendere: lì, di sera, in un cottage abbandonato, senza luce, in un bosco, di quattro persone una è scomparsa nel nulla. Tuttavia l’elemento incomprensibile qui non è legato al buio ma alla luce di una lampada: in questo è il vero virtuosismo di Carr: aver creato un momento di tensione non legandolo all’assenza di luce ma alla sua presenza. Infatti è alla luce di una lampada, che non rischiara tutto come avrebbe fatto la luce elettrica, ma solo ciò che è immediatamente vicino al gruppo, che l’elemento tensione si manifesta. Ma perchè scappano, presi dalla paura? Perchè? Evidentemente perchè la voce che essi sentono e che identificano come quella di Vicky, proviene da un’altra presenza, che non è materiale ma immateriale: in altre parole, uno spirito senza pace. Ecco l’elemento sovrannaturale presente in questo racconto che lo rende unico. E se c’è uno spirito senza pace, è evidente che il corpo di origine è morto.
E nel momento in cui almeno inconsciamente si ritiene che Vicky sia morta, e il suo corpo non si trova (come sarebbe accaduto se avesse avuto un incidente), è evidente che qualcuno l’abbia uccisa e abbia occultato il suo cadavere. E allora, almeno inconsciamente, Merrivale già contempla che qualcosa di terribile può esser accaduto a Vicky. Ora successivamente, una voce, che lui attribuisce a Vicky lo chiama al telefono. Posto che il tono di questa sia diverso da quello di uno spirito senza pace, è evidente che Merrivale pensi ad un tentativo di contraffazione della voce. Perchè c’è questa seconda conversazione con la Vicky presunta? “Bisognava farmi sentire la voce della ragazza scomparsa, per convincermi che era ancora viva”, dice più tardi Merrivale a Masters. E perchè mai dico io sarebbe stato necessario convincere Merrivale che la ragazza fosse ancora viva, se Il Grande vecchio avesse creduto alla sparizione volontaria? Perchè probabilmente pensavano che egli nutrisse già il sospetto o la certezza che Vicky fosse morta.
Quando Merrivale spiega a Masters come le cose siano andate, spiega anche di chi potesse essere quella voce. Tuttavia qui noto che la spiegazione che viene data, cioè che al buio una voce contraffatta può essere ritenuta quella vera e non si abbia la certezza da dove sia venuta, non è, al pari della spiegazione del delitto, una spiegazione del tutto esauriente. In altre parole, secondo me, Merrivale (cioè Carr) lascia aperta una porta: quella secondo cui quella voce potesse appartenere effettivamente a Vicky, allo spirito di Vicky, che prometteva che entro il giorno dopo avrebbero avuto sue notizie. Il che effettivamente avviene, scoprendo Merrivale chi abbia ucciso Vicky e come.
Faccio notare che anche in The Burning Court viene data una spiegazione razionale dell’elemento impossibile, esistendo al pari anche una spiegazione irrazionale del fenomeno.
Quello che secondo me esiste anche in questo racconto.

giovedì 23 febbraio 2017

Soji Shimada : The Locked House of Pythagoras (P no Misshitsu, 2011) - Trad. Yuko Shimada/John Pugmire - EQMM Agosto 2013



Anni fa Luca Conti, che ora è Direttore Editoriale del magazine Musica Jazz, si occupava di traduzioni dall’americano, occupandosi di Crime Fiction Contemporanea (Ellroy, Lansdale, Bazell, Crumley, Sallis, Ellmore Leonard, etc..) per varie case editrici. Una volta che ci sentimmo per telefono, mi disse che lui era entrato in Giunti ed era diventato un consulente, e se le cose fossero andate in un certo modo, avrebbe anche fatto tradurre certe cose che mi erano care, e che lui aveva già letto in inglese, tra cui per esempio The Tokyo Zodiac Murders, di Soji Shimada. Poi la sua esperienza finì in un certo modo, e così non abbiamo più visto il romanzo di Shimada.

Qualche giorno fa ho potuto, tramite un amico, leggere un racconto che Shimada ha scritto e che è stato pubblicato su EQMM quattro anni fa, di cui parlo oggi. Come anticipato nell’annuncio di qualche giorno fa, i miei lettori dovranno fare affidamento sulla mia analisi perché, a meno di non procurarsi la copia di EQMM di 4 anni fa, e di non leggerla in inglese, non potrebbero mai sapere nulla di Shimada. La mia analisi viene pertanto anche pubblicata allo scopo di creare un bacino di lettori che possa sollecitare in futuro la pubblicazione di opere di autori ancora colpevolmente ignorati in Italia.
Il racconto in questione si intitola The Locked House of Pythagoras
Eriko è un ragazzo. Sta a scuola e sta togliendo dall’aula una serie di cose inutili tra cui dei manifesti. Incontra un altro ragazzo che è il figlio di Tomitaru Tsuchida, un famoso pittore cui è stato affidato il compito di selezionare una serie di opere effettuate da allievi di scuola elementare e media, e che è stato vittima di un cruento omicidio qualche giorno prima, assieme alla sua amante Kyoko Amagi. Eriko si stupisce un po’ per la richiesta di un foglio di carta velina da usare per creare un copricapo, però non troppo poi, giacchè il ragazzo e la madre sono rimasti poveri giacchè il padre non passava gli alimenti alla ex moglie e al figlio; anche per tutto questo si ricorda il giorno dopo quando incontra il suo amico Kiyoshi Mitarai, che ha concorso anch’egli alla selezione.
