Tra le forme letterarie, i racconti hanno sempre pagato dei tributi
ai romanzi: rappresentano quasi una produzione minore, delle storie da
scrivere senza impegnarsi particolarmente, in momenti di rilassatezza.
Almeno questa è la percezione che ne ha il lettore; invece..
Invece il racconto è un genere importante quanto il romanzo, non dirò
di più o di meno: ne ha una forma più concentrata, possedendo anche
delle caratteristiche ricorrenti in quest’ultimo: se vi è una
presentazione dei personaggi e della situazione in oggetto, esse devono
essere stringate, e lo sviluppo non molto esteso, per necessità di
condensazione in un numero di pagine più ristretto; ma tutto il resto..è
lo stesso. Anzi se vogliamo, il racconto ha la sua buona parte di
difficoltà, perché se nel romanzo taluni “allungano il brodo” con
descrizioni e narrazioni che poi nulla hanno a che fare con il nocciolo
della storia, nel racconto ciò non è possibile: si devono avere idee
chiare e si deve condurre la storia con un filo logico e una tensione,
che dalla prima pagina all’ultima, conduca il lettore a godere della
fine, senza sotterfugi, escamotages, rallentamenti, perdite di tempo (e
di pagine).
Se nella letteratura “impegnata” il racconto gode di una fortuna
inferiore al romanzo, in quella “di genere” e nel nostro caso in quella
“gialla”, possiamo dire che, almeno non in Italia, il Racconto Giallo ha
avuto una fortuna non inferiore a quella del Romanzo: perché tuttavia
in Italia il racconto non abbia avuto pari fortuna, questo è altro
discorso. La situazione però è questa: nel mondo sia anglosassone, che
l’ha fatta da padrone, e in quello più chiuso, del giallo franco-belga, i
racconti hanno avuto la loro buona fetta di pubblico e di popolarità.
Ancor oggi, molti autori contemporanei scrivono racconti, ma nel
passato, si sono avuti addirittura autori specializzati, per es. Edward
D. Hoch, autore anche di romanzi di fantascienza e di apocrifi
queeniani, ma soprattutto di oltre..900 racconti, divisi in più serie,
tra cui quelli che raccontano di Camere Chiuse e delitti impossibili,
sono i preponderanti. Ma anche Joseph Commings si è riservata la sua
buona fetta di fama, con le storie del senatore Banner. La messe
maggiore, tuttavia, si è avuta con i grandi autori sia di Giallo
classico che di Hard Boiled: Ross MacDonald, Ellery Queen, C.Daly King,
Agatha Christie, Dashiell Hammett, e moltissimi altri, tra cui John
Dickson Carr.; e proprio di Carr parleremo, a proposito dei suoi primi
quattro racconti con Henri Bencolin.
Potrebbe sembrare un discorso molto relativo, affrontare la tematica
dei racconti carriani puntando l’attenzione solo su 4 racconti, quando
la produzione totale ne conta oltre trenta. Ma questo breve saggio non
si propone di esaurire la tematica complessiva del racconto in Carr, ma
solo di creare un’inquadratura, che possa essere recepita da qualunque
lettore, circa la produzione carriana avente come soggetto principale
Henri Bencolin.
Innanzitutto i racconti in Carr hanno una
loro parte di importanza notevole: molto spesso servono da
sperimentazione di forme, e non è neanche improprio affermare che se è
vero che alcuni romanzi sono assoluti capolavori, per es. “Le Tre Bare” o
“L’Automa” o “Il terrore che mormora”, o “La Corte delle Streghe”, è
altrettanto vero che anche parecchi dei suoi racconti e radiodrammi sono
altrettanto dei capolavori (per es. The Crime in Nobody’s Room, in cui un delitto viene compiuto in un appartamento al secondo piano che non dovrebbe esistere; o il classico Radiodramma, Cabin B-13
con due sposi Richard e Anne Brewster che salgono sul piroscafo
Maurevania per la Luna di Miele, e poi nel prosieguo della storia
scompare una cabina, la B-13, e lo sposo con essa).Molto spesso, si può
dirlo senza aver timore di esser presi in castagna, i racconti in Carr
non sono altro che dei romanzi ( molto spesso con camere chiuse, delitti
impossibili, sparizioni inspiegabili, atmosfere sinistre)..concentrati.
Ecco perché è anche importanti esaminarli e cercare di trovare al loro
interno, elementi che ne giustifichino l’esistenza ed il giudizio
entusiastico della critica e dei lettori, cosa non frequente. Carr riunì
i suoi racconti in alcune serie: in una di esse, “The Door to Doom and Other Detections”(tradotta
in Italia con il titolo “La Porta sull’Abisso”,Altri Misteri,
Mondadori, 1986; e successivamente ne Il Supergiallo Mondadori n.21, del
2001), si trovano 4 racconti emblematici, appartenenti alla primissima
produzione carriana, con protagonista Henri Bencolin.Parliamo del
periodo in cui Carr risente del periodo di soggiorno in Francia: la
Francia e Parigi in particolare, sono luoghi immaginari, giunti fino a
noi immutati, con il loro carico di mistero e di fascino, così come lui
ne aveva letto nei romanzi di cappa e spada di cui si era nutrito ancora
giovane. E’ la Parigi di Honoré de Balzac, di Stendhal, di Victor Hugo,
non quella di Zola., coi suoi contrasti sociali, con i suoi processi.
Protagonista è Bencolin, il primo dei personaggi carriani, interprete di
cinque romanzi.Nell’ordine i racconti sono:
The Shadow of the Goat (1926), The Fourth Suspect (gennaio 1927),
The Ends of Justice (maggio 1927), The Murder in Number Four (1928); e un romanzo breve: Grand Guignol (1929).
Per quanto riguarda il romanzo breve, T.J.Yoshi, riporta nel suo “John
Dickson Carr: A Critical Study”, che “Grand Guignol”, fu un romanzo
breve, scritto e ultimato da Carr a Parigi; e che lo stesso, una volta
tornato Carr in patria, fu pubblicato sullo stesso giornale che aveva
pubblicato gli altri racconti, “The Haverfordian”, tra il marzo e
l’aprile del 1929: Grand Guignol non fu altro che la prima versione
semplificata di “It Walks By Night”, Il Mostro del Plenilunio. Nello
stesso 1929 Carr provvide a sviluppare il suo primo romanzo con Bencolin
(proprio utilizzando Grand Guignol), pubblicandolo nel 1930. E se ne
“Il Mostro del Plenilunio”, troviamo la descrizione di Bencolin, che
tutti ricordiamo: “..Studiai il viso, che era girato di tre quarti:
le palpebre abbassate, quell’espressione scherzosa e indulgente, le
sopracciglia arcuate, gli occhi scuri dalla luce velata. Dal naso
sottile e aquilino partivano due rughe profonde che scendevano fino ai
lati della bocca; un debole sorriso gli errava fra i baffi appena
accennati e il pizzo nero…i capelli neri di Bencolin cominciavano a
striarsi di grigio. Sopra il bianco della cravatta e della camicia, la
sua testa sembrava un dipinto del Rinascimento esposto alla luce fioca
della lampada …parlando, si limitava ad alzare le spalle e non alzava
mai il tono di voce. …i ciuffi aguzzi dei suoi capelli, il pizzetto
appuntito, gli occhi corrugati e il sorriso ambiguo erano noti..”,
proprio nel romanzo breve precedente, troviamo la definizione più
incisiva e fulminante del suo personaggio, una vera e propria
fotografia: “..Mephistopheles smoking a cigar( trad. Mefistofele che
fuma un sigaro)”.
