lunedì 22 febbraio 2016

Christianna Brand : Morte di una strega (Death of Jezebel, 1948) – trad. Oriella Bobba - Prima ediz: GM n.2382 del 1994, Seconda edizione: CGM n.1232 del 2009


Nata nel 1907 e scomparsa nel 1988, si chiamava Mary Christianna Lewis. Prima di dedicarsi a pieno regime alla narrativa di genere, la Lewis più nota come Christianna Brand, svolse molti diversi mestieri, dalla commessa alla ballerina, modella e anche governante; ma non era inglese, pur appartenendo al Commonwealth Britannico: infatti era nata in Malesia e per molti anni visse in India. Figlia di un militare, Christianna, svolgeva ancora il mestiere di commessa, quando scrisse il suo primo romanzo Death in High Heels, “La morte ha i tacchi alti”, nel 1941: in questo giallo compariva come proprio investigatore l’Ispettore Charlesworth, che comparirà in un altro romanzo quasi quarant’anni dopo, 1979: The Rose in Darkness.
Tuttavia fu con l’Ispettore Cockrill, che la Brand raggiunse il successo; e infatti, oltre che nel suo romanzo d’esordio, Heads You Lose, sempre del 1941, e conosciuto in Italia col titolo “Cockrill perde la testa”, Cockrill comparve in altri romanzi, alcuni dei quali degli autentici capolavori: Green for Danger, “Delitto in bianco” (1944) che molti considerano il suo più bel romanzo; Death of Jezebel (1948); Tour de Force (1955). La Brand scrisse anche altri romanzi di genere poliziesco, introducendo l’Ispettore Chucky, per es. in Cat and Mouse (1950), altro bellissimo romanzo, già pubblicato anni fa da Mondadori e poi da Polillo. Christianna Brand scrisse anche dei romanzi per ragazzi (quelli con Tata Matilde) che ebbero notevole successo.
Christianna Brand è uno di quei rappresentanti del mondo della narrativa che provenivano da altre nazioni del Commonwealth, senza essere pura britannica, come per es.i neozelandesi Ngaio Marsh e Norman Berrow o l’australiano Arthur Upfield. La Brand, tuttavia, proprio per il fatto di esser stata estremamente eclettica nei ruoli svolti fino al successo, e per esser stata capace di mettersi sempre in gioco e di prendere la vita per quello che offriva, riversò nelle sue opere una certe verve che manca in autori come Upfield o Berrow o la stessa Marsh, molto più rigorosi e forse anche eleganti (la penna di Ngaio Marsh è molto raffinata) ma non invece così originali nelle soluzioni stilistiche e nei plot, e soprattutto più affettati. In certo modo, la Brand, nel mondo della tradizione britannica del romanzo poliziesco, è quella che secondo me si avvicina di più all’approccio americano, pieno di fantasia e talora anche fantastico, e che deve molto alla sua origine più “plebea” rispetto a quella aristocratica inglese.
Un esempio originalissimo e per certi versi emblematico di questo modo di vedere la costruzione di un romanzo, è Death of Jezebel , meglio conosciuto in Italia con titolo “Morte di una strega”, ripubblicato qualche anno fa da Mondadori. E’ un romanzo interessantissimo e superbo nella costruzione, lineare e assieme complesso, come certe opere del primissimo Ellery Queen, in cui Christianna Brand fa comparire non solo l’Ispettore Cockrill, ma anche l’Ispettore Charlesworth, il primo dei suoi personaggi: la presenza di entrambi, sancisce l’importanza del romanzo; inoltre, è stato racchiuso da alcuni critici anni fa, in un elenco delle migliori 99 Camere Chiuse della Storia del Giallo. Vediamo il perché.
Innanzitutto è uno di quei romanzi il cui avvenimento principale accade sotto gli occhi di tutti, nella fattispecie una platea, e di romanzi del genere, ve n’è un numero nutrito, per esempio: “Ventimila hanno visto” (un rodeo) per esempio, di Ellery Queen; “Ottanta milioni di occhi” (in televisione), di Ed McBain; “Tragedia in tre atti” (un ricevimento), di Agatha Christie, “La Poltrona N.30” (in teatro) di Ellery Queen.
Il romanzo inizia con uno stravolgimento che lascia del tutto esterrefatti, nella prima parte, quella che nel mystery più propriamente detto era dedicato alla presentazione dei personaggi, dei loro propositi, dei veleni e delle invidie, gelosie,cattiverie, motivo per la premeditazione o comunque per l’estrinsecazione di un fatto delittuoso. E molto spesso nei romanzi più tipicamente inglesi, per es. quelli della Heyer, passa del tempo prima che si arrivi all’omicidio, o almeno parecchie pagine. Invece in questo romanzo, nell’arco di sole due, si racconta di un amore sfortunato e di come un giovane, raggirato, si sia potuto uccidere lanciandosi con la sua auto contro un muro; e di come qualcuno, poi abbia giurato di vendicarlo, uccidendo coloro che si fossero resi colpevoli della sua morte. Tutto in due pagine: nessuna perdita di tempo, nessuna creazione di atmosfera ad hoc, ma in men che non si dica, si arriva alla parte centrale: in un teatro, deve svolgersi un carosello equestre, in costume: cavalieri con indosso elmi e corazze su cavalli bardati all’uopo, ed una rappresentazione di amor cortese, con l’immancabile dama che si dovrebbe sporgere dal balcone. Fatto sta che proprio la dama, è la strega che è stata all’origine del suicidio: si chiama Isabel, ma tutti la chiamano Jezebel, nome che la Brand usa sicuramente rifacendosi alla Jezebel biblica, regina dannata, che morì sbranata dai suoi cani. E come la Jezebel biblica (la regina Cananea sposa del re Acab, che portò il culto del dio fenicio Baal in Israele e si trovò a fronteggiarla il Profeta Elia), o come la Jezebel dell’Apocalisse di Giovanni, finta profetessa che induce e convince molti a commettere atti impuri, questa odiosa donna, che tiene in scacco chi le sta attorno e cerca di trarne il massimo del profitto, finisce per fare la fine che tutti vorrebbero che facesse; perché è stata lei alla base del suicidio di Johnny.
In questo, è come se la Brand prendesse le parti dell’assassino, e in certo senso, siccome la vittima è un personaggio odioso che si indica come la causa di un suicidio, è come se ogni lettore partecipasse alla vicenda, facendo quasi il tifo perché l’assassino potesse farcela questa volta a scamparla. Del resto in alcuni casi il detective è dispiaciuto quasi di aver dovuto arrestare l’assassino: in When in Rome di Ngaio Marsh, Roderich Alleyn commenterà che “..quello era il più simpatico assassino che avessi mai conosciuto”. Tuttavia, questa partigianeria del lettore per l’omicidio della “strega”, finisce nel momento in cui l’assassino per poter portare a compimento l’assassinio, premedita l’assassinio di un innocente, che solo per l’angelo vendicatore merita di morire, ma che in realtà col suicidio di Johnny Wise è c’entrato assai poco: era stato un fantoccio nelle mani e nei piani di Isabel-Jezebel.
Tuttavia questo omicidio, che si scopre in un secondo momento rispetto a quello di Isabel, avvenuto in teatro, sotto gli occhi di tutti, in una ipnotica Camera Chiusa, è stato necessario perché in un certo istante del carosello equestre, si potesse pensare che un certo cavaliere era su un determinato cavallo, ed invece quello era altrove, ad assassinare Isabel.
Se io parlo di trama ed i plot superbi, è perché la Brand qui riesce con un virtuosismo illusionistico a far convincere che davvero sotto quell’elmo, un certo personaggio avesse visto degli occhi, e a farlo convincere che davvero su quel cavallo ci fosse stato un cavaliere, il Cavaliere Bianco. Che poi si trovi che possa essere stato il Cavaliere rosso a strangolare la bella Isabel-Jezebel, e che addirittura quattro persone diverse giurino di essere ciascuna, lo stesso Cavaliere, questo è un altro giochetto con cui furbescamente la Brand rimescola le carte, e butta il povero lettore in pasto ai leoni, tanto più che a dimostrare in un primo tempo che le cose non possano essere andate in un certo modo, e che cioè il Cavaliere Bianco in realtà sul cavallo ci fosse, è proprio Cockrill; come poi ciò possa essere spiegato, è alla base di uno dei romanzi più indimenticabili che io abbia letto negli ultimi anni; e solo quando si leggerà la spiegazione, si potrà capire l’efferatezza dell’omicida e la sua lucida pazzia: come incastrare due fatti assolutamente impossibili (su un cavallo non poteva esserci un cavaliere e nel tempo stesso era provato che sotto l’elmo erano stati visti due occhi azzurri), sarà l’elemento centrale di questo straordinario puzzle: solo in quel momento si capirà come quello che viene scoperto come secondo delitto abbia invece preceduto il primo, quello spettacolare, e non solo in ordine al tempo ma anche alla stessa premeditazione dell’omicidio di Isabel. Infatti senza che fosse ucciso Earl Anderson, non poteva essere organizzato il secondo omicidio (che è poi il primo che ci viene presentato): la sua decapitazione era necessaria. 

