Bernardo lo conosco da tanto tempo, da quando
conversavamo nel Blog Mondadori ai tempi di Altieri, quando c’erano premesse di
cambiare l’impostazione della linea editoriale. Per cui c’era
sempre fermento, e sempre idee.
Qualche giorno fa, grazie ad un’amica comune, che ne
aveva parlato nel suo blog, Bernardo mi ha fatto recapitare il suo romanzo col
quale aveva partecipato anni fa al Tedeschi: non avendo avuto la possibilità di
essere pubblicato su Mondadori, si era creato lui quella di pubblicare il suo
romanzo presso altro editore.
Il romanzo si situa nel 1964.
C’è un gruppo di
adolescenti che si ritrova nella Villa del paese (il giardino comunale) per
parlare, giocare, amoreggiare. Un giorno casualmente qualcuno parla di un caso
irrisolto: la sparizione di Don Raimondo, l’arciprete del paese. Era andato in
chiesa per confessare e officiare la messa una sera, poi era uscito ed era
scomparso. I ragazzi si interrogano; uno, il protagonista della storia, che
parla sempre in prima persona, che poi rievocherà a tanti anni di distanza la storia di cui era
stato protagonista, davanti ad un ufficiale dei carabinieri, per effetto di una
lettera speditagli dall’assassino ormai condannato alla morte da un cancro al
polmone, non si capacita del fatto che lui quella sera della sparizione di Don
Raimondo, dalla Cappella del Bambin Gesù, era proprio lì davanti alla cappella
e Don Raimondo non l’aveva proprio visto uscire. In sostanza lui è il
testimonio chiave di cui al tempo nessuno, tantomeno i carabinieri avevano
sentito il bisogno di vagliare, tanto più che lui della sparizione di Don Raimondo
non aveva mai sentito parlare dai suoi genitori. Era un fatto che si era
preferito cancellare.
Così comincia un’indagine, che è anche un gioco all’inizio,
un’avventura in cui i ragazzi si buttano a peso morto. Cominciano a chiedere in
giro, a restringere il numero di coloro che avevano partecipato all’ultima
messa di Don Raimondo. A condurli nel loro percorso di indagine è Il Maestro,
un pazzo inoffensivo dell’ospedale psichiatrico locale a cui consentono di
uscire, che diventa il loro vate, una specie di loro eroe ancor prima che si
diffonda la notizia di Don Raimondo per la sua capacità di eseguire
difficilissime divisioni a memoria. Il Maestro ben presto coordina le indagini
del gruppo e fissa i paletti: il momento in cui il prete era arrivato in
chiesa, quando aveva cominciato messa, le stranezze durante la messa per l’assenza
del sagrestano Cicillo, il fatto che il prete fosse scomparso. Poiché per
sapere il resto dovrebbero interrogare i testimoni, coloro che avevano partecipato
all’ultima messa, stilano una lista e cominciano con vari sotterfugi a cercare
di avere rapporti con loro. In sostanza non ricavano granchè tranne tre cose
molto interessanti: il fatto che durante la permanenza di Don Raimondo fosse
scomparso Vincenzino, un bambino di otto anni ritrovato poi strangolato,
violentato e torturato; e che durante la Messa non ci fosse stata né la
presenza di Cicillo sull’altare a fianco dell’officiante né tra i banchi a
chiedere la questua nonostante il prete fosse avido. Questi tre fatti, uniti ad
altri, cominciano a comporre un quadro orribile: il prete era un pervertito
degenerato e qualcuno, ritenendolo direttamente responsabile della morte del
bambino, lo aveva ucciso e fatto scomparire.
L’inchiesta si intreccia ben presto con il primo amore
del protagonista, Lucia Davino, una ragazzina figlia di un professore di liceo
classico, e con i sentimenti degli stessi ragazzi, che ben presto capiscono che
nel quadro d’insieme, nel puzzle in cui
mano a mano le tessere stanno andando al giusto posto, ognuno ha qualcosa da
perdere: perché in sostanza a quella messa avevano partecipato anche alcune
persone che erano direttamente o indirettamente collegate ai ragazzi. Cosa c’entrano
ora i testimoni? Vorrebbe spiegarlo un dono che Il Maestro fa al protagonista
per il suo compleanno: Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie,
storia dell’ assassinio premeditato di una persona che aveva rapito e ucciso
una bambina, tramite una congiura di gruppo. In sostanza, coloro che apparentemente
erano solo testimoni, avrebbero partecipato all’assassinio del prete, inserendo
nella congiura Cicillo. Questa sarebbe la prima soluzione, quella cui vengono
condotti i ragazzi. Perché si sarebbero svolti così i fatti? Perché il prete,
non uscendo dalla chiesa con le sue gambe e nemmeno potendo essere nascosto da
qualche parte, non essendoci nascondigli in sagrestia (il luogo dell’assassinio),
sarebbe uscito in altro modo.