Ma perché proprio Mefistofele? Ci viene aiuto uno dei quattro racconti, il secondo per la precisione, The Fourth Suspect. Quando Bencolin è alla presenza di Villon (allora è lui il Capo della Polizia), Carr ne inquadra la figura: “..Il
piccolo investigatore…aveva occhi gentili e piuttosto strabici..la
figura curva, la barba nera, il gran naso aquilino, l’alone di fumo di
sigari che lo accompagnava sempre..un cappello a cilindro inclinato
sulla testa in modo spavaldo e il mantello che gli ondeggiava dietro”.
Insomma un uomo non bello, ma un personaggio tuttavia, quello che noi
diremmo “un tipo”. Ma Carr, precedentemente a questa descrizione, ci
aveva detto, quasi a preparare la descrizione del fisico non certamente
da Adone, che Bencolin era un uomo: “..troppo sentimentale..lo si poteva veder sognare all’Opera…o ad offrire vino ad amici bohemienne”, e che molto spesso finiva a elargire soldi a pezzenti che lo conquistavano con le loro storie false.
Notiamo allora il perché il personaggio abbia affascinato e
conquistato i lettori (e le lettrici): non è bello, ma possiede un
fascino tenebroso, in virtù dell’abbigliamento, nonostante sia un
sentimentale; è colto (va ad assistere alla rappresentazione di Opere
Liriche e a sognare), socievole e generoso con chi sia squattrinato o
abbia (o dica di avere) dei guai. Il suo appellativo di Mefistofele, è
sicuramente connesso alla sua professione, a come egli si sappia
trasformare in un giudice spietato; ma anche indubitabilmente al suo
aspetto. Interessante è quanto dice Gil Bethune in “Deadly Hall”,
penultimo romanzo pubblicato da Carr: “..Momentarily Uncle Gil had
looked less like amiable,beardless Mephistopheles than like a Grand
Inquisitor preparing to order torture( trad.: “Per un momento lo
zio Gil, più che un amichevole e sbarbato Mefistofele, era sembrato un
Grande Inquisitore che si accinge a ordinare la tortura”, J.D.Carr – La
Casa – I Classici del Giallo Mondadori n.887, traduz. Maria Rosaria
Schisano, pag.209)”.A chi si riferisce? T.J.Yoshi crede che l’accenno a
Mefistofele, sia legato alla figura di Bencolin, e che il parallelismo
sia intenzionale visto che il tempo in cui si svolge la storia del
romanzo precede di alcuni giorni il primo grande caso di Bencolin
ricordato ne Il Mostro del Plenilunio: infatti la data che viene
inquadrata all’inizio di Deadly Hall,”La Casa”, è il 19 aprile 1927, mentre la storia di It Walks By Night,
“Il Mostro del Plenilunio”, comincia il 23 aprile 1927. Ma Yoshi si
ferma qui; invece io direi molto di più. Innanzitutto, l’aspetto: si fa
riferimento alla sua espressione mefistofelica (pag.166-260) anzi alle
sue sopracciglia (pagg.163-208). L’espressione riferita all’aspetto di
Gilbert Bethune: “per quanto i capelli neri fossero appena striati di grigio(pag.120)”
è molto simile, troppo secondo me per non essere una citazione o un
rimando, a quella contenuta nella descrizione famosa dell’aspetto di
Bencolin, contenuta in It Walks By Night, “Il Mostro del Plenilunio” (Classici del Giallo Mondadori Serie Oro, n.196, pag.12, traduz. Rossana De Michele): “…i capelli neri di Bencolin cominciavano a striarsi di grigio”:
è come se Carr avesse voluto tributare un omaggio ai suoi primi anni, a
Bencolin, che è stato il simbolo dei suoi primi successi. Entrambi i
cognomi dei due personaggi cominciano con “Be”, entrambi svolgono due
professioni sostanzialmente simili (Giudice Istruttore e Capo della
Polizia, Bencolin; Procuratore Distrettuale, Bethune); entrambi fumano
sigari; entrambi hanno sopracciglia mefistofeliche, cioè
arcuate;entrambi i romanzi sono ambientati a distanza di alcuni giorni
nel 1927; entrambi hanno un giovane che è come se fungesse da assistente
(il Watson della situazione): Jeff Marle per Bencolin, Jeffrey Caldwell
detto “Jeff”, per Bethune, e guarda caso come si vede due Jeff. Troppe
coincidenze per non essere invece delle citazioni volute. Carr voleva
dire che Deadly Hall è come un altro romanzo di Bencolin (situazioni,
tempi, e modalità diverse)?
E a Bencolin vien sempre da pensare, per l’ultimo suo romanzo, Hungry Goblin:infatti Carr, proprio in The Lost Gallows,
Carr nel breve volgere di poche pagine, come dice assai giustamente Don
D’Ammassa, aveva citato dei termini che poi sarebbero divenuti i
titoli di suoi lavori : “…Carr mentions three terms that would later figure in titles of novels – Punch and Judy, the Red Widow, and the Hungry Goblin”. Ma come cambia la rappresentazione e la figura di Bencolin, con la descrizione che ci viene data in It Walks By Night,
rispetto a quella precedente, offerta ne “Il Quarto Sospetto”! Lì lo
vediamo elegante (qui, non lo è per nulla), affettato, distinto (qui
non lo è), persona di un certo tenore anche sociale: Bencolin non è più
uno dei tanti 86 Prefetti, ma è “Juge d’Instruction”: giudice
istruttore, consigliere di Corte Suprema e capo della polizia.E’
cambiato: non è più così “umano”, è diventato più duro, anche spietato,
giudice implacabile con i malfattori: è la vita che l’ha reso tale!
Possiamo anche vedere qui una differenza sostanziale con le altre
figure di investigatori: Fell è un personaggio che non ha nulla a che
spartire con la polizia, mentre Merrivale pur facendo parte del
controspionaggio militare (ne è addirittura a capo), non è figura
assimilabile ad un poliziotto; mentre Bencolin, lo è. E se proprio “Il
Mostro del Plenilunio” rappresenta la grande entrata di Carr, sul
palcoscenico del delitto nel genere del romanzo, con quel virtuosismo
delle messinscene e delle caratterizzazioni da Grand Guignol, tipico dei
primi romanzi soprattutto del ciclo bencoliniano, è altrettanto
importante sottolineare la straordinaria importanza dei primissimi
racconti, quelli con Bencolin giovane, in quanto racchiudono già tutti i
caratteri e le caratterizzazioni del Carr successivo, quello dei grandi
successi. In particolare, possiamo senza dubbio affermare che molte
delle idee che verranno più successivamente sviluppate nei grandi
romanzi, si trovano già qui espletate.
Il primo in ordine di tempo dei racconti è The Shadow of the Goat,
“L’Ombra del Caprone”: fu scritto nel novembre-dicembre 1926. Vi
troviamo per la prima volta espressi, non uno ma tre dei caratteri più
ricorrenti e meglio identificativi di Carr : un uomo scompare da una
stanza ermeticamente chiusa, diremmo “vanishing into thin air”; un
delitto in una Camera Chiusa, un tentato omicidio impossibile, con
un’altra sparizione non spiegabile, se non con eventi soprannaturali.
C’è la scommessa, che prelude alla sparizione impossibile, cosa che
verrà ripresa in “The Three Coffins” (tra Grimaud e Pierre Fley), ma c’è
anche la prima sparizione: un uomo, Cyril Merton, rinchiuso in una
stanza con le pareti di pietra, senz’altre uscite che la porta,
sorvegliata a vista, che..svanisce senza lasciare traccia, allo scoccare
del tempo previsto; l’omicidio di un altro in una casa dove a detta di
tutti non è entrato nessuno, e vi sono due persone della servitù che
giurano che è proprio quello che è accaduto (e che non giurano il
falso): l’unica persona che avrebbe potuto essere lì, Garrick, il nipote
della vittima,non poteva starci perché impegnata a sorvegliare la porta
della camera dove c’era stata la sparizione di Merton: due fatti
incontestabilmente concatenati, ma inspiegabili. La cosa importante è
che Jules Fragneau viene ucciso. Infine, il nipote di Fragneau viene
assalito da qualcuno che lo ferisce, e chi lo ferisce è, per asserzione
di Bencolin, un morto. Tre fatti inspiegabili, risolti con ferrea
logica: ne risulta una soluzione assolutamente spettacolare.