Questo fatto di decapitare le vittime non è cosa comune nei Gialli dei begli anni: si tendeva quasi sempre a evitare il sangue (Il mostro del Plenilunio di Carr è un omaggio anche alla letteratura francese). Per cui mi sembra di poter dire che la decapitazione è funzionale alla storia. A parte poi che in altro giallo della Brand, ricorra lo stesso motivo, e possa essere il retaggio di usi antichi delle isole del Borneo, in cui lei aveva abitato da giovane (i daiachi tagliatori di teste), secondo me è un particolare che riallaccia la Brand a Ellery Queen, e al suo Il mistero delle Croci Egizie, dove anche lì la decapitazione delle vittime è funzionale alla trama del romanzo. Tuttavia rispetto a quel romanzo la Brand opera un’inversione: lì erano i corpi senza testa ad avere una funzione (quella di rammentare la lettera T), qui è la testa ad averla (giustificare lo sguardo e quindi che sotto l’armatura ci fosse in effetti una persona). Comunque, anche altri scrittori ricorreranno a questo modo di eliminare la vittima: ad es. Ngaio Marsh, un'altra scrittrice non pura britannica ma neozelandese, inserirà una decapitazione in uno dei suoi capolavori, la sua magica Locked Room Off with his Head, in cui la decapitazione non avrà significati reconditi ma solo quello inerente ad un rito locale.
E quando l’assassino si rivelerà essere il vendicatore sordo ad ogni richiamo di pietà, in quel momento avverrà il colpo di scena: se in un primo tempo l’assassino avrebbe potuto in qualche modo anche essere scusato, avendo tolto di mezzo una “bastarda” (ma poi l’omicidio anche di Caino può mai essere scusato?), ora, il reo confesso diventerà il colpevole da assicurare alla giustizia. Perchè la giustizia per essere tale dev’essere imparziale, e non fare sconti a chi abbia ucciso per vendicare un suicidio rispetto a chi l’abbia fatto invece per commissione o per rapina: qui però la scena finale vede l’assassino ammanettato che viene portato via, quelli che assistono sanno bene che sarà appeso per il collo fino a che non sarà morto, ma il bello è che anche lui, l’assassino, lo sa, ma non gliene frega nulla, perchè lui comunque ha fatto vendetta.

