Uscito qualche anno fa, lo
Speciale n.69 de Il Giallo Mondadori, curato come sempre dall’inossidabile e
lungimirante Mauro Boncompagni, presentava nella formula consueta di due
romanzi + un racconto: I Quattro Giusti (The Four Just Men) di Edgar
Wallace, La tragedia in casa Coe (The Kennel Murder Case) di S.S.Van
Dine e, infine, La calda nebbia bianca (The Gemminy Cricket Case) di
Christianna Brand.
Dobbiamo dire, in tutta
sincerità, che mai come in questo caso, ci troviamo dinanzi e tre opere di
assoluta eccellenza, accomunate da un denominatore comune: un mistero di Camera
Chiusa che le riguarda ( in inglese si direbbe Locked Room).
Wallace e S.S. Van Dine
sono noti, come i loro romanzi, delle pietre miliari nel genere, ma pur sempre
reperibili in altre edizioni, perché molto noti (anche se in Mondadori ambedue
mancavano da un bel po’ nelle edicole). Tuttavia, se mai volessi in qualche
modo incentivare l’acquisto di questo volume ( a me non viene un centesimo
nelle tasche se si vendano o meno più copie), se volessi “convertire come un
missionario i soggetti restii al problema del mistero da Camera Chiusa”, userei
come esempio il racconto, questo sì pubblicato davvero molti anni fa (Autunno
Giallo Mondadori 1977) e leggendario, per l’aura che lo circonda: sicuramente
uno dei migliori racconti del genere Locked Room che mai in assoluto siano
stati pubblicati. Direi sullo stesso piano di The Third Bullet
di Carr e By
Unknown Hand di John Sladek.
Per quale motivo?
Scopriamolo assieme.
Thomas Gemminy è un noto
penalista londinese che, assicuratosi un bel patrimonio personale dalla sua
attività forense, si è dedicato ad attività filantropiche a favore di bambini
provenienti da situazioni familiari altamente disagiate: in sostanza bambini
parenti di noti criminali che, rimanendo nello stesso pessimo ambiente
familiare di provenienza, avrebbero potuto sviluppare gli stessi germi
delinquenziali dei loro parenti. Questi bambini sono stati da lui e dalla
moglie, finchè è vissuta, allevati, istruiti e tutelati, avviandoli a
sicuro avvenire; talvolta ha anche fatto in modo che, quelli in possesso di
tare ereditarie, emigrassero, in modo da perdere i riferimenti di base e quindi
essere più liberi di crearsi una vita senza sapere nulla del proprio passato.
Si distinguono questi soggetti dall’avere due cognomi assieme: il loro e quello
del patrigno.
I tre ragazzi a cui
Gemminy si sia più affezionato sono tre: Giles Gemminy Carberry, Rupert Gemminy
Chester e Helen Gemminy Crane; i due maschi sono entrambi innamorati di Helen e
lavorano nello studio legale del patrigno. Tuttavia c’è un incomodo: un terzo
“grillo” (così venivano chiamati i suoi ragazzi da Thomas Gemminy), che i due
maschi non conoscono, pare pure innamorato di Helen.