Un’altra caratteristica di questo primo e sorprendente racconto con
Bencolin, che molti ritengono un autentico capolavoro (ed è facile
confermarlo, leggendolo), è l’atmosfera soprannaturale che si respira,
altra caratteristica dell’opera carriana (fantasmi, demoni, sparizioni
impossibili, atmosfere lugubri), che ci potrebbe ricordare un inglese
doc specializzato in quello, cioè Montagne Rhodes James, ma che invece è
propria, a detta di Douglas G. Greene, studioso che ha pubblicato la
biografia di Carr, di certi lavori di Anne KatherineGreen : per esempio,
egli ha sostenuto esserci persino delle somiglianze del plot nel
cariano racconto “The Gentleman From Paris” ed il racconto della Green,
The Leavenworth Case (1878), come pure tra il radiodramma “Cabin B-13” e
la “Room n.3” del 1909 della Green. E non sarà difficile ricordare
l’atmosfera de “Le tre bare”, quando prima Grimaud e i suoi amici
discorrono davanti al fuoco, e poi nel racconto lugubre e sinistro si
inserisce lo sconosciuto Pierre Fley, che minaccia Grimaud di far
intervenire al suo posto suo fratello. Tanto che alcuni si spingono ad
affermare che proprio questo racconto “contiene i germi di due dei suoi
migliori romanzi successivi, “Le tre Bare” e “Nove risposte per nove
problemi”.
E notiamo un altro particolare, che ricorre anche negli altri 3:
Bencolin non è solo. Assieme a lui vi è un altro protagonista , che nei
romanzi scompare, e il cui posto viene assunto, almeno per i primi
quattro da Jeff Marle: ossia Sir John Landevorne. Sì, proprio quel Sir
John Landervorne che comparirà di nuovo e per l’ultima volta, in quello
che è unanimemente considerato il Capolavoro della prima produzione
romanzesca del ciclo bencoliniano, ossia The Lost Gallows. Che
Sherlock Holmes sia diventato il prototipo e l’archetipo di tutti i
detective da allora in poi, lo testimonia tutta la serie di apocrifi
sherlockiani, che tuttora vengono sfornati, e i romanzi che da allora
investono tutto il mercato editoriale europeo e poi americano, con
detectives che hanno in Holmes il loro padre putativo: non è il caso qui
di esaminare i vari Shiel o Meirs, ma indubbiamente ciascuno di essi
inventa un personaggio che in qualcosa richiama Holmes. E’ d’altronde il
destino di chi inventa un genere: vedersi copiato o comunque preso ad
esempio da chi intenda ripercorrere anche “parva fortuna” la sua
parabola.Secondo me, la maggiore invenzione di Conan Doyle, quella che
misura il suo genio, è d’altra parte non tanto aver inventato
l’archetipo dell’investigatore moderno, che analizza qualsiasi fatto
misurandolo con la forza della sua logica, ma avergli contrapposto in un
dualismo d’effetto, un compagno meno acuto, ma che gli è indispensabile
molto spesso per ricavare la soluzione: è proprio Watson talora a dare
il la al suo compagno con delle osservazioni intuitive, non meditate,
che finirebbero lì per lì se non avessero chi invece riesce a
trasformarle miracolisticamente in soluzioni soddisfacenti. Del resto
l’invenzione del protagonista di serie A e di quello di serie B che
insieme formano una coppia è vecchia come il mondo: Mickey Mouse/Goofy,
Don Chisciotte/Sancho Panza, Zagor/Chico. Se non ci fosse stato Watson o
un’altra spalla, sicuramente Holmes non avrebbe avuto il successo
planetario: Watson rappresenta l’anima di Holmes, la sua coscienza,
l’umanità burbera di un medico, contrapposta alla intelligenza
superlativa, asettica e talora irritante del detective che tutto sa. E’
da questo momento che le coppie di investigatori si ricorderanno con
maggior benevolenza di quanto non accada per l’investigatore solitario:
non a caso i Gialli più belli o comunque quelli in cui Poirot emerge con
maggior forza son quelli in cui gli è contrapposto il romantico e
ingenuo Capitano Hastings che ad un certo punto scompare (forse anche
perché stava togliendo troppo a Poirot). Ma il caso Poirot/Hastings non è
isolato e parecchi autori di polizieschi nel primo periodo d’oro del
giallo hanno inventato una spalla al loro detective .A questa sfilza di
autori appartiene anche John Dickson Carr,ma non tanto con la coppia
Henri Bencolin/John Landevorne, quanto con quella Bencolin/Marle: già da
It Walks By Night, “Il mostro del plenilunio”, Landevorne (che
compare in tutti i primi 4 racconti con Bencolin) scompare, lasciando
il posto a Jeff Marle, il narratore, discepolo di Bencolin: un
personaggio quindi posto in una posizione diversa dal primo, più
subalterna.
John Landevorne appare per l’ultima volta in The Lost Gallows,
“L’Arte di Uccidere” (per non apparire più).Il fatto che Carr, sin dal
primo dei romanzi pubblicati con Bencolin, decida di farlo fuori,
testimonia per me il nuovo status professionale e sociale raggiunto da
Bencolin: “Juge d’Instruction”, mentre Landevorne, è in sostanza, ora,
un ex-funzionario di Scotland Yard, mentre prima: “…era forse
l’unico uomo in città che avesse l’autorità di dare ordini a Scotland
Jard: ed Henri Bencolin poteva essere soltanto uno degli ottantasei
prefetti di polizia della Francia, ma non era certo il meno importante
di essi ” (The Shadow of the Goat, “L’Ombra del Caprone”,
Supergiallo n.21, pag. 181); se si vede bene, Jeff Marle, che riveste la
parte del Watson della situazione, non è in posizione paritetica, quale
è quella che sostanzialmente si osserva per Landevorne nei primi
quattro racconti (anche se poi il vetro deus ex-machina è sempre
Bencolin) e per The Lost Gallows, ma pur essendo un conoscente
di Bencolin (Bencolin ed il fratello di Jeff erano amici) è comunque in
una posizione più defilata e comunque non condivide il centro del
palcoscenico. E’ lui, il celebre poliziotto francese sempre al centro
delle luci, è lui che detta l’azione investigatrice, non c’è nessuno che
possa provare a sottrargli le luci della ribalta . E nel tempo stesso è
come se Bencolin distruggendo l’immagine del suo compagno di una volta,
si sbarazzasse di una parte di sé, distruggesse parte del suo passato,
una parte di coscienza che non vuol più considerare; però già con The Four False Weapons ,“4 Armi False”, Jeff Marle scompare ( ma come dice giustamente Don d’Ammassa, parlando di Poison in Jest “Piazza pulita”, romanzo del 1932: “..It is, essentially, a Bencolin novel without Bencolin…Jeff Marle is the narrator”
) e gli altri due principi dell’investigazione carriana, Fell e
Merrivale, anche se hanno occasionali compagni di avventura, non ne
avranno mai uno fisso: un po’ quello che accade con Poirot dopo la
parentesi Hastings: è come se alcuni romanzieri del genere giallo,
avessero tentato si svincolarsi dalla pesante eredità di Doyle.