Il romanzo si segnala anche per un'altra caratteristica, che è poi il marchio di fabbrica di Christianna Brand, cioè le multiple soluzioni. Questa delle multiple soluzioni è una delle metodologie che di più il lettore cerca nei romanzi, perchè mantengono viva la tensione, l'attenzione e la curiosità; e del resto è una pratica che è connessa alla natura indiziaria di ogni prassi investigativa: partendo dagli indizi, la strada può essere una sola, come tante diverse, a seconda di come si guardi il problema. Qui vi sono tre diversi approcci, e quindi tre ipotesi diverse, di cui una sola si rivelerà essere la vincente. Non è da tutti inserire più ipotesi in un romanzo, perchè denota una grande fantasia. Altri gli esempi da ricordare oltre questo sono : il Connington di  The Case with Nine Solutions; l'Ellery Queen di  The Greek Coffin Mystery, con quattro soluzioni diverse la cui ultima porta ad una evoluzione della rivoluzione operata da Zangwill;  The Poisoned Chocolates Case, di Anthony Berkeley, in cui una serie di sedicenti investigatori di un club del delitto formula ognuno una ipotesi diversa giungendo a soluzione diversa del medesimo avvelenamento;  A Case for Three Detectives  di  Leo Bruce, in cui tre investigatori, parodie di atrettanti grandi detective della letteratura Mystery, giungono ad una soluzione completamente diversa e sbagliata, dall'ultima, la quarta, vera, del poliziotto. Non dimenticando che questo tipo di soluzione, che designa in certo modo i grandi romanzi, esiste in molti altri esempi, da Murder on the Orient Express di Agatha Christie a Trent's Last Case di Edmund C. Bentley, da Gammal Ost di Ulf Durling ad altri ancora. 


P. De Palma


sabato 20 febbraio 2016

John Dickson Carr : Il problema sbagliato (The Wrong Problem) – trad. Dina Corrada Uccelli – Ellery Queen presenta “ESTATE GIALLA” 1968 , Mondadori, pagg.275-289