Il racconto inizia con Giles
che va trovare, presso una casa di riposo, un suo conoscente, anziano d’età,
particolarmente versato alla risoluzione di enigmi e gliene sottopone uno molto
arduo: Thomas Gemminy è stato ritrovato strangolato, legato e pugnalato ad una
spalla, nel suo studio, quasi disadorno, con la scrivania sulla quale è
accasciato, divorata dalle fiamme e una finestra rotta nel mezzo. La porta era
sbarrata e chiusa dall’interno, dalla finestra rotta al marciapiedi sottostante
c’erano più di quindici metri di strapiombo, e l’arma con la quale è stato
pugnalato (ed esce ancora del sangue quando irrompono i poliziotti), un
tagliacarte, è sparito dalla scrivania. I poliziotti, la cui Centrale è
sita proprio di fronte all’abitazione dell’avvocato, sono stati avvertiti da una
telefonata, arrivata dallo studio di gemmino, in cui l’avvocato con voce
disperata aveva parlato di “qualcosa che scompare nel nulla”. “di “qualcosa di
strano alla finestra”, e di “due lunghe braccia”. Arrivati alla porta dello
studio dopo neanche due minuti, trovano Rupert che sta cercando di buttare giù
la porta sbarrata; riescono a rompere due pannelli della porta, uno di essi
inserisce un braccio e fa scorrere i 2 chiavistelli orizzontale e verticale,
poi tutti quanti riescono a spalancare la porta e trovarsi davanti allo
spettacolo orrendo: l’avvocato morto, il cadavere in procinto di bruciarsi, la
finestra rotta che ancora vibra, dei frammenti di essa sul davanzale e
ovviamente, nessuno nella stanza, e la scrivania arsa dalle fiamme. Nel fumo
che soffoca e brucia gli occhi, Rupert trova un messaggio che parla di Helen e
corre via, un poliziotto esce correndo per andare a chiamare i pompieri, ma
tutti gli altri rimangono lì a cercare prove, inesistenti.
Un’ora dopo viene trovato
ucciso un poliziotto di ronda, tale Dinkum Cross, nelle stesse modalità
dell’avvocato: legato, strangolato e pugnalato. Anche lui, prima di essere
ucciso e poi ritrovato nella vecchia cisterna di una fattoria lì vicino, aveva
parlato, da una cabina telefonica in cui si era rifugiato, di “Lunghe braccia”
e di qualcosa che era “svanito nel nulla”.
Tocca al vecchio far qui
la parte dell’investigatore.
Basandosi sul proprio
acume e sulla propria deduzione, ricostruisce le fasi dell’omicidio, elaborando
tre ipotesi di delitto, ognuna per ciascuno dei tre giovani, che fosse stato
l’assassino. Poi elabora anche una quarta ipotesi, a carico del quarto
incomodo, supponendo che potesse essere il poliziotto ucciso e in quel caso che
lui poi fosse stato ucciso da uno dei tre per una qualche ragione legata alla
vendetta per la morte del vecchio penalista, che in sostanza si opponeva a che
uno dei protetti maschi sposasse Helen: sarebbe potuto trattarsi di tara
ereditaria a danno di Rupert, Giles o Dinkum, oppure a carico della ragazza.
Fatto sta che il movente è questo, l’amore tra Helen e uno dei tre maschi,
giacchè la pista legata al patrimonio viene scartata subito in quanto esso è
stato destinato interamente alla Fondazione, a favore dei ragazzi disagiati.
Tuttavia gli alibi paiono escludere i tre amici: Giles che aveva appuntamento
con l’avvocato alle 14,30 ha visto, arrivando alla casa in cui abita assieme a
Rupert, l’amico che andava via in anticipo (avendo lui l’appuntamento alle 16
con Gemminy) col soprabito al braccio: in quei momenti la ricostruzione della
polizia ha messo in evidenza che stava morendo l’avvocato, quindi i due giovani
sono protetti dall’alibi di trovarsi lontano dal luogo dell’omicidio;
rimarrebbe Helen, ma Giles afferma che c’era stato un equivoco verbale con lei,
essendosi recata non in un posto che si chiamava Bell ma Dell. In sostanza
rimarrebbe da vagliare la posizione del poliziotto.
Ma poi il vecchio ritorna
sui suoi passi, riprendendo in esame Rupert con un’altra ipotesi, e qui finisce
la storia. Anzi finirebbe, se non ci fosse la vera fine, con due colpi di scena
finali, uno più travolgente dell’altro, in cui viene indicato il vero assassino
e l’identità del vecchio “detective”.
Ho taciuto sia sulle varie
ipotesi di ricostruzione del delitto, sia ovviamente sull’identità dell’omicida
e su quella del vecchio, e su tantissimi altri particolari, dando il sunto
della storia, perché sarebbe ingiusto privare il lettore della gioia di leggere
questo gioiello.
