Il titolo che ho voluto dare a questa esplorazione di Death in the Dark,
rende secondo me molto bene, la strana reazione del pubblico, almeno
strana a parere di Antheil, che se ne aspettava una ben diversa, da cui
derivò la decisione dello stesso, di abbandonare del tutto le velleità
paraletterarie e dedicarsi ad altro.
In verità, il noto critico britannico e romanziere
Julian Symons, affermò che Antheil avrebbe scritto un secondo romanzo,
oltre a questo pubblicato all’epoca da Faber & Faber, la casa
editrice fondata da Elliot; ma di questa seconda opera, al momento
abbiamo solo il suo commento e null’altro. Quindi, a meno che non lo si
trovi un giorno sepolto in qualche collezione privata, l’unico
poliziesco scritto e pubblicato, di Antheil, rimane Death in the Dark.
Perché rimase l’unico tentativo di Antheil? Perché il pubblico non lo accettò come lui si sarebbe aspettato che fosse accaduto?
Innanzitutto diciamo che il romanzo è uno
super-vandiniano. All’epoca, in cui Antheil lo scrisse, Van Dine era il
campione e l’archetipo da prendere a modello se non copiare, soprattutto
per uno scrittore statunitense come Antheil che, pur se trapiantato
temporaneamente in Europa (dopo la prima guerra mondiale si era creata
una comunità di americani (Ezra Pound, Antheil, Hemingway, Miller,
etc..), soprattutto a Parigi, che aveva familiarizzato con autori
europei:Elliot, Joyce, Mirò, Picasso, Stravinskj, De Chirico ),
risentiva profondamente dell’influsso nietzschiano di Van Dine: Philo
Vance è un detective borghese, ma ricchissimo e coltissimo, che
disprezza il volgo, e per cui ha valore solo il delitto commesso secondo
“una delle belle arti” a dirla come Thomas De Quincey. Insomma un
detective per cui le teorie di Nietzsche sulla nascita del Superuomo
(che nello scrittore tedesco, al di là della strumentalizzazione
post-mortem del nazismo, ha però più un significato filosofico) avevano
un valore emblematico. Tuttavia questo super-ominismo filosofico, aveva
anche una sua anima profondamente irrazionale, che ben si sposava con
gli aneliti di chi voleva risvegliare le coscienze dal torpore in cui
erano sprofondate.
Ecco che allora Antheil non potè che creare un
detective che fosse in larga parte tributario a Van Dine. E così il
Philo Vance di Antheil, che assunse come pseudonimo Stacey Bishop, è
Stephan Bayard: come Philo Vance è un esteta, appassionato cultore e
critico di arte contemporanea (come appassionato e critico d’arte è
Philo Vance), e come Vance è appassionato di musica, solo che Bayard lo è
di musica contemporanea; ha anche lui un amico Procuratore: il Markham
di Philo Vance è il Wayson di Antheil. E il romanzo di Antheil si basa
su uno di Van Dine, in maniera talmente palese, da esserne quasi una
citazione.
Una catena di delitti si svolge in una casa, guarda
caso di New York: a casa Denny, facoltosa famiglia della borghesia
ricca, Dave Denny è stato trovato ucciso da un colpo di pistola in
fronte. Cosa c’è di strano? Il fatto che al momento dello sparo, la casa
fosse al buio: come ha fatto l’assassino a riconoscere al buio la sua
vittima e sparargli esattamente in mezzo alla fronte, nella sua camera
da letto? Il bello è che tutti i sospettati erano al momento dello sparo
riuniti nella stessa stanza: Frieda Alvinson era sprofondata in una
poltrona a leggere; il Dottor Stein e John Alvinson erano affacciati ad
una finestra, mentre all’altra, adiacente o quasi, era Gertrude Denny,
la moglie della vittima; infine nella sua camera da letto dormiva la
matriarca della famiglia, la madre dei Denny. E c’è anche un
fratellastro, Aaron, nato dal primo matrimonio di Roscoe Denny, che però
al momento dell’omicidio, era fuori di casa.
Le indagini paiono a prima vista più che ardue: chi
ha ucciso ha approfittato di una fortuita distrazione dei presenti
(l’ululato delle sirene dei pompieri che passavano sotto le finestre di
casa), oppure ha scientemente premeditato il tutto? E chi si aspettava
di vedere dentro il bagno Gertrude, quando il capitano Jules ha aperto
la porta del bagno? E chi ha scritto un misterioso libro poliziesco in
cui si trova minuziosamente descritta una vicenda che si adatta a
pennello a quella appena accaduta? E soprattutto perché la chiave della
porta si trovava infilata dal di dentro, quando era consuetudine che
quando uno della famiglia fosse fuori (Aaron) essa fosse appesa ad un
gancetto? E perché la pistola ha fatto due volte fuoco e la seconda
pallottola era a salve?
Fatto sta che le indagini porterebbero ad Aaron,
accusato pure dalla matrigna e la cui parte nella vicenda sembra essere
pericolosamente accertato; e la polizia non può fare a meno di
arrestarlo, perché proprio mentre la vecchia madre sta per pronunciare
il nome dell’assassino ( lui?), qualcuno, in mezzo ai presenti, le
spara. Solo che nessuno ha visto chi ha sparato, e, cosa ancor più
strana, la pistola che ha sparato, vien trovata sul letto della prima
vittima: in pratica avrebbe misteriosamente da sola attraversato il
corridoio che divide la camera dei Denny dalla stanza dov’è avvenuto il
secondo delitto.