The Wrong Problem nell’ambito della produzione di racconti di Carr, rappresenta uno dei suoi picchi. Tuttavia, quello che non tutti sanno, è che il racconto, nella sua versione definitiva, è la ritrascrizione di un radiodramma da lui scritto, “The Devil in the Summer House”, andato in onda in periodo bellico, alla BBC, il 14 ottobre 1940, in una puntata di un’ora; successsivamente, il radiodramma fu ridotto a mezzora, e presentato nella serie radiofonica “Suspence”, ma privato del personaggio di Gideon Fell. Quest’ultima versione, fu pubblicata in E.Q.M.M. nel 1946. Il luogo della vicenda è un padiglione, in cui avviene un delitto impossibile, ma i personaggi sono diversi.
Entrambe le versioni furono poi pubblicate nell’ambito di una raccolta di racconti di Carr, introdotta da Ellery Queen: Dr.Fell, detective, and other stories (Mercury, New York, 1947). Oltre a questi due suoi lavori, erano presenti anche: The proverbial murder, The locked room, The hangman won’t wait, A guest in the house, Will you walk into my parlor?, Strictly diplomatic.
Le fonti non chiariscono veramente quando questo racconto sia stato pubblicato in origine: alcune indicano il 1936, altre il periodo bellico (1940?) altre ancora dopo. Io, per una sorta di rassegnazione al male, che si intravede in numerosi passaggi, propenderei per la collocazione bellica, anche per una evidentissima tristezza di fondo che condivide con un capolavoro, scritto anche quello in periodo bellico, di Carr.
Gideon Fell e L’Ispettore capo del C.I.D. Hadley stanno passeggiando, quando arrivano nei pressi di un lago su cui si affaccia una villa, e nel quale, su una minuscola isoletta, c’è un pergolato di bambù. Lì vicino c’è un ometto vestito di nero, con gli occhi leggermente a mandorla ed i capelli bianchi lunghi ed un cappello di stoffa bianco.
L’ometto, appena li verde, chiede se si veda un cigno sull’acqua, un cigno morto con la gola squarciata; ma i due non riescono a vederlo. E’ il la, per una storia che quello narra ai due ospiti occasionali, capitati per caso in quella proprietà i cui proprietari da lungo tempo non sono presenti: la tragedia di una famiglia, formata dal padre Harvey Lessing, oculista e dentista, e dai suoi 4 figli, di cui tre di primo letto (moglie morta nel 1899) e un altro acquisito, già diciassettenne, con secondo matrimonio nel 1901, una famiglia in cui la morte si era affacciata già due volte prima, con la morte delle due mogli del capofamiglia, ma in cui si affaccerà altre due, con due omicidi impossibili.
Il fratellastro maggiore si chiamava Brownrigg ed era dentista, come il padre: aveva il fisico di un atleta, sempre sorridente e ghiotto di noci; il secondo fratellastro si chiamava Harvey Junior, era dinamico, socievole, simpatico: il terzo figlio si chiamava Joseph e lavorava come tecnico specializzato in ottica in una grande gioielleria; infine il quarto era una ragazza che si chiamava  Martha. Joseph e Martha avevano la stessa età e sentimenti in comune, anche se lei era innamorata  di un tal Sommers di cui Joseph era confidente, che stava ultimando il servizio militare.
Fatto sta che tutto sommato quella famiglia era felice. Ma il 15 agosto di una certa estate, accadde un fatto che mutò l’atmosfera e la concordia dei figli: mentre il vecchio Lessing, servendosi di una canoa, dopo pranzo era andato a fare il pisolino sotto il pergolato nell’isolotto, qualcuno lo uccise, violando quello spazio d’acqua senza che nessuno lo vedesse, nonostante  la superficie dell’acqua fosse rimasta piatta, senza che niente o nessuno la solcasse: gli conficcarono in un orecchio un’oggetto appuntito che gli perforò la membrana interna dell’orecchio, trafiggendo il cervello e determinandone la morte.
Gli unici due sospettabili erano stati Joseph ed il fratellastro Junior, mentre Brownrigg a sua detta era rimasto da solo nella sala da pranzo e Martha era andata da un’amica. Inoltre il giardiniere giurò che nessuno avesse solcato le acque del lago diretto all’isolotto. Junior sapeva condurre una barca e Joseph sapeva nuotare, ma pare che nessuno dei due potesse essere stato. Fatto sta che stranamente venne incolpato uno dei due, che si discolpò e per non essere accusato dagli altri, li ricattò con l’unica arma con cui possa tenerli in pugno: la loro madre era morta pazza, quindi… Inoltre se si fosse venuto a sapere ciò, la famiglia sarebbe caduta in discredito e la  carriera del dentista sarebbe stata stroncata.
I giorni passavano stanchi, in una sorta di non belligeranza, in una calma apparente, finchè avvenne il secondo omicidio impossibile: Martha, era nella sua camera, apatica, appena uscita da una malattia, quando, contemporaneamente all’arrivo dell’avvocato di famiglia, improvvisamente ella salì nella torretta che sovrastava la casa, come inseguita da qualcosa o qualcuno invisibile e si chiuse là dentro: era una stanza quadra, priva di mobilio, usata per vedere in lontananza, data la sua posizione più alta di altre finestre della casa le cui uniche aperture erano la finestra sbarrata e la porta. La cameriera le corrè dietro, rimanendo però fuori. Appena entrata la ragazza nella stanza, sentirono un grido raccapricciante ed, entrati nella stanza, trovarono la ragazza, morta, con un’occhio trafitto da qualcosa che non si trovò  che aveva raggiunto il cervello: una morte simile ma non uguale all’altra. Nessun assassino nella stanza, nessuna possibilità che passasse dalla porta, perché era sorvegliata dall’esterno dalla cameriera.
Uno dei tre fratelli maschi venne accusato formalmente del duplice omicidio e per salvarsi obbligò i fratelli a giurare il falso, cioè che pazza era stata sua madre e non la loro: così evitò l’impiccagione ma non il manicomio criminale.
Dopo tutta questa rievocazione, l’ometto, uno dei fratelli Lessing giura di non sapere chi mai sia stato a compiere il duplice omicidio. E allora?
Analizzando gli indizi, Fell scoprirà la verità e darà un nome all’assassino. Che è….  
Il titolo del racconto non si riferisce ad una errata deduzione, ma ad un interrogativo che ha una giustificazione solo nella mente malata dell’assassino: perché cioè è possibile che una madre pazza generi dei figli sani e una madre sana abbia generato un figlio pazzo? Cioè perché lui ha commesso il duplice omicidio (e Fell spiegherà la genialità delle soluzioni adottate perché i delitti apparentemente avvenissero per mano di persona ignota e in condizioni apparentemente impossibili) e come il cigno abbia avuto la gola squarciata: dopo la morte di Martha, sia Junior che Joseph mentre stanno passeggiando sulla riva del lago, nella parte posteriore dell’isolotto, notano tra alcuni giunchi a riva un cigno con la gola squarciata da qualcosa di affilato, come se qualcuno o qualcosa avesse voluto uccidere pure quel cigno.
Il racconto, che è uno dei racconti più famosi di Carr, forse meno di altri, ma che è memorabile giusta l’atmosfera che lo pervade, risente, come altre opere dello stesso periodo, di una certa malinconia di fondo, che lo avvicina ad altre opere come per es. She Died a Lady. Si nota anche l’accenno ad una certa ineluttabilità del male – che non si nota in altre opere carriane – al perché il mele avvenga e per il quale neanche chi lo commette si possa sottrarre alla sua sorte: come a dire che anche l’assassino è il pupazzo in un gioco che è molto più grande di lui.
Tuttavia vari accenni, secondo me, convincono Fell della follia dell’assassino, che però non è pienamente cosciente di quel che ha fatto, che non riesce neanche a spiegare per quale motivo lui abbia commesso i due omicidi (il primo per ragioni economiche: il testamento), il secondo per ragioni connesse all’amore tradito (la gelosia e il furore). Io penso tuttavia che il primo omicidio possa configurarsi anche come una vendetta, visto che il figlio aveva visto qualcosa di poco chiaro nella condotta del patrigno in occasione della morte di sua madre, perita nella stanza della torretta: non avrebbe detto infatti che essa era morta “..in una situazione speciale”.
Il fatto che giuri, prima, di non essere l’assassino: “..ve la sentite di giurare su quanto avete di sacro (se avete qualcosa di sacro, del che io dubito) che voi non conoscete la verità? Sì – rispose l’altro, serio, e annuì”; e di reiterare quest’affermazione, quando già Gideon Fell lo ha accusato di esserlo e ha spiegato anche come abbia ucciso senza che altri potessero metterlo in mezzo alle situazioni – e poi alcuni righi dopo ammetti di esserlo, dimostrerebbe anche una doppiezza dell’animo e della mente, una personalità dissociata in due entità completamente opposte, una innocente ed una non, una cosciente e l’altra incosciente, alla guisa di Mr. Hyde. Quello che dice (pag. 289, ultima pagina del racconto) è sintomatico di questo stato mentale alienato: “Voi non capite. Non ho mai voluto sapere chi uccise il Dottor Lessing o la povera Martha”. Chi parla è la parte incosciente dell’omicida, che non sa (ma suppone) se l’altra sua metà abbia o meno ucciso. Poi, pochi righi dopo, lo stesso personaggio, la sua parte cosciente, dirà: “..ma non è questo il punto. Non è questo il problema. La loro madre era pazza, ma loro erano innocui. Io uccisi il Dottor Lessing, Io uccisi Martha. Sì sono perfettamente sano di mente. Perché lo feci, tanti anni fa? Perché? Esiste forse un disegno razionale nello schema delle cose ed una spiegazione al male su questa terra?”. In altre parole un solo personaggio ma sdoppiato in due personaggi, una personalità divisa in due, una cosciente ed una incosciente.
In sostanza quello che si ricava è il dubbio che pervade anche il lettore se l’assassino quando ha commesso gli omicidi, fosse cosciente o incosciente. Sicuramente però, il fatto che egli veda continuamente anche dopo, sulla superficie del lago, il cigno morto con la gola squarciata, cosa che non esiste nella realtà, rivela una stato schizofrenico, stati allucinatori, dissociazioni dalla realtà; ma rivela anche che in quell’essere, con gli occhi profondi e neri, c’è comunque la coscienza che risale in quell’anima perturbata, il rimorso che il male che è (era )in lui lo abbia portato ad uccidere delle persone innocue: il cigno, simbolo di purezza e di innocuità, per lui è un ricordo ossessivo, in un’opera fortemente simbolica come questa, in quanto rimanda, nella mente perturbata dell’assassino a Martha, sempre vestita di bianco, il cui vestito “appariva inamidato”.
C’è per me anche un altro indizio che Carr inserisce nel racconto, un indizio psicologico: l’ometto è vestito di nero ma ha un cappello bianco. A parer mio si tratta di un altro indizio della doppiezza psicologica di colui che l’indossa: male e bene, coscienza e incoscienza.
Per certi versi è l’opera che più avvicina Carr al suo più famoso erede, contemporaneo a noi, Paul Halter, nei cui romanzi spesso si affaccia il tema della follia.