Tuttavia, per spiegare quanto accade in The Lost Gallows,
Carr dice che Landevorne era cambiato avendo perso un figlio
tragicamente (si era impiccato): giacchè in nessuno dei quattro racconti
della giovinezza di Bencolin, si allude a possibili date cui si
collegano, ossia non viene mai specificato l’arco temporale, da quello
che dice Carr in The Lost Gallows si potrebbe dedurre che siano
stati collocati in un tempo che si pone prima dello scoppio della Prima
Guerra Mondiale. Questo spiegherebbe anche come dalla fine del quarto
racconto, al primo romanzo, anche se in effetti nel tempo effettivo, non
passano che pochi mesi, in quello immaginario, potremmo dire
letterario, romanzesco, passino più di dieci anni: in cui Bencolin passa
dalla carica di Prefetto, uno dei tanti, a quella di Capo della
Polizia, consigliere di corte suprema, e giudice istruttore, spodestando
quel Villon che compare in due dei quattro racconti, nel secondo e nel
quarto.
Bencolin, a differenza di Merrivale e di Fell, lavora meglio quando
ha un avversario che si contrappone: in quello tradisce la sua origina
romantica: è come un cavaliere che reagisce all’affronto subito, e
reagisce tanto più veementemente quanto chi gli si oppone è grande e
astuto quanto lui. In The Fourth Suspect ,“Il Quarto sospetto”,
è il Conte Villon , il suo superiore, che chiede il suo aiuto pur
contestando il fatto che Bencolin possa trovare il bandolo della matassa
( lo detesta, per la straordinaria capacità di Bencolin di avere tutto
sotto controllo e di risolvere le matasse più complesse): la spia
LaGarde è stata uccisa, sotto gli occhi dello stesso Villon e
dell’agente del servizio segreto Riordan, che hanno sentito lo sparo :
hanno sfondato la porta,senza aver visto nessuno uscire da una stanza
ermeticamente chiusa, alla cui unica uscita erano presenti loro due.
LaGarde è vestito ancora alla maniera del ballo in maschera che si è
tenuto in casa sua, e sulla faccia vi è una maschera: su quel viso vi
sono tre fori: due per gli occhi (nella maschera) ed il terzo nella
fronte, da cui esce un rivolo di sangue sotto i loro occhi. Ancora una
volta una Camera chiusa assolutamente straordinaria, ancora una volta
risolta con maestria. Anche questo secondo racconto semina dei germi che
verranno sviluppati altrove: la vittima è vestita in maniera bizzarra
(Hogenauer, in The Magic Lantern Murders, “Delitto da
Burattini”, è trovato morto, col sorriso distorto in un ghigno per
avvelenamento da stricnina, e un Fez turco in testa; Penderel col
cilindro, un lungo cappotto, un abito da sera vetusto,una barba finta
nera che già sul mento gli si è staccata, un pugnale persiano piantato
nel petto ed “il manuale di ricette casalinghe della Signora Eltridge”,
in The Arabian Nights Murder, “Delitti da Mille ed una Notte”; Dwight Stanhope con indosso una maschera d’oro, come ne The Gilded Man,
“Il Lago d’Oro” ) con la parrucca bianca, gli arti a sghimbescio, una
maschera sul viso, ed una sigaretta fumante in mano; vi è ancora un
assassino “vanished into thin air”, e un assassinio molto simile al
secondo di Le tre bare: anche lì viene assassinato un uomo, e tre
testimoni (due passanti ed un poliziotto) giurano che nessuno si è
avvicinato alla vittima: conclusione? Delitto impossibile.
L’assassinio avviene sotto i loro occhi, ma entrambi giurano che
nessuno era lì esclusa ovviamente la vittima. Anche nel successivo Peacock Feather Murders (1937, anche The Ten Teacups)
“Il Mistero delle penne di pavone”, Vance Keating che “sta portando un
cappello che non è ovviamente della sua taglia” è entrato in un
appartamento sull’attico, chiudendosi la porta alle spalle, mentre sia
la finestra che l’unica porta, sono sorvegliate all’esterno dalla
polizia: viene assassinato con due proiettili, e la pistola, un antico
revolver, viene trovata sul pavimento, e dell’assassino nessuna traccia
.Per di più, questo, il racconto, è il primo dei suoi scritti in cui
elabora il tema dell’oggetto (l’arma, ma anche altro), che scompare dopo
un delitto, in una Camera Chiusa: il seme gettato qui, farà frutti
altrove: innanzitutto l’arma che scompare in Till Death Do Us Part, “Un Colpo di Fucile”; parecche mazzette di banconote, svanite in una stanza, in Hot Money, “Denaro che scotta” (racconto compreso nella raccolta The Department of Queer Complaints); il testamento che scompare da una stanza chiusa, la cui finestra ha pesanti inferriate e la porta è sorvegliata, in The Gentleman from Paris, “Il Gentiluomo di Parigi” (racconto tratto dalla raccolta “The Third Bullet and Other Stories”).Il terzo racconto è ancor più singolare. The End of Justice
“La fine della Giustizia”, ripropone il tema della sfida che Bencolin
accetta: questa volta è un uomo che rispetta, Follewes, che ha speso
tutti i suoi soldi in opere di beneficenza, ad essere stato condannato a
morte, per l’omicidio del cugino Darworth. L’omicidio presenta ancora
una Camera Chiusa: Fellowes è stato visto entrare a casa della vittima,
bussare alla porta, annunciarsi, essere fatto entrare, rinchiudere la
porta. Poi..viene trovato il fratello della vittima, noto spiritista,
ammanettato mai e piedi ad una poltrona e con un coltello piantato nel
cuore: nella stanza ovviamente non c’è nessuno! Fellowes pare che sia
scomparso, volatilizzato: tanto più che l’unica finestra è aperta sì, ma
sul bordo del davanzale e sul prato sottostante c’è una candida distesa
di neve, senza neanche una impronta, immacolata e perfetta. Come avrà
fatto il presunto omicida a fuggire, tanto più che non si è mosso di
casa? Chi era l’assassino? Bencolin riuscirà anche in questo caso a
risolvere il mistero, ma non riuscirà a salvare l’amico, che verrà
impiccato ingiustamente, pochi minuti prima che venga scoperto
l’assassino.
Questo racconto fornisce assieme al primo esaminato parecchie idee
per “Le tre bare”. Inoltre il tema della distesa coperta di neve in cui
non si vedono impronte oppure se ne vedono ma non appartengono alla
vittima sarà ripetuto con infinite variazioni dallo stesso Carr ( e da
altri suoi posteri): The Footprints in the Sky , “Un’Impronta
in Cielo”, del 1940, racconto in cui Carr come al solito non si
risparmia ed inventa una Camera Chiusa del genere più allargato, il
prato coperto di neve, con una soluzione veramente da lasciare a bocca
aperta; la distesa di neve di “Assassinio al Priorato” The White Priory Murders; la neve che vien giù e l’assenza di orme da parte dell’assassino di Grimaud in The Hollow Man (The Three Coffins), “Le Tre Bare”; c’è in Death and the Gilded Man “Il Lago d’Oro”;persino la variazione in cui al posto della neve c’è la sabbia: per es: The Witch of the Low Tide, “Un colpo di pistola”.
Un altro tema qui presente, quello del ventriloquismo, verrà
puntualmente riproposto col prosieguo della carriera di scrittore di
Carr: infatti nel 1935, nella serie con H.M. con la quale Carr si firma
per ragioni editoriali con lo pseudonimo Carter Dickson, vedrà la luce
il romanzo The Red Widow Murders, “I Delitti della Vedova
Rossa”, che vede Il Grande Vecchio alle prese con una delle sue Camere
Chiuse migliori e più intricate, in cui uno dei personaggi è
ventriloquo.Tuttavia, il racconto a me sembra alquanto sbilanciato come
soluzione: immaginare che Darworth trovato ammanettato alla poltrona,
pur avvezzo a sedute spiritiche falsate, abbia avuto la forza, pur dopo
che si sia incatenato le caviglie, di pugnalarsi al cuore, e dopo
ammanettarsi, mi sembra una colossale spacconata. In verità più da Fell
che da Bencolin: una di quelle arrampicate sugli specchi cui Carr si è
sempre dedicato, allorquando il plot per qualche ragione gli sfuggiva di
mano. Avrei potuto capire che la pugnalata se la fosse inferta nello
stomaco e poi fosse morto dissanguato, ma..immaginare di colpirsi al
cuore (e la morte è quasi istantanea) e poi avere la forza di
ammanettarsi, rivelerebbe nella vittima non un uomo ma un semidio. Una
cosa un po’ difficile a mandar giù.Infine c’è l’ultimo racconto, The Murder in Number Four, “Assassinio al numero quattro”.