Questa prima soluzione però comporterebbe il sospetto
di molte persone e quindi viene frettolosamente messa a tacere, e lo stesso
protagonista e la sua fidanzatina vengono separati dalle rispettive famiglie:
così il dolore di Vincenzino diventa il dolore di un’intera comunità.
Il romanzo finirebbe così se, nell’epilogo, tuttavia a
distanza di molti anni una lettera non arrivasse al protagonista, diventato
ormai adulto e sposato, raccontando un’altra storia, quella di un depistaggio,
da parte di un Deus Ex Machina, e di un’altra soluzione, che comporta non la
messa in stato di accusa di un’intera comunità ma di un solo uomo, dell’assassino
che ha ucciso, con la collaborazione di Cicillo, il prete ( colpevole non solo
della morte di Vincenzino, ma anche di Jacopo figlio dell’assassino e di un
altro bambino in altri due paesi italiani dove il prete era stato mandato in
missione): l’assassino ha scavato, quando il prete non c’era, sotto tre assi
del ripostiglio della sagrestia, una fossa capace di contenere due uomini e vi
ha nascosto il corpo, adagiandosi a sua volta sul cadavere, e rimettendo gli
assi al loro posto e prima dell’ultimo anche le cianfrusaglie che vi erano
poste sopra, finchè la chiesa non sia sgombra prima dei testimoni e poi dei
carabinieri lì arrivati, confidando nella loro poca professionalità; e poi di
notte è uscito dalla tomba, mutilando il cadavere e seppellendo nuovamente i
pezzi divisi, ottimizzando quindi lo spazio ottenuto, e poi uscendo
indisturbato dalla chiesa facendo perdere le sue tracce.
Dico subito che questo romanzo avrebbe meritato la
vittoria del Tedeschi, ma si sa che le opere dei vincitori non sempre
rispondono solo ai propri meriti ma anche ad altre incognite ambientali e
personali, proprie di coloro che le giudicano:
magari al giudice il mystery non piace, magari piace una storia più
truculenta, magari preferisce l’hardboiled, il noir nostrano al romanzo
poliziesco alla Maigret. Ma come ho detto a Bernardo, difficilmente avrebbe
vinto perché è un’opera troppo complessa, con troppi rimandi, che per essere
apprezzati avrebbero dovuto richiedere una cultura di base poliziesca molto
specifica, almeno nel mystery. In altre parole, se a giudicarlo fossi stato io,
gli avrei dato la palma del vincitore; altri…
Perché complesso?
Il romanzo può essere visto sotto diverse prospettive.
Innanzitutto sotto l’ottica di un “come eravamo”, come
la nostra storia, la storia dei cinquantenni e sessantenni come Bernardo e come
me che in quegli anni erano adolescenti e vivevano proprio quelle situazioni,
quei fatti storici, stagioni di pensiero, che cantavano quelle canzoni e
vedevano quei film che tutti abbiamo visto, sentito, ascoltato, visto; i nostri
primi amori giovanili, i nostri giochi tipo “i ragazzi della via Pal”.
Poi sotto l’ottica di un romanzo sociale, perché tratta
della pedofilia, un male della società ancora più orribile perché partorito da
chi dovrebbe difendere gli stessi bambini che invece diventano le sue vittime.
In un tempo, gli anni sessanta, in cui queste cose erano tacitate, nascoste
sotto il velo del silenzio, negli anni in cui la Chiesa mai avrebbe ammesso di
avere tra le sue fina dei figli degenerati, perché la Chiesa era posta su un
piedistallo e non viveva ancora le turbolenze della società in cui viviamo. Del
resto il titolo del romanzo allude alla pedofilia: cos’è l’orco se non un
mostro che mangia bambini? In questo caso la caverna dell’orco è la cappella.