Il racconto è comunque indimenticabile anche per l’atmosfera che lo pervade, per la maestria insuperata, di riuscire a creare un pathos con poche pennellate. Prima Carr descrive i luoghi, idilliaci o quasi: la villa in una valletta tra le colline, il lago artificiale su cui si affaccia, il pergolato in un isolotto al centro del lago, le stormire delle fronde, i tappeti verdi ben curati. Poi introduce una nota che è più triste, come una modulazione armonica in minore che fa presagire che qualcosa di triste si stia addensando: “all’ultima luce del giorno”. Il crepuscolo, in cui il sole muore, e arriva il buio. In quel momento quando “il crepuscolo stava già cedendo il posto all’oscurità…due uomini apparvero sulla cresta dell’altura. Uno era alto e snello. L’altro, che portava un cappello a tesa larga, era alto e corpulento, e sembrava ancora più massiccio controluce per il mantello che gli svolazzava dietro le spalle” la storia comincia ad incalzare. Innanzitutto vedono un ometto. Poi egli parla di un cigno morto che non esiste. Poi narra una storia, e mentre parla il tramonto cede il posto all’oscurità: tre uomini seduti ad una panchina di ferro, e due che sentono l’altro narrare una storia di delitti e follia. E man mano che il racconto cupo si snoda fino alla sua fine, l’oscurità si sostituisce al chiarore del tramonto, e l’epilogo avviene nella quasi oscurità, rischiarata dalla luce di un fiammifero: come è attestato dalla fine della storia, in cui viene riportato che “il fiammifero si piegò e si spense”.
Inoltre c'è una tessitura cromatica non indifferente all'interno della trama. Qui i colori hanno una parte importante, tanto più perchè sono sublimati, sono colori carichi, non slavati: c'è il bianco che indica la purezza, il bene; e c'è il nero che invece ricorda il male; e poi c'è anche il rosso ( il sangue), che qui è però anche indizio di passione. 
Inoltre, il racconto, con le sue movenze oniriche, con una rievocazione che in effetti è mascherata, mi ha ricordato per associazione di idee, un film di qualche anno dopo, che ha più o meno le stesse sfumature allucinatorie: Improvvisamente, l'estate scorsa. Anche lì c'è la verità che è stata rimossa dal racconto originale, e tutto che si rivela grazie ad una sorta di seduta psicanalitica, mediata dal pentotal. Nel racconto di Carr, il pentotal è dato dalla forza di persuasione di Fell che costringe l'ometto, come in una seduta psicanalitica, a scavare dentro il racconto e a rivelare una parte di verità celata. 
Il finale è indimenticabile.
Perchè termina non con un’esplosione, ma una implosione, che dona un’accento fortemente melanconico alla storia: “Poi..si alzò dalla sedia. L’ultima cosa che videro di lui fu il cappello bianco di tela, che si allontanava attraverso il prato e sotto gli alberi”. Che già era stato annunciato con un altro: “Questo delitto era incredibile, intendo dire incredibile non solo per le circostanze materiali, ma anche perché la vittima era Martha…morta durante una vacanza”.

Pietro De Palma

giovedì 18 febbraio 2016

Pierre Boileau : L’assassino invisibile (L’assassin vient les mains vides, 1945) – trad. Aldo Albani – I Grandi Gialli Pagotto, N°15 – Anno III – Milano, 1951



La Società Editrice Pagotto, se mai ha avuto un pregio, è stato quello di aver cercato, in un periodo, in cui il Giallo in Italia si dimostrava tenacemente anglofilo, di invertire il senso della tradizione, cercando oltralpe dei validi sostituti al giallo d’Albione.