E’ una Camera chiusa molto suggestiva: questa volta è in uno
scompartimento di un treno. Mercier, contrabbandiere di diamanti, viene
trovato strangolato in uno scompartimento, chiuso col catenaccio dal di
dentro, e con una finestra, con uno spazio tale da non far passare
neanche un nano, tale solo per prendere aria. La soluzione è ancora una
volta suggestiva, e del resto l’unica ad essere possibile, se non si
vuole ammettere il fatto che Mercier sia potuto essere strangolato da un
fantasma. L’indizio fondamentale che porta Bencolin ad identificare
l’assassino è un biglietto.
Tuttavia il racconto, anche se offre una soluzione spettacolare, è il
meno originale dei quattro: ha infatti una filiazione diretta in The Big Bow Mystery
di Israel Zangwill. E’ tuttavia da segnalare come in questo racconto,
Carr esplori per la prima volta la tecnica della risoluzione di un
problema, dissertando non tanto sulla tecnica della camera chiusa (cosa
che in un certo senso c’era già stata in The Big Bow Mystery di I.Zangwill e che si afferma alla grande prima con The Three Coffins nel 1935( la famosa dissertazione su la Camera Chiusa); poi con Death from a Top Hat, “Morte dal cappello a cilindro” di Clayton Rawson (1938) che la amplia; e infine una terza di Derek Smith in Whistle up the Devil (1953),
“Un fischio al Diavolo”), ma su come il detective possa e debba
lavorare per risolvere felicemente un caso poliziesco. Riporto la prima
parte della dissertazione, tra Sir John Landevorne e Bencolin che nel
corso del racconto, fieramente, dice : “..E io sono Bencolin, prefetto della Polizia in Parigi”;
ometto la seconda parte perché si fa riferimento palese alla
risoluzione del caso in questione (la traduzione è di Antonietta Maria
Francavilla): “—Che bella scacchiera, vero? — osservò dopo un poco (è Bencolin che parla ora: n.d.r.)
—Una partita a scacchi può essere un’impresa terribile e
affascinante quando bisogna giocarla a rovescio e con gli occhi
bendati. L’avversario comincia col re in posizione di scacco e tenta di
rimettere i pezzi nelle posizioni in cui si trovavano all’inizio. Ecco
perché non si possono applicare regole o leggi matematiche al delitto.
Il miglior giocatore di scacchi è quello che riesce a visualizzare la
scacchiera come lo sarà dopo la sua mossa. Il miglior investigatore è
quello che riesce a visualizzare la scacchiera com’era stata prima che
lui trovasse i pezzi disposti a casaccio. Deve possedere tanta
immaginazione da intuire le occasioni che il criminale ha avuto, e da
agire come il criminale avrebbe agito. E’ una grande, orrenda battaglia
tra due immaginazioni opposte. Nessuno è più portato di un investigatore
a fare un mucchio di pompose e macchinose chiacchiere su ragionamento,
deduzione e logica. Troppo spesso dice “ragione” quando in realtà
intende “immaginazione”. Io invece mi rifiuto di ammettere che una
pedanteria da due soldi come la ragione venga confusa con una qualità
assai più elevata.
Ma stia a sentire — obiettò sir John. Supponiamo di prendere a esempio il caso di stanotte. Lei ci ha fornito una ricostruzione
del delitto, d’accordo, e forse lo ha fatto grazie all’immaginazione.
Però, non ci ha spiegato come faceva a sapere che le cose erano andate
proprio in quel modo. È stata la ragione a dirglielo, no? E comunque,
come ha fatto a risolvere l’enigma dell’assassinio di Mercier?
Questo è proprio un esempio di quanto cercavo di spiegarle. Se
ne dicono tante dell’investigazione criminale che a volte un
investigatore si chiede perché la gente creda che lui agisca in un certo
modo. Gli scrittori di romanzi polizieschi vogliono che
l’investigazione sia una scienza, sottopongono le persone sospette alla
“macchina della verità” e gli propinano test freudiani… dimenticando che un innocente è sempre nervoso e si comporta da colpevole assai più del criminale stesso, perfino a livello di sistema neurovegetativo. Dimenticano che le loro macchine vengono usate da quella che è la meno obiettiva e la più irriducibile di tutte,.. la macchina umana. Quanto all’investigatore che si basa sulla
psicologia, quello va a pescare il tipo d’uomo che può avere commesso
il delitto, si aggira finché non trova il suo tizio e allora dice: “Ecco
l’assassino” che le prove gli diano ragione o no. Col suo permesso, questo è il mio giudizio: tutte balle. Non esiste uomo incapace di commettere un delitto in ogni circostanza; dire che un delitto audace è stato necessariamente
commesso da una persona audace, equivale a dire che uno scrittore
ubriacone non può scrivere che di bevande alcoliche, o che un pittore
ateo non è in grado dì dipingere un quadro di soggetto religioso.
Invece, spesso è il beone che scrive i migliori opuscoli in favore della
temperanza, è l’ateo che trova gli argomenti più convincenti per
propagandare la religione”.Uno scritto che definisce una volta per
tutte l’importanza di questi racconti, una vera summa di Bencolin, oltre
che miniera di situazioni e di stratagemmi che Carr userà poi nel
prosieguo della sua carriera di scrittore: tra le altre, mi piace
ricordare qui, che proprio in The Lost Gallows, il romanzo che
vede per l’ultima volta Landevorne assieme a Bencolin , che per certi
versi è uno dei romanzi polizieschi più romantici di Carr, di un
romanticismo molto cupo però, si evidenzia tutta la natura mefistofelica
di Bencolin, più di quanto forse accada in It walks By Night, spietata e sardonica, cosa che nei quattro racconti forse non si rivela quasi mai; anzi, alla fine del capitolo 5 di The Ends of Justice,
quando Bencolin chiede al vescovo Wolfe di ritardare il più possibile
l’esecuzione di Fellowes, perché lui e Landevorne lo possano salvare, e
il vescovo si rifiuta di collaborare, i due “..erano ritti l’uno di
fronte all’altro, l’uomo di chiesa e l’investigatore, e l’odio sorto tra
loro accendeva i due volti come una fiamma. – Vescovo Wolfe – scandì
Bencolin – Pilato era più misericordioso di lei”. Qui è utile
commentare come Bencolin appaia molto più umano del vescovo e molto meno
spietato e duro, e anche meno cinico di come apparirà nei romanzi
successivi : la Chiesa (anglicana perché l’azione si svolge a Londra),
nominata erede, ricaverebbe molti soldi, dalla morte di Fellowes e
proprio il vescovo Wolfe ha aiutato a risolvere il caso. Noto solo come
ancora una volta l’uso dei nomi è caratteristico: il vescovo si chiama
Wolfe, e in tedesco Wolf significa “lupo”. Non mi sembra una scelta
casuale, per un religioso che pur non essendosi macchiato del delitto,
vedendo che dall’arresto di Fellowes avrebbe ricavato molto, si è
offerto di aiutare la polizia ad arrestarlo. Nelle pagine finali di The Lost Gallows,
Bencolin ricorda a El Moulk che lo sta salvando dalla morte per
impiccagione, cui era stato destinato da ****, solo perché lo vuol
vedere salire il patibolo all’alba e vuol vedere come gli carezzi il
collo La Vedova Rossa, cioè la ghigliottina. E
nell’epilogo della storia, quando tutti sono ammutoliti dall’orrore,
Bencolin..canta allegro una canzoncina : Bencolin, giudice implacabile,
avrebbe voluto vedere ghigliottinato El Moulk che era stato alla causa
di un evento tragico, ma accetta la sorte del fato: Dio ha colpito il
malvagio, e ha fatto giustizia. E tutto può finire bene.