Del resto, per chi vive in quella scuola, l’omicidio del pittore incaricato della selezione delle opere, tiene banco: è stato ucciso nella sua casa assieme all’amante, solo che la stanza dove son stati trovati i corpi era chiusa dall’interno e la casa pure, intorno alla casa c’erano solo impronte che la circondavano ma nessuna che entrasse o uscisse, nel terreno bagnato fradicio per la continua pioggia. I due corpi erano stati trafitti da numerose pugnalate che avevano provocato un vero lago di sangue. In un primo tempo si era supposto a caldo che Tsuchida avesse ucciso l’amante e poi si fosse ucciso, ma, sia il numero delle coltellate che lo avevano raggiunto, tutte mortali, sia il fatto che l’arma non fosse stata trovata assieme alle vittime, aveva escluso l’ipotesi del suicidio e avvalorato quella invece del duplice omicidio.
Il concorso era stato annullato non solo per la morte dell’esaminatore, ma anche per la contaminazione delle opere in concorso: contaminazione da cosa? Dal sangue. Infatti la sala chiusa dall’interno in cui erano stati trovati i corpi era coperta dalle opere in concorso, che si erano impregnate del sangue delle due vittime.
Cosa strana un particolare: non tutti i disegni erano incrostati di sangue ma anche di vernice rossa. Perché?
Altra cosa strana: la commissione aveva proposto 90 opere delle scuole elementari e 50 delle scuole medie, ma Tsuchida aveva invece optato per 88 e 48. Per quale motivo?
I due ragazzi delle scuole medie sono sicuri di poter addirittura risolvere il mistero, in particolare Kiyoshi: conosce delle cose attinenti il concorso, fa delle ipotesi e dice di poter anche risolvere il caso, riuscendo a capire il perché quei quattro disegni fossero stati eliminati dalla competizione: 90-88=2, 50-48=2; 2+2=4.  Deve però sapere altro, e per fare questo, si reca con l’amico alla casa del pittore, che è di fronte a quella in cui vive la ex moglie e il figlio. Nel terreno circostante la casa sono state trovate impronte, ma non dirette dentro o fuori la casa, e non della donna o di suo figlio, nel qual caso si sarebbe supposto un uxoricidio, ma dell’ex-marito della Amagi, che è stato arrestato: dopo estenuanti interrogatori ha ammesso di essere stato lui ad uccidere i due, ma nel tempo stesso non ha saputo dire come. Qualcuno sospetta quindi che egli abbia ammesso solo per far finire quella vera e propria tortura psicologica nei suoi confronti.
I ragazzi chiedono ai due detectives della polizia di poter visionare la casa, ma vengono derisi. Tuttavia Kiyoshi è in grado, pur non essendo mai entrato al di dentro, di fornire le esatte dimensioni della stanza in cui si è commesso l’eccidio, nello sbalordimento generale. E di indovinare persino quelle delle due stanze poste al piano di sopra. I due poliziotti, che non sanno che pesci pigliare, colgono la palla al balzo, e accettano, anche se non proprio di buon grado, di far visionare la casa, i cui pavimenti e muri coperti di sangue non sembrano infastidire molto i due ragazzi.
Kiyoshi saprà innanzitutto spiegare il perché Tsuchida avesse richiesto un numero di opere inferiore di quattro unità rispetto ai numeri delle opere selezionate dalla Commissione del Sindaco: esso è in relazione alla superficie quadrata della stanza chiusa dall’interno e a quelle di due stanze al piano superiore una quali è un laboratorio e l’altra uno studio. Esse sembrano costruite sui cateti di un triangolo la cui ipotenusa è la base di un’altra stanza. Siccome i due piani sono identici e anche struttura, planimetria e disposizione delle camere, ne deriva che il principio sulla base del quale Kiyoshi risolve l’enigma, è il Teorema di Pitagora.
In sostanza, le opere erano state richieste da Tsuchida sul presupposto che esse ricoprissero assieme, esattamente il pavimento della grande stanza al piano terreno, e separate  a seconda delle provenienza (Scuola Elementare e Scuola Media) le due stanze al piano superiore: camminando sopra, egli avrebbe scelto le più meritevoli. Ne deriva da ciò che il duplice omicidio non si era svolto nella stanza al piano inferiore ma in quelle al piano superiore: qui l’assassino aveva ucciso i due, massacrandoli con il coltello, poi il sangue aveva letteralmente coperto le opere che tappezzavano il pavimento, e così facendo si era posto il problema che altre opere non fossero coperte di sangue (quelle dell’altra stanza): ecco perché si era pensato alla vernice rossa. Poi i corpi e i disegni insozzati di sangue erano stati portati al piano di sotto, tutto erano stato accuratamente pulito, in modo che non si risalisse alla vera scenda del delitto, e poi si era apprestata la scena finale: la stanza era stata chiusa dall’interno e l’assassino era uscito con uno stratagemma da un vasistas stretto del tokuroma, troppo stretto per averlo fatto ritenere una via di fuga. Solo che l’assassino si è servito di un escamotage. 