Infine sotto l’ottica precipua del romanzo poliziesco
vero e proprio, in cui confluiscono molteplici richiami: da Agatha Christie
(dichiarato) a Poe (Il cuore rivelatore,
dichiarato). In realtà alla base della modalità del delitto sta un richiamo non
dichiarato, quello del Carter Dickson di
The House in Goblin Wood. Perché,
e questa è la particolarità più interessante, il romanzo è un mystery classico
con ceneri noir (la pedofilia, la solitudine dell’assassino, la tristezza di
fondo) che si colloca non tanto nel genere del whodunnit ma in quello più
particolare dei delitti impossibili . La prima soluzione, quella che viene
rivelata nel corso del romanzo, rimanda direttamente al racconto di Poe, ma ancor
di più a Carr, non so se volutamente o inconsciamente. Del resto già Carr aveva
esplicitato l’unico modo possibile con cui un corpo potesse scomparire, senza
poter essere nascosto in loco oppure sciolto. E le borse della spesa rimandano
al cesto da picnic di carriana memoria. Tuttavia, al di là di questa soluzione
apparente, vi è poi quella vera, confessata nell’epilogo, il finale a sorpresa,
che in sostanza, a vedere bene potrebbe anche collocarsi come una Camera Chiusa
anche se piuttosto semplice, non canonica come quelle di Carr, che si avvale di
un nascondiglio: infatti l’assassino, apparentemente, scompare nella Sagrestia.
Che è una Camera Chiusa perché anche se la porta non è chiusa, è tuttavia
guardata a vista dalla gente che sta a messa: è in sostanza una modalità già
espressa in altri romanzi precedenti, per es. in It Walks by Night, di
Carr, in cui le uscite della stanza in cui avviene la decapitazione sono
guardate a vista da testimoni fidati. Ma è anche un delitto impossibile, perché
il corpo scompare. E proprio per questo, per un certo tempo, fino alla
riesumazione dei resti, proprio perché non erano stati trovati, si è pensato
che il prete fosse andato via.
Poi ci sono altre anime nel
libro: c’è innanzitutto una vena di pessimismo molto accentuato, che si traduce
in una sorta di nichilismo nietzchiano (il rifiuto di Dio, perché è morto) che
va oltre esso stesso, perché il Superuomo la cui esistenza era giustificata dalla
morte di Dio, non esiste. Esiste solo un’umanità debole e fragile, condannata a soffrire: quasi un catarismo
contemporaneo.
E infine c’è un appunto
anche alla narrativa fantastica (non so se voluto dall’autore, o immaginato da
me): l’assassino che si seppellisce in una tomba assieme al cadavere, potrebbe
rimandare a The Greek Coffin Mystery di Ellery Queen, in cui nella
stessa tomba ci sono il cadavere ed un altro sopra il primo, come nel nostro
caso. E’ per me anche un rimando alla letteratura fantastica (o gotica), perché
l’assassino che esce dalla tomba di notte, cos’è altro se non un cadavere
vivente? E in realtà l’assassino che ha ucciso per vendetta, per vendicare il
proprio figlioletto ucciso da quel prete ignobile, si è trovato dannato già in
terra, ucciso dal dolore per la perdita della moglie e del figlio, e senza più
anima, divorata da una sofferenza indicibile e sostituita dall’odio puro: e’ un
uomo senz’anima, è un uomo che è già morto dentro, che vive solo per uccidere,
come il morto vivente.
Il romanzo, figlio senza
dubbio delle critiche sorte in seno alla Chiesa contemporanea in merito a quei
preti che nel corso del loro mandato si siano resi colpevoli di atti nefandi nei confronti di
vittime innocenti (disabili, bambini), manifesta una tristezza e una melanconia
di fondo molto accentuate. Anche forse dirette ad un mondo, quello della
fanciullezza che non esiste più. Tuttavia nel romanzo non vi è solo un
assassino, ma due: uno, il prete, è l’assassino dei bambini; l’altro, l’assassino
del prete, è al tempo stesso, vergognandosene, un assassino di bambini: non li
uccide nel corpo, ma nella coscienza, costringendoli a vivere una serie di
conseguenze della loro indagine, che li porterà a soffrire: il protagonista,
viene ridotto al silenzio dalla comunità mediante pressione sui suoi familiari;
la sua fidanzatina, viene allontanata da lui, perché in certo senso da lui
plagiata; e soffre sapendo anche che della gente ha ucciso e che si difende,
attaccando lui, per non essere attaccata. Anche lui è un orco, un mangiatore di bambini: perché ha approfittato volutamente della
loro ingenuità, e anche lui ha un rifugio: la sua indifferenza al dolore, tanto ha sofferto; e un rifugio vero e proprio, che si è scelto, per non poter essere inquisito: l'alibi perfetto.
Accadono tante altre cose in
questo romanzo.
Da leggere.
Non solo per distrarsi ma
anche per riflettere.
Pietro De Palma
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