Pietro De Palma
venerdì 27 aprile 2018
venerdì 13 aprile 2018
William L. Fieldhouse : Il caso del colonnello assassinato (The Colonel Won't Attend, 1979) - trad. Italagent - Il Racconto Giallo, Raccolta estate n.6, Editoriale Corno, 1982
Dopo aver riallacciato i rapporti di amicizia da qualche mese su Facebook con Igor Longo, lui mi ha parlato tra le altre cose, di certi racconti inseriti in anonime antologie dell' Editrice Corno (una casa editrice famosa per aver pubblicato negli anni settanta gli albi della Marvel in Italia), talmente bistrattate da non essere minimamente considerate dagli addetti ai lavori. La ragione sta nelle molto approssimative copertine, nelle traduzioni quasi pessime, e negli anonimi scrittori, sicuramente un tentativo neanche tanto nascosto di pagare poco i diritti editoriali, e di traduzione. E' vero che attirava l'attenzione del lettore, un racconto fisso di Brett Halliday, con Mark Shayne, ma è anche vero che non erano racconti originali bensì firmati da ghostwriters, quindi potremmo definirli degli apocrifi. Era purtuttavia un'iniziativa editoriale, che in origine prese inizio a partire dalla seconda metà degli anni '50 in USA, e che poi si evolse: inizialmente la MSMM pubblicava opere originali di Bretth Halliday, ma poi a partire dal 1977, anno della sua morte, cominciò a varare l'esperimento dei racconti scritti da altri con stesso personaggio Shayne. In Italia, a cercare di bissare il successo americano ci provò l'editoriale Corno, chiamata un causa da Luciano Secchi, che, conosciuto sotto lo pseudonimo di Max Bunker (Alan Ford, Kriminal, Satanik, etc..), aveva ad un certo punto tentato l'avventura nel giallo con Agenzia investigativa Riccardo Finzi, cosa ache aveva avuto successo. Successivamente aveva convinto l'editore Corno, attivo anche lui nel mondo dei fumetti, e che era il suo editore, a tentare la carta dell'albo con racconti gialli (del MSMM). All'inizio la cosa andò veramente bene, anche per il prezzo assai conveniente; in seguito, la cosa cambiò :
https://nonquelmarlowe.wordpress.com/2016/04/29/secchi-e-corno-alla-conquista-del-giallo/.
Era purtuttavia un modo per strappare qualche soldino ai lettori - che negli anni '80 erano tanti in Italia - di gialli.
Igor mi ha parlato di uno di questi autori anonimi, certo William L. Fieldhouse, un autore circa il quale ho dovuto penare parecchio per ottenere notizie biografiche. Si sa solo che attualmente vive e lavora a Las Vegas, ed è uno dei massimi autori popolari in america di Action e letteratura western (quindi al limite dell'hardboiled). Potremmo definirlo il Di Marino degli americani. Alla fine degli anni settanta inizio ottanta aveva cominciato la propria carriera nel campo della letteratura poliziesca, scrivendo dei racconti in ambito militare, che ben presto erano stati pubblicati sul Mike Shayne Mystery Magazine. Se ne annoverano 13, almeno io ne ho contati tanti. In Italia vennero pubblicati da editoriale Corno, prima che si trasformasse in Garden.
Sulla raccolta estate n.6 del 1982, figurava tra gli altri, un suo racconto , The Colonel Won't Attend, pubblicato originalmente su M.S.M.M. January 1979.
Protagonista di questi racconti e anche del presente, è il Cap. Lansing, del CID, Criminal Investigation Department, un ex poliziotto arruolatosi in esercito e poi passato per tramite della Polizia Militare, alla branca investigativa che si occupa di decessi nelle forze armate. Viene incaricato del caso del Colonnello Grant, comandante della caserma di Bradford Barrachs, trovato ucciso, garrotato, nel suo letto, al primo piano della caserma. Nessuno ha sentito nulla. E' stato trovato di mattina, da un sottotenente e un capitano, allarmati del fatto che non avesse risposto al telefono, essendo in programma la visita di un alto papavero del Congresso.
Lansing, accompagnato in camera, nota come la porta della camera abbia lo stipite fracassato e scheggiato, come se qualcuno avesse tentato di aprire la porta con la forza. Però trova nel contempo sul davanzale della finestra due profonde intaccature.
Comincia i vari interrogatori e li concentra su quattro sospettati, gente che per un motivo o per l'altro, aveva risentimento nei confronti del colonnello: un sergente, dei Berretti verdi, coinvolto in una rissa con coreani in una bettola del Vietnam, dove c'era scappato il morto; un ex elicotterosta; un maggiore chirurgo cardiaco, con cui aveva avuto frequenti motivi di dissapore, essendosi rifiutato di avvallare il suo trasferimento; e uno specialista E5 che aveva colpito in passato il colonnello ed era stato sottoposto a corte marziale e degradato. Quattro uomini che avevano risentimento nei suoi confronti; di cui due mancini, il soldato scelto E5 e il Maggiore. Perchè? perchè dall'autopsia era emerso il modus operandi dell'assassino che aveva tirato maggiormente il cavo metallico dal lato sinistro. Mentre vanno avanti gli interrogatori, si sa che un altro militare, un soldato, Peter David Howard, era morto la sera prima, ucciso nello stesso modo, garrotato. E' evidente che un collegamento deve esserci. Che Lansing trova, inchiodando l'assassino e costringendolo a venire allo scoperto.
In un finale ad effetto, l'assassino cerca di garrotare Lansing, che tuttavia chiede al medico legale di fargli una falsa gessatura al collo, tale che l'assassino come opererà per garrotare anche lui, sarà preso in trappola.
Ci troviamo dinanzi ad una novella interessante e mi spiego: lo stile non è certo quello di un autore consumato che del giallo ha fatto la sua professione (è lontanissimo da Carr), punta più sull'immediatezza e su un modo narrativo da giornale, senza fronzoli, senza inutili rimandi letterari, fatto di essenziale e basta. E' ovvio che questo sia uno stile letterario che punti al colpo da fare sul lettore, alla rivelazione, a catturare l'interesse con una trama accattivante e con dialoghi ad effetto, più che concentrandosi sui particolari. Questo però nuoce al plot in certo senso, perchè se è vero che il ritmo è scorrevolissimo ed è quasi un racconto action, è anche vero che il lettore esperto di gialli rimane qua e là sorpreso: è come se la trama prima di essere pubblicata non fosse stata limata, sgrossata dalle imperfezioni. Faccio un esempio. La porta dell'appartamento di servizio risulta essere stata danneggiata e scheggiata come se chi avesse ucciso il colonnello fosse entrato da lì. E' evidente che non può essere così, perchè se davvero la cosa si fosse verificata avrebbe fatto un fracasso d'inferno in una caserma e avrebbe richiamato l'attenzione non solo della vittima ma anche di altri militari. Quindi è di per sè un depistaggio. La via vera di penetrazione nell'appartamento sarà altra. Lansing pone attenzione a due intaccature nel legno del davanzale della finestra. OK. Lui capisce subito come possano essere state fatte, perchè ha fatto la guerra (in Vietnam) e quindi ipotizza l'azione dell'assassino. Però qui casca l'asino: come ha fatto l'assassino ad entrare in camera? La finestra era aperta o chiusa? Ha rotto il vetro o non ce n'era bisogno? Per Fieldhouse la cosa ha poca importanza: è una finestra e basta, serve a far prendere luce e aria alla stanza. Il resto non conta. Per un giallista esperto e navigato, sono cose che invece contano. Lui è attratto dal plot in sè, non dai particolari. Sono tentato dal pensare che non gli interessasse nemmeno etichettare i suoi racconti come "al limite dell'impossibile", anche se qualcuno di essi finisce per esserlo. E' attratto dalle scene di azione, arti marziali. La scena finale è per certi versi quella a cui tende tutto il racconto, non tanto per la rivelazione dell'assassinio e il modus operandi, quanto per come Lansing riesca ad evitare che l'assassino arrivato silenziosamente alle sue spalle, tenti di garrotarlo, proteggendosi con un'escamotage fantastico, ideato dal suo amico medico segaossi, efficacissimo e di uso quotidiano.