Ovviamente, diciamo noi, avrebbe potuto raccogliere ben altra messe, magari attingendo a Lanteaume o a Vindry; invece egli si accontentò di pubblicare gran parte della produzione di Steeman, autore che in quegli anni era al massimo della conoscenza e della fama in Italia, e qualcuno degli autori francesi che si erano segnalati maggiormente: tra questi, Decrest e Boileau, e minori, come Duvic, Renard, Mandelstamn, Ashton, Mc Orlan. Pubblicò persino, come battistrada, il primo romanzo di Pierre Very, altro grande romanziere francese, di cui nelle Palmine Mondadori era stata pubblicata la sua Camera Chiusa, Le Vipere di cristallo  (Les Quatre Vipères), molto famoso in Francia, il cui primo romanzo, Le Testament de Basil Crookes, quello presentato come primo romanzo della serie Pagotto, aveva meritato il Prix du Roman d’Aventures .

Di Boileau, vennero pubblicati in codesta serie ben otto romanzi (precedenti come periodo, alla sua collaborazione con Thomas Narcejac): tra questi, anche, L’assassino invisibile,L’assassin vient les mains vides ” (1945).
http://www.journaux-collection.com/
Come altri romanzi di Boileau, anche questo comincia senza una introduzione: Brunel e il suo accompagnatore (che narra come di consueto le vicende) mentre sono per strada, vengono quasi investiti da un’auto sparata sulla strada come se fosse ad un Gran Premio automobilistico. Il guidatore, dopo essersi scusato, riconosce nel compagno di Brunel un suo commilitone e la stessa cosa accade a questi nei confronti di quello. Fatto sta che dopo avergli inviato tutti i gastemi di questo mondo, poco manca che l’amico di Brunel lo soffochi per gli abbracci e per la felicità. Anche costui, Georges Durban, è tanto felice, da invitarli al miglior caffè degli Champs Elisées, dove farà conoscere ai due il cugino, Alex Fontaille. Costui, nipote di una possidente, Apolline Fontaille, che l’ha cresciuto come un figlio, si è unito sentimentalmente con una nota ballerina di locali notturni parigini, Monique Clerc. Sin dal primo momento, dimostra di essere tutt’altro che sereno e ciononostante insiste perché i due amici del cugino, che egli non ha mai conosciuto personalmente, ma conosciuto per sentito dire, vadano con lui alla tenuta della zia, Les Chaumes.

Mentre stanno a Parigi, Brunel si accorge che qualcuno li sta tenendo d’occhio, e più tardi riconosce in costui il domestico personale della vecchia Apolline, Simon.

La vecchia, appena arrivati, nonostante Alex sia il suo nipote prediletto, non lo saluta, mentre maltratta l’altro nipote, Georges reo di non averla frequentata negli ultimi tempi, e accoglie i nuovi venuti con molte smancerie.

Avute le stanze, dopo cena, Brunel, Pierre, Alex e la fidanzata, decidono di giocare a bridge, dopo che hanno fumato e bevuto, mentre Georges fa un giro fuori, nel giardino. La vecchia chiede ad Alex di passare a fare un’ispezione e di chiudere tutto, cosa che Alex fa, per poi tornare dai compagni: mentre tuttavia stanno giocando, sentono delle grida altissime, provenire dal primo piano, dalla stanza della vecchia. Lanciatisi per le scale, la trovano pugnalata, in un lago di sangue: mentre Alex resta a vegliare il cadavere della zia, Brunel e Pierre si dividono i compiti: uno va sopra e uno giù: Pierre appura che se mai qualcuno fosse entrato dal di fuori in casa, si sarebbe trovato davanti Gustave, che stava rimettendo a posto il vasellame e le posate usate per la cena, quindi l’assassino può essere andato solo sopra, al secondo piano, dove non trovano nessuno. Dal secondo piano, è sceso solo Simon, il domestico personale di Apolline Fontaille, fidatissimo, con i piedi nudi nelle pantofole e la veste da letto infilata alla bell’e meglio nei pantaloni: a meno che non sia lui l’assassino, questo deve essersi volatilizzato: infatti, anche se la finestra era aperta, essendo estate, l’assalitore non può essersi calato, perché sull’edera che si abbarbica sulle pareti esterne, non si nota nulla che possa far supporre tale ipotesi. L’assassino, se non è Simon, si è volatilizzato. Ma perché Simon avrebbe ucciso la vecchia? Non aveva nessun motivo per farlo, tanto più che percepiva un salario altissimo, non commisurato alle sue mansioni: se in un primo tempo si sospetta un ricatto, poi si viene a sapere che Simon era carissimo alla vecchia che lo aveva allevato da quando era piccolo, salvandolo dalle grinfie di genitori snaturati che lo bastonavano senza pietà pur in tenera età, e lui aveva sempre ricambiato con dedizione e affetto la cura della sua padrona. Quindi, Simon è da escludere: ma allora dov’è finito l’assassino? E cosa stava facendo Simon a Parigi? E’ chiaro tuttavia che egli debba conoscere qualcosa che non intende rivelare, che possa esser messo in relazione con l’omicidio della vecchia.

Dall’esame del corpo della vecchia, che è indubbiamente morta, si scoprono due ferite molto vicine, segno di due pugnalate: l’arma è un tagliacarte affilatissimo, trovato vicino al copriletto, con un manico intarsiato, tanto da eliminare la possibilità che su di esso possano trovarsi impronte.

In attesa che l’indomani arrivino i poliziotti, Pierre dovrà vegliare, alternandosi a Brunel, il cadavere della vecchia, nella sua stanza. Ma, Pierre si addormenta;  ad un certo punto, tuttavia, si ridesta, sudando dalla tensione, perché si accorge che nel buio della stanza, c’è qualcun altro che si muove: vorrebbe fare qualcosa ma non ha armi e quindi pensa al da farsi, mentre l’altro sta prendendo delle carte, di cui sente il fruscio. D’improvviso, si ricorda del campanello elettrico che la vecchia aveva fatto sistemare nella sua camera, che usava per chiamare Simon: lo preme ripetutamente, e poco dopo sente qualcuno che bussa alla porta. Dopo il suo invito a entrare, l’interruttore della luce viene premuto, la luce si irradia nella stanza: Simon è sulla porta. Ma oltre lui, Pierre, nella stanza c’è solo il cadavere della vecchia: a meno che essa sia un vampiro, anche stavolta il misterioso visitatore si è volatilizzato.