Tutto risolto? No, per nulla. Perché il sospettato
viene a sua volta trovato morto nella sua cella, ucciso da un colpo di
pistola sparato quasi a bruciapelo. La cosa strana è che : nessuno ha
visto entrare chi l’ha ucciso, e tantomeno uscire; nessuna pistola è
stata trovata dentro la cella.
Insomma tre delitti uno più insolubile dell’altro.
In mezzo a questa jungla di sospetti, false piste,
indizi più o meno convincenti, indizi risolutori, strampalate analisi e
altre per nulla strampalate, considerazioni artistiche e musicali,
ricerche endocrine criminologiche, Stephen Bayard, riuscirà ad
incastrare un assassino di mente superiore, astuto, vendicativo, e
diabolico.
E’ evidente che il falso rigo su cui Antheil
costruisce il suo romanzo, come abbiano detto prima, è costituito da un
romanzo di Van Dine. Considerando l’anno cui risale la scrittura e non
mera pubblicazione del suo romanzo (1929), Death in The Dark,
avrebbe potuto avere come esempio solo uno dei prim romanzi vandiniani
scritti sono a quell’anno. Tra questi viene scelto quello che ancor oggi
è considerato forse se non il capolavoro uno dei suoi capolavori e
quello che sicuramente ha influito più di tutti gli altri, sul romanzo
poliziesco tout court: una catena di delitti che si verificano in una
famiglia.
Da Van Dine aveva preso alcune caratteristiche cui
abbiamo accennato più sopra. Dirò ancora che lo stesso narratore in
prima persona Stacey Bishop, lo pseudonimo di Antheil, è modellato sul
Van Dine, che compare nei romanzi e che è pseudonimo di Willard Huntington Wright.
Lì c’è la famiglia Greene, qui la famiglia Denny.
In tutti e due vi è una matrigna, vedova. In entrambi, essa finisce per
essere ammazzata. In entrambi vi è una biblioteca, in cui si trova un
particolare libro, rivelatore per l’assassinio (il primo), in entrambi i
casi vi è una mente diabolica che pianifica la strage; in entrambi i
casi vi sono considerazioni artistiche; in entrambi i casi vi è un
dottore, lì Von Blon, qui Stein; in entrambi i casi vi è un delitto
commesso con una pistola che non si trova (il terzo omicidio), in
entrambi i casi vi è qualcosa che viene aperto e che provoca la morte.
Troppi elementi simili per non parlare di un esempio di
super-vandinismo.
La cosa che maggiormente mi ha incuriosito,
tuttavia è il fatto che in un romanzo costruito (forse) come omaggio a
Van Dine e al suo modo di costruire i romanzi polizieschi, Antheil vi
avesse inserito sue considerazioni sull’arte (Mirò, Picasso ) e sulla
musica (Stravinskj, Schumann, Raff), attribuendole al protagonista; e
soprattutto sue considerazioni (che gli valsero, come ricorda nella
Prefazione Boncompagni, la considerazione della Polizia parigina) sulla
natura endocrinologia del crimine: in particolare sul timocentrismo.
Considerazioni che egli – nella trattazione del romanzo – affida al
dottor Stein. Quello che però mi ha particolarmente colpito è come Stein
parli del fenomeno e di come egli intenda guarirlo: e per far ciò, tra
le altre, esprime proprie considerazioni sul fatto come, avvalendosi di
determinati espedienti scientifici, si possa tramutare una massa di
deficienti in una serie di menti brillanti. La creazione di una super
razza? La descrizione che fa di Stein è di uno scienziato coltissimo, ma
anche che crede ciecamente nel suo progetto. Il laboratorio con tutti i
suoi apparecchi elettrici, e l’aura che riesce ad ottenere attorno al
corpo umano, mi fanno pensare a Metropolis di Fritz Lang. Ma la
considerazione che operando una modificazione radicale del timocentrismo
si riesca a tramutare un criminale in un essere dal cervello brillante,
un superuomo, come egli dice, mi fa pensare a Nietzsche, ma anche agli
studi che vennero dopo di genetica e che individuarono il cromosoma
della criminalità.
Al di là di questo, il romanzo pur essendo un
trionfo della deduzione pura, è troppo difficile per il lettore medio:
perché possa essere capito a fondo, necessita di un lettore che conosca
determinate problematiche, e certamente questo può aver influito sul
successo del romanzo. Forse anche la somiglianza notevole (e taccio su
altre somiglianze ancor più dirette) con The Greene Murder Case, ebbe la sua importanza. Chissà..
Certo
è che Antheil si aspettava un grande riconoscimento del pubblico, ed
invece l’accoglienza non fu quella auspicata. Quello che ne risultò fu
che un grande interprete del modernismo musicale statunitense, cercò
senza grande fortuna di consegnare un’opera poliziesca di grande respiro
alla storia del genere.
Sembra
quasi la storia di un’altra interprete musicale statunitense, Blanche
Bloch, anch’essa vandiniana, che consegnò alla storia un solo romanzo
degno di nota: The Bach Festival Murders (1942).
Ma questa è un’altra storia.
Al di là di tutto ciò,
un romanzo straordinario, pubblicato in Italia per la seconda volta in
assoluto, dopo la prima pubblicazione del 1930.
Pietro De Palma
Nessun commento:
Posta un commento