La scrittura è molto molto simile a quella di Stefano Di Marino, quando scrive action e romanzi di spionaggio: c'è un'immediatezza giornalistica, un modo sbrigativo di scrivere che dona molta fluidità. Peccato che così si tralascino dei particolari che altrimenti - secondo me - avrebbero fatto la differenza.
E' comunque un autore da seguire, anche perchè Igor mi ha detto recentemente - e non metto mai in discussione quello che lui dice ex cathedra sul mystery - che come Commings sta a Carr, Fieldhouse sta a Hoch.
Pietro De Palma
https://nonquelmarlowe.wordpress.com/2016/04/29/secchi-e-corno-alla-conquista-del-giallo/.
Era purtuttavia un modo per strappare qualche soldino ai lettori - che negli anni '80 erano tanti in Italia - di gialli.
Igor mi ha parlato di uno di questi autori anonimi, certo William L. Fieldhouse, un autore circa il quale ho dovuto penare parecchio per ottenere notizie biografiche. Si sa solo che attualmente vive e lavora a Las Vegas, ed è uno dei massimi autori popolari in america di Action e letteratura western (quindi al limite dell'hardboiled). Potremmo definirlo il Di Marino degli americani. Alla fine degli anni settanta inizio ottanta aveva cominciato la propria carriera nel campo della letteratura poliziesca, scrivendo dei racconti in ambito militare, che ben presto erano stati pubblicati sul Mike Shayne Mystery Magazine. Se ne annoverano 13, almeno io ne ho contati tanti. In Italia vennero pubblicati da editoriale Corno, prima che si trasformasse in Garden.
Sulla raccolta estate n.6 del 1982, figurava tra gli altri, un suo racconto , The Colonel Won't Attend, pubblicato originalmente su M.S.M.M. January 1979.
Protagonista di questi racconti e anche del presente, è il Cap. Lansing, del CID, Criminal Investigation Department, un ex poliziotto arruolatosi in esercito e poi passato per tramite della Polizia Militare, alla branca investigativa che si occupa di decessi nelle forze armate. Viene incaricato del caso del Colonnello Grant, comandante della caserma di Bradford Barrachs, trovato ucciso, garrotato, nel suo letto, al primo piano della caserma. Nessuno ha sentito nulla. E' stato trovato di mattina, da un sottotenente e un capitano, allarmati del fatto che non avesse risposto al telefono, essendo in programma la visita di un alto papavero del Congresso.
Lansing, accompagnato in camera, nota come la porta della camera abbia lo stipite fracassato e scheggiato, come se qualcuno avesse tentato di aprire la porta con la forza. Però trova nel contempo sul davanzale della finestra due profonde intaccature.
Comincia i vari interrogatori e li concentra su quattro sospettati, gente che per un motivo o per l'altro, aveva risentimento nei confronti del colonnello: un sergente, dei Berretti verdi, coinvolto in una rissa con coreani in una bettola del Vietnam, dove c'era scappato il morto; un ex elicotterosta; un maggiore chirurgo cardiaco, con cui aveva avuto frequenti motivi di dissapore, essendosi rifiutato di avvallare il suo trasferimento; e uno specialista E5 che aveva colpito in passato il colonnello ed era stato sottoposto a corte marziale e degradato. Quattro uomini che avevano risentimento nei suoi confronti; di cui due mancini, il soldato scelto E5 e il Maggiore. Perchè? perchè dall'autopsia era emerso il modus operandi dell'assassino che aveva tirato maggiormente il cavo metallico dal lato sinistro. Mentre vanno avanti gli interrogatori, si sa che un altro militare, un soldato, Peter David Howard, era morto la sera prima, ucciso nello stesso modo, garrotato. E' evidente che un collegamento deve esserci. Che Lansing trova, inchiodando l'assassino e costringendolo a venire allo scoperto.
In un finale ad effetto, l'assassino cerca di garrotare Lansing, che tuttavia chiede al medico legale di fargli una falsa gessatura al collo, tale che l'assassino come opererà per garrotare anche lui, sarà preso in trappola.
Ci troviamo dinanzi ad una novella interessante e mi spiego: lo stile non è certo quello di un autore consumato che del giallo ha fatto la sua professione (è lontanissimo da Carr), punta più sull'immediatezza e su un modo narrativo da giornale, senza fronzoli, senza inutili rimandi letterari, fatto di essenziale e basta. E' ovvio che questo sia uno stile letterario che punti al colpo da fare sul lettore, alla rivelazione, a catturare l'interesse con una trama accattivante e con dialoghi ad effetto, più che concentrandosi sui particolari. Questo però nuoce al plot in certo senso, perchè se è vero che il ritmo è scorrevolissimo ed è quasi un racconto action, è anche vero che il lettore esperto di gialli rimane qua e là sorpreso: è come se la trama prima di essere pubblicata non fosse stata limata, sgrossata dalle imperfezioni. Faccio un esempio. La porta dell'appartamento di servizio risulta essere stata danneggiata e scheggiata come se chi avesse ucciso il colonnello fosse entrato da lì. E' evidente che non può essere così, perchè se davvero la cosa si fosse verificata avrebbe fatto un fracasso d'inferno in una caserma e avrebbe richiamato l'attenzione non solo della vittima ma anche di altri militari. Quindi è di per sè un depistaggio. La via vera di penetrazione nell'appartamento sarà altra. Lansing pone attenzione a due intaccature nel legno del davanzale della finestra. OK. Lui capisce subito come possano essere state fatte, perchè ha fatto la guerra (in Vietnam) e quindi ipotizza l'azione dell'assassino. Però qui casca l'asino: come ha fatto l'assassino ad entrare in camera? La finestra era aperta o chiusa? Ha rotto il vetro o non ce n'era bisogno? Per Fieldhouse la cosa ha poca importanza: è una finestra e basta, serve a far prendere luce e aria alla stanza. Il resto non conta. Per un giallista esperto e navigato, sono cose che invece contano. Lui è attratto dal plot in sè, non dai particolari. Sono tentato dal pensare che non gli interessasse nemmeno etichettare i suoi racconti come "al limite dell'impossibile", anche se qualcuno di essi finisce per esserlo. E' attratto dalle scene di azione, arti marziali. La scena finale è per certi versi quella a cui tende tutto il racconto, non tanto per la rivelazione dell'assassinio e il modus operandi, quanto per come Lansing riesca ad evitare che l'assassino arrivato silenziosamente alle sue spalle, tenti di garrotarlo, proteggendosi con un'escamotage fantastico, ideato dal suo amico medico segaossi, efficacissimo e di uso quotidiano.
La scrittura è molto molto simile a quella di Stefano Di Marino, quando scrive action e romanzi di spionaggio: c'è un'immediatezza giornalistica, un modo sbrigativo di scrivere che dona molta fluidità. Peccato che così si tralascino dei particolari che altrimenti - secondo me - avrebbero fatto la differenza.