Possibile che vi sia un passaggio segreto? Impossibile. Tutti negano che vi sia. E allora? Come ha fatto il visitatore ad eclissarsi? Brunel è dubbioso, ma Pierre insiste. Inoltre ha sentito un fruscio ed un rumore caratteristico, come di qualcosa che fosse stato aperto. Brunel ha un’illuminazione: il secretaire. Lo aprono, e lì, da un cassetto, vedono uscire una carta: è un testamento olografo che sostituisce un altro precedente: in esso Georges Durbans viene nominato unico erede. A questo punto, se mai si era fatta strada la possibilità che fosse lui l’assassino (del resto era nel giardino, era l’unico che del gruppo, non fosse assieme a Brunel e Pierre) ora diventa una possibilità più reale, anche se Georges sembra tutto fuorchè un assassino. La cosa strana è che la vecchia aveva prima di allora redatto altro testamento che nominava Alex suo erede universale: perché quel testamento allora? Brunel si maledice di non aver esaminato subito dopo il ritrovamento del cadavere il secretaire, perché ora doppia è la possibilità: perché il visitatore ha aperto il secretaire? Chi ha messo quel testamento, vergato con calligrafia che sembra quella della vecchia ma tremolante, come se la mano che l’avesse buttata giù non fosse stata del tutto sicura: la stessa Apolline Fontaille o l’assassino? In altre parole è un testamento vero o falso?

Nenche il perito calligrafo nominato l’indomani per dare un giudizio, si sbilancia di molto: sembrerebbe essere della vecchia, ma poi non è del tutto sicuro.

Mentre non si riesce a cavare un ragno dal buco dalla morte dell’anziana donna, e Brunel teme che qualcos’altro possa accadere (e vedono che dalla camera di Simon in pieno giorno esce del fumo come se stesse bruciando qualcosa, che poi riescono con un tranello a verificare cosa sia, cioè della corrispondenza con Monique pare), ecco che un secondo delitto, turba l’atmosfera: viene ucciso Alex, anche lui pugnalato al cuore da un tagliacarte molto simile al primo. Pierre vede un’ombra che si cala dalla finestra, si butta addosso, ma quello lo evita, invece di uccidere anche lui: perché mai ha rischiato di essere preso, se ha prima ucciso un uomo, ed ora invece non ha voluto aggredire Pierre?

Brunel. Indaga e scopre che quell’ombra era qualcuno che si era incontrato con Alex: che era il primo marito di Monique, un gentiluomo. Se non è stato lui ad uccidere Alex, chi è stato? Simon, Monique, Gustave , Brigitte, o Georges? Siccome è stato escluso che per la forza necessaria a sferrare quella pugnalata sia stata una donna, rimangono tre uomini: Gustave, Simon o Georges?

Per di più, Alex, prima di essere trovato ucciso, aveva chiuso con due scatti la porta e di questo Pierre era sicuro, perché aveva sentito distintamente i due scatti: ma poi, dopo la scoperta del cadavere di Alex, hanno trovato la porta di casa non più chiusa a mandate: il che significa che vi è un complice oltre che un assassino, che evidentemente non sa che l’assassino è scappato dalla finestra, perché evidentemente il piano presumeva che egli dovesse scappare attraverso la medesima uscita, per cui sicuramente dovrà ridiscendere per chiudere la porta ed impedire che si possa pensare  a lui come complice, a meno che egli non sia Simon, che in quanto maggiordomo, ha anche il compito di chiedere e aprire la porta di casa di mattina. Si mettono d’accordo per vegliare la porta così da beccare il complice oppure no, nel qual caso sarebbe vera l’altra ipotesi. Nessuno scenderà. Brunel, dopo una notte insonne, riuscirà a dare un nome all’assassino e a risolvere l’enigma, scoprendo come la veste da camera della donna presenti non due ma un solo taglio, cosa non opportunamente vagliata in sede di ricostruzione del delitto. E anche ad assolvere dall’accusa di complicità nell’assassinio di Alex, Simon.

Romanzo estremamente godibile, si basa su un Delitto Impossibile, e su una Camera Chiusa, da cui un ladro è stato capace di volatilizzarsi.

Alla base dell’enigma è la risultante del ragionamento di Brunel: “i fatti si presentano così: l’assassino si presenta ai suoi…nemici senza sapere esattamente ciò che farà, e questi temono terribilmente quella visita, senza tuttavia potere prevedere come si svolgerà. L’uno non ha armi per uccidere, gli altri non ne hanno per difendersi”. Infatti per due volte l’assassino ha usato qualcosa che era in casa, e quindi, non era premeditato che uccidesse, altrimenti avrebbe portato con sé un’arma. Eppure deve avere un complice, e quindi ha premeditato di introdursi in casa. E per che fare?