Io il racconto l’ho letto
qualche anno fa, quando lessi parecchi bei racconti di quell’Autunno Giallo tra
cui mi ricordo un racconto di Hoch (Il serpente volante) e uno di Anthony
Gilbert che mi colpì. Il mio edicolante, dal quale ho acquistato i due classici
in edicola e uno dei due gialli inediti, mi ha permesso di leggiucchiare la
prefazione di Mauro Boncompagni, che sostanzialmente condivido, riservandomi
qualche osservazione: il Van Dine è bellissimo e se è vero che per originalità
del plot e densità dell’intreccio è superiore agli altri due, La Canarina assassinata
gli va molto vicino per me, non tanto per la soluzione – che giunge
inaspettata, “per opera dello Spirito Santo”, dopo un sopralluogo e la scoperta
di un oggetto rivelatore, acquisito per puro caso – ma per le mille
sfaccettature della personalità di Vance che vengono rivelate, e ognuna di
queste sfaccettature concorre alla soluzione del caso. Laddove in “Coe”, Vance
incarna il detective anni trenta, molto poco salottiero e molto serio, in
“Canarina”, è invece la quintessenza della frivolezza, del sarcasmo e
dell’erudizione; e quando tratta di cose che apparentemente non hanno nessun
collegamento con il mistero, alla fine esse hanno la loro importanza perché
concorrono in qualcosa alla soluzione, eccezion fatta per i rimandi letterari. Ognuno è padrone di
pensarla come crede. C’era addirittura chi (Julian Symons) diceva che: “The decline in the
Vance books is so steep that the critic who called the ninth of them one more
stitch in his literary shroud was not overstating the case”(Julian Symons :Bloody Murder, 2^
edizione, Penguin Books, 1985, pag.117). E
i soli due romanzi di cui parlava veramente bene, erano The Greene Muder Case
e The Bishop
Murder Case. E chi, come Barzun parlava di The Kennel Murder
Case, così: “Though
dogs can be dangerous in life and in detection, this imbroglio by the precious
and pedantic Van Dine is rather better than the rest of those written after
1930. It is a locked-room murder, there are clues, and Vance is not obnoxious
beyond endurance” (Jacques Barzun – Wendell Hertig Taylor, A Catalogue
of Crime, Harper & Row, 1971)
Quindi figurarsi quali e
quanti possano essere i commenti critici su una stessa opera!
In aggiunta a ciò, osservo
altre cose.
Innanzitutto, la qualità
del plot è altissima. La tensione e l’intelligenza nel creare le situazioni è
miracolosa. Creando il plot, Christianna Brand elabora in parte idee di altri
scrittori a lei precedenti: quindi, in sostanza, è una manierista, ma una
manierista di altissima qualità e assai intelligente, giacchè laddove utilizza
idee non sue, crea delle situazioni assolutamente nuove, che in qualche modo la
fanno assurgere a nuovo modello da imitare: mi riferisco al motivo per cui
viene ucciso il poliziotto, veramente una grandissima idea. Devo dire in tutta
sincerità, che, quando lessi la storia anni fa, cimentandomi nella risoluzione
dell’enigma (perché in sostanza c’è anche questo in questo romanzo, una sorta
di sfida riferibile a quelli di Ellery Queen: la gara che contrappone il
lettore allo scrittore nello spiegare lo svolgimento dei fatti), capii
parecchie cose che poi vennero spiegate successivamente. E una delle soluzioni
che volli dare, in parte, collimava, con quella finale: mi accorsi di aver
capito il trucco. Però se si vede bene, anche la “grandissima trovata” di
Christianna Brand, pur essendo “originale”, è nello stesso tempo una variazione
di una “grandissima idea rivoluzionaria per l’epoca in cui fu concepita” di un
altro autore, francese, di cui non faccio il nome, poi sfruttata largamente.