Di questo si renderà conto Kiyoshi, individuando anche il perché si fosse nascosto il vero luogo del delitto, come si fosse potuto uscire dal primo piano non lasciando impronte, e capendo anche l’identità dell’assassino dall’unica prova lasciata (dimenticata) all’interno della casa: un ombrello.
Straordinario racconto di Shimada, è “nero” fino al midollo. John Pugmire che ha curato assieme a Yuko Shimada la traduzione in inglese, ha risposto qualche giorno fa, al sottoscritto che notava la morbosità della vicenda, l’estrema violenza e le scene grandguignolesche, quasi da cinema splatter, e come le scene del poliziesco made in Japan sia più forte nelle tinte rispetto all’asetticità quasi di quello di marca anglo-sassone e statunitense, con un’affermazione lapidaria ma estremamente precisa: No "cozies" in Japanese fiction, only "gories"
In questo indubbiamente la crime fiction giapponese è simile a quella francese, e Shimada in particolare mi sembra che possa essere messo a confronto per esempio con Paul Halter. In ambedue soprattutto, protagonisti indiscussi sono i ragazzi: come non ricordarsi dei vari romanzi di Halter che hanno come protagonisti i ragazzi? Anche qui “protagonisti” sono i ragazzi. Uno è addirittura il vero detective che scopre l’arcano, e che deriva indubbiamente – secondo me – da Detective Conan, il protagonista cartoon giapponese alla base di molte storie di crimini impossibili.
Shimada è sensazionale anche e soprattutto per la sua delirante visione del sangue: il sangue ricopre i pavimenti delle stanze superiori, imbevendo le tavole dei disegni (fogli A3), ce n’è talmente tanto da scivolare in rigagnoli tra i vari fogli, e da costringere l’assassino/gli assassini a ripulire accuratamente la scena del delitto, e le scale, utilizzate per trascinare i corpi e portare giù tutti disegni coperti di sangue, apprestare la messinscena finale al piano di sotto, e sporcare finanche i muri, e coprendo di vernice rossa di un colore simile al sangue altre tavole. Tutta questa febbrile opera di pulizia e risanamento verrà scoperta solo grazie al Luminol. Il confronto con Halter è quello imperniato su un romanzo come La Brouillard rouge, dove una camera è tinteggiata col sangue.
Shimada è sensazionale anche e soprattutto per aver concepito un plot basato sulla geometria, la cui stessa soluzione della camera chiusa è in relazione al fatto che i due quadrati al piano di sopra fossero come costruiti sull’ipotenusa, base del quadrato della stanza chiusa dall’interno; e per il fatto che se non si fosse allontanato il sospetto che il delitto fosse stato compiuto al piano superiore invece che a quello sottostante, qualcuno avrebbe subito intuita la strada per uscire dalla casa. E finanche, forse, scoprire l’assassino.
Il giallo nipponico, invero, pur pagando il proprio tributo al giallo occidentale di marca anglosassone, se ne differenza sostanzialmente per un carattere ben preciso: il giallo di tipo anglosassone, quello che si rispetti beninteso, presenta un’indagine effettuata dentro un certo gruppo di sospettabili dei quali bisogna smontare gli alibi, poi bisogna individuare le prove e soprattutto i moventi e infine capire il “modus operandi” dell’assassino. In altre parole, quasi sempre, quando si presenta una situazione impossibile, essa deve essere capita indipendentemente dall’individuazione dell’assassino, secondo due momenti ben distinti; nel giallo giapponese invece, almeno in questo di Shimada, laddove ci sia una situazione impossibile, basta risolvere la situazione impossibile e qui “la Camera Chiusa”, per capire chi sia l’assassino. In altre parole, l’azione del delitto non presume un’indagine basata sul Whodunnit ma sull’ Howdunnit: non chi sia l’assassino (da cui si desume come abbia assassinato), bensì come l’assassinio si sia svolto (da cui si desume chi sia l’assassino). Cambia tutta la prospettiva. In questo mi sembra di poter asserire una verità sostanziale: il giallo nipponico, almeno questo di Shimada,  è molto vicino a quello francese di Halter, di Boileau, di Vindry, in cui i sospettabili sono pochi, estremamente risicati, e che possono essere messi in discussione solo nel momento in cui l’azione arcana del crimine venga esorcizzata attraverso la soluzione del crimine impossibile, che indirizza inequivocabilmente l’attenzione degli inquirenti nei confronti di un solo ed evidente assassino.
Per di più la soluzione della Camera Chiusa relativa non alla stanza dove vengono trovati i due corpi, ma al modo di lasciare la casa, è molto simile a quella adottata da Halter in Le Tigre borgne.
Che poi abbia seguito quella soluzione o vi sia arrivato da solo, è comunque vero che Paul Halter è molto amato in Giappone.
Pietro De Palma