Boileau, come altre volte, si arrampica sugli specchi: dimostra un virtuosismo ineguagliato ( eguagliato solo da Vindry e da Lanteaume), nel proporre un problema e la sua soluzione, avendo a disposizione pochi ingredienti, cosa che del resto è un po’ la tipicità dei romanzi francesi del periodo: insistere sul mistero, proporne uno o più abbastanza allettanti, senza invece allargare la rosa dei sospettabili, perché non dalla contrapposizione di alibi e moventi deve uscire la soluzione, ma dalla proposizione del problema in sé, in quanto in sostanza è su questo che il plot e le sue variazioni, si regge. Inoltre altre due differenze con quello anglosassone si manifestano: innanzitutto non vi è mai una vera e propria introduzione, in cui matura il delitto, che invece è caratteristica tipica del romanzo poliziesco britannico (ma non di quello americano); e quindi , come conseguenza di ciò, il romanzo poliziesco francese, e in particolar modo quello di Boileau, basa la propria trama su qualcosa che avviene casualmente, senza che il lettore abbia assistito o sappia già o almeno immagini per quale motivo un determinato delitto si sia consumato: è un romanzo, potremmo dire, di tipo poliziesco-avventuroso, erede delle atmosfere da feuelliton, un feuelliton drammatizzato, di Leroux e Leblanc; seconda differenza, direi, è insita nel fatto che, mentre il romanzo poliziesco britannico, proprio per differenziarsi da quello d’appendice, in cui se c’era un delitto, bisognava cercare la donna e il maggiordomo, tende a presentare tra i sospettabili tutti i possibili personaggi con l’esclusione dei domestici (e questo sostanzialmente per un classismo sociale, quasi razzistico,  che presenta i domestici  un gradino più in basso rispetto alla nobiltà o all’alta borghesia, l’unica che potesse consumare un delitto perfetto, che per intelligenza non poteva essere appannaggio di un ordine sociale inferiore), nel romanzo poliziesco francese, come conseguenza del fatto che domestici, padroni, poliziotti, giudici istruttori, tutti nell’ambito delle proprie mansioni sono cittadini della repubblica, anche i servitori sono sospettabili al pari dei padroni. Questo, allarga la rosa dei sospetti, che però, come abbiamo riferito precedentemente, è sempre abbastanza contenuta. Questo porterebbe ovviamente ad un lavoro più semplice per i detectives, e quindi c’è la necessità di voltare e rivoltare la matassa, non solo per allungare il brodo (non a caso i romanzi francesi dell’epoca non sono così lunghi come quelli anglofoni) ma anche per non attenuare la tensione narrativa che altrimenti si infiacchirebbe naturalmente.

Nel caso di questo romanzo, le peculiarità, oltre che insistere sugli argomenti che abbiamo testè sottolineato, rivelano un ragionamento sottilissimo, un vero e proprio virtuosismo della deduzione e del sofismo, vorrei dire di tipo alessandrino- bizantino: in grado di rivoltare il problema dando di ciascun fatto due o più possibili soluzioni, da cui derivano altrettante diverse risultanze, che riguardano qui soprattutto: il testamento, vero o falso (potrebbe essere che l’assassino avesse creato uno falso per creare un colpevole perfetto, cioè Georges; oppure è falso perché inserito da Georges, oppure è vero, e allora  è stato inserito tempo prima dalla vecchia Fontaille); il ladro invisibile: come ha fatto a sparire; il problema sulla serratura della porta d’entrata e sulle due mandate e su un possibile complice; il problema dell’esistenza di due ferite e del fatto che la veste da camera presenti un solo taglio; come ha fatto a sparire l’assassino; perché Alex ha cercato di difendersi con un ceppo di legno preso dal caminetto (questo gli è stato trovato stretto nella mano); come mai non esiste un complice; cosa l’assassino o il ladro hanno preso dal secretaire.

Così facendo Boileau riesce a tenere la tensione molto alta, e se fino a quel momento il lettore ha avuto pochi sospetti e quindi in sostanza è stato portato a concentrare la propria attenzione su pochissimi, perché due Alex e Monique sono  tenuti fuori dalle indagini proprio perché giocavano assieme a Brunel e Pierre, a bridge (un gioco che compare spesso in romanzi dell’epoca, da De Angelis ad Agatha Christie, da Dorothy Sayers a Stanislas-André Steeman), proprio durante la soluzione, in cui catarticamente la tensione dovrebbe cadere, in questo di Boileau, essa invece si accresce spasmodicamente perché in un finale assolutamente inaspettato, avviene tutto ed il contrario di tutto. E tutto viene spiegato, sia come un assassino ed un ladro, persone diverse, possano svanire in ambienti circoscritti senza che essere scoperti, sia come in un assassinio in cui non può non esserci un complice, esso invece manchi; e come infine Simon, pur non essendo l’assassino e tantomeno il complice dell’assassino nell’omicidio di Alex, è in un certo senso complice di altro assassino, quello della vecchia, pur non potendo in nessun modo esser coinvolto nell’omicidio di questi.

Straordinario. Il modus agendi nell’assassinio della vecchia Fataille, si trova già in altro romanzo di Vindry, che verrà ripreso in un romanzo celeberrimo di Agatha Christie. Non so se Boileau avesse letto quel Vindry o la Christie, ma certo è che il delitto si spiega prendendo le mosse da uno dei due.

Comunque Boileau straordinario lo è davvero perché, e questa è la sorpresa maggiore, lungi dal creare un romanzo basato solo ed esclusivamente su indizi, proprio nella soluzione rivela un meccanismo molto cerebrale, con un risvolto psicologico assai accentuato, che concerne il modo di mischiare le carte e volgere l’attenzione del lettore, creando i presupposti perché, sulla base di atti molto ovvi, egli sia portato a credere una cosa invece di pensarne un’altra. Per dare la misura di questo meccanismo stilistico di altissimo virtuosismo, sottolineo due momenti peculiari che per me danno la misura vera della creatività e della forza del ragionamento di Boileau: la chiusura della porta d’ingresso, e la volatilizzazione del ladro dopo che Simon ha bussato tre volte alla porta della camera dove è il cadavere della signora vegliato da Pierre.

Un romanzo veramente magnifico.

Pietro De Palma