L’idea di Brand e l’idea di questo grandissimo autore sostanzialmente sono le
due facce della stessa medaglia: l’autore originario si basò sull’uso distorto
di una identità, la Brand utilizza lo stesso procedimento ma utilizzando un
oggetto, che in un certo senso ne è il simbolo. Lo ripeto: una trovata
veramente geniale!
“Il detective” imprestato
alla storia, il vecchio che Giles va a trovare, in quella che io definisco
implicitamente “una sfida col lettore”, scarta le varie soluzioni una alla
volta, e in questo la Brand ha dei riferimenti storici: The poisoned
chocolates case di Berkeley, in cui ognuno dei partecipanti alla
riunione elabora una propria teoria diversa in qualcosa dalle precedenti, e The Greek Coffin
Mystery di Ellery Queen, in cui non ci sono diverse spiegazioni associate a
diversi soggetti, ma uno solo, Ellery, che elabora 4 soluzioni diverse, e
scartandone tre, perviene a quella definitiva: un po’ quello che avviene qui.
Il racconto si chiama “la
calda nebbia bianca” in italiano, in riferimento all’obnubilamento mentale
dell’omicida: quando sfuggirà a quella calda nebbia bianca che gli invade la
mente, riuscirà a ricordarsi come sono andati i fatti. Questa calda nebbia
bianca mi ha ricordato Le brouillard rouge,
“Nebbia Rossa” di Paul Halter che ha stretti legami col nostro titolo:
l’omicida è folle, l’inizio trova la propria spiegazione alla fine nel nostro,
quasi alla fine in quello di Halter, e la Nebbia rossa è quella che offusca la
mente di Jack The Ripper quando è preso dal raptus dell’omicidio. Ovviamente è
Halter che avrebbe potuto prendere qualcosa dal racconto della Brand! Ma
soprattutto mi ricorda un altro romanzo, pubblicato recentemente e qui
recensito, La casa sulla scogliera di Clifford Orr, in cui il protagonista,
dopo che gli è svanita una nebbia che gli invade ilc ervello e non gli permette
di ricordare, ricostruisce tutto. Per derivazione mi sembra che Brand abbia
mutuato proprio da Orr l'initolazione del racconto.
Aggiungerei che se è vero
che Queen si collega a Van Dine, è vero che anche Brand si ricollega a The Finishing Stroke
di Queen. La scrittrice, in certo senso, varia il riferimento, sdoppiandolo: si
comporta cioè come farà più volte, dopo, Paul Halter nei suoi romanzi: prendere
un’idea base e variarla . Chi ha letto il romanzo del ’58 di Ellery Queen mi ha
capito (ma ovviamente dopo aver letto questo racconto), chi no, lo reperisca,
perché si tratta a mio avviso di uno dei migliori in assoluto della coppia.
Un’ultima osservazione mi
sembra pertinente: il modus operandi dell’omicida mi sembra affine a quello
dell’omicida in Death
From a Top Hat di Clayton Rawson. Infatti in entrambe le opere, la
successione degli eventi, dei due omicidi, non è quella effettiva, quella che
sembra a prima vista.
Detto questo, non mi resta
che augurare a chi leggerà questo racconto, di godere della lettura di questo
must.
Pietro De Palma
Contento Carter? Mi sono accorto che dovevo pubblicare una serie di articoli che tenevo da parte e di cui mi ero scordato. Ahimè, l'età avanza!
RispondiEliminaOttimo articolo come sempre! Hai ragione questo racconto è eccezionale.
RispondiEliminaLa Brand non sempre elaborava camere chiuse ma quando lo ha fatto sono risultate di pregiata fattura.
Complimenti!
RispondiEliminaOttimo!
RispondiEliminaRacconto davvero delizioso, un gioco di specchi mirabile e una soluzione soddisfacente. Tra gli ultimi racconti letti, sicuramente il migliore
RispondiElimina