E' comunque un autore da seguire, anche perchè Igor mi ha detto recentemente - e non metto mai in discussione quello che lui dice ex cathedra sul mystery - che come Commings sta a Carr, Fieldhouse sta a Hoch.
Pietro De Palma
venerdì 23 marzo 2018
S.S.Van Dine : La canarina assassinata (The Canary Murder Case, 1927) – trad. Pietro Ferrari – Polillo, I Bassotti N.117, 2012
La Canarina assassinata è uno dei più bei Gialli dell’Età d’Oro del romanzo poliziesco.
Quando lo scrisse, Wilard Huntigdon Wright, aveva già pubblicato The Benson Murder Case, 1926 “La strana morte del Signor Benson”, romanzo che aveva ottenuto un buon successo. Ma è senza dubbio proprio con The Canary Murder Case, 1927 “La Canarina assassinata” e poi con The Greene Murder Case, 1928, “La Tragedia di Casa Greene”, che si impose come il più grande autore della sua epoca: due romanzi che fecero scuola.
Antitetici è bene dirlo: così come “La Tragedia di Casa Greene” è una vicenda di morte che si svolge claustrofobicamente in una dimora in cui sono costretti a vivere gli eredi di una fortuna, ed in cui aleggia dal primo all’ultimo istante un’atmosfera greve e plumbea, ne “La Canarina Assassinata”, l’atmosfera è invece frivola e salottiera, molto più leggera, ma al tempo stesso complicata.
I tre romanzi assieme formano una ideale trilogia
Da un certo punto di vista, si può dire, a mio parere, che sia uno dei più grandi romanzi polizieschi che siano mai stati concepiti. Oggi, che le soluzioni vandiniane sono state fatte proprie e poi superate da tanti grandi scrittori a lui successivi, Van Dine sembra essere Pollicino, e a taluni le sue soluzioni fanno ridere. Invece, non si può pensare alla letteratura poliziesca degli anni ’30, senza inchinarsi reverenzialmente dinanzi a Van Dine. Perché senza di lui non ci sarebbero stati Ellery Queen, Charles Daly King, il primo Rex Stout.
E dei romanzi di Van Dine, i due che hanno avuto più influsso sui posteri sono stati proprio The Canary Murder Case e The Greene Murder Case. In particolare The Canary Murder Case, ebbe un effetto dirompente all’epoca: fu in testa per parecchi mesi alle classifiche dei libri più letti.
Julian Symons nella sua opera critica più famosa, Bloody Murder, riportò il giudizio di un altro critico, Howard Haycraft, scrivendo che “ ..his second book, The Canary Murder Case 1927, broke all modern publishing records for detective fiction at the time” (Julian Symons, Bloody Murder, Penguin Books, 1985, pag.101).
Più in là a testimoniare il grandissimo successo riportato da questo romanzo e dal successivo romanzo, che sconvolsero la letteratura poliziesca del tempo, dominata dagli autori britannici, Symons affermava che “It was said that he had lifted the detective story on to the plane of a fine art, and by his own account he was the favorite crime writer of two Presidents” (op. cit. pag. 102).
Ma perché The Canary Murder Case ebbe tutto questo successo? Analizziamo la storia.
Innanzitutto chi è la Canarina? Prendendo a prestito la stessa prosa di Wilard Huntigdon Wright “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto ornitologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della canarina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e rosea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu promossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.
Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luoghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popolarmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo appartamento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case,“La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7).
La Canarina è Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B, di night club, che è poi diventata famosissima in certi ambienti di Broadway. Conosce il suo ruolo e sa quale sia anche il giudizio che le riservano negli ambienti borghesi di cui lei rappresenta il richiamo: nel balletto non fa altro che fare il verso ad un uccello e mostrare le gambe. Ma si illude di poter scalare la società e conquistare un suo posto importante. E’ un po’ lo stesso discorso che fa la puttana di un Bordello di lusso (la prostituta sogna un amore impossibile con un bel cliente che oltre che utilizzarla per il suo piacere, la introduca nel mondo “normale”) il discorso di Margaret Odell, che, finito lo spettacolo, si ritrova nel grigiore della vita i ogni giorno, da cui esce temporaneamente solo nel volgere di uno spettacolo in cui uomini facoltosi in ghette, cilindro e marsina, fanno la coda per vederla , magari dondolarsi su un’altalena, su un trespolo, su cui lei, La Canarina, mostra le gambe.
E’ chiaro quindi che Margaret Odell, come farebbe una qualsiasi mantenuta, cerchi qualcuno che le assicuri, almeno nel suo mondo fatto di lustrini e pailettes, una certa onorabilità e almeno l’illusione di aver scalato quella società che invece non la accetterà mai. E’ la società degli anni ‘venti, in cui la grande crisi economica portò sul lastrico decine di migliaia di persone, ma che favorì anche l’arricchimento maggiore di chi già era ricco.
La Canarina ha molte amicizia maschili e non lo nega: i suoi accompagnatori la sfoggiano come oggi si farebbe con una Ferrari Testarossa, le altre donne la invidiano o ne parlano male, lo immaginiamo, ma lei pensa di poter usare queste amicizie, per i suoi scopi, che sono quelli di far carriera. Ha raccolto le confessioni di chi stava tra le sue gambe, ed un bel giorno decide di far il gran passo: decide di forzare la mano ad uno dei suoi amanti, e metterlo con le spalle contro il muro. E’ facile pensare, e poi lo si saprà, a cosa aspiri La Canarina: non vuol più essere “La Canarina”, ma una signora del Jet-Set, appartenere a quell’ambiente di cui ha conosciuto “tanti validi esponenti”. Solo che non capisce una cosa molto semplice: chi mai sposerebbe una “Canarina”? Ma lei si illude. E come tale resta vittima dei suoi stessi sogni.
Un bel giorno “La Canarina” vien ritrovata morta, assassinata, strangolata.
L’immagine che ne da Van Dine è terribile:
“Il capo era rivolto all’indietro, come per una costrizione violenta…i capelli, disciolti, ricadevano dalla nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato; aveva perso ogni bellezza; la pelle era esangue, gli occhi vitrei; la bocca era aperta e le labbra convulse. Il collo, sui due lati della cartilagine tiroidea, mostrava orribili lividi scuri. La Canarina indossava un leggero abito da sera di pizzo Chantilly nero sopra ad uno chiffon color crema. Sul bracciolo del divano aveva gettato una cappa di un tessuto dorato, bordata di ermellino…a parte i capelli arruffati, una delle spalline dell’abito era stata strappata e il sottile pizzo del corpetto si era aperto in un lungo squarcio..una scarpetta di satin si era sfilata ed il ginocchio destro era contorto in dentro vero il divano, come se la poveretta avesse cercato di liberarsi dalla soffocante morsa del suo antagonista: Le sue dita erano ancora piegate,senza dubbio come nel momento in cui si era arresa alla morte” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag.22-23).
Dal sopralluogo effettuato dalla polizia emerge che mancano dei gioielli, che invece avrebbero dovuto esserci, secondo quanto afferma la sua domestica: quindi si è portati a identificare l’assassinio, come l’effetto di una rapina, o di un furto in appartamento, finito male (per Odell).
Tuttavia, questo è il giudizio della polizia per bocca del Procuratore Distrettuale di New York, F.X. Markham, che conduce le indagini. Di diverso avviso sarà il giudizio di Philo Vance, amico del Procuratore, osservatore imparziale e di geniali intuizioni, che salverà anche questa volta la Polizia da una figuraccia, e che invece sonderà una strada che nessuno aveva intravisto.
Philo Vance è una evoluzione di Sherlock Holmes, radicale: se eredita da Holmes l’attenzione ai particolari, agli indizi, non è però un applicatore integerrimo di essi. Infatti gli indizi che magari porterebbero a orientare le indagini in un certo verso, devono accordarsi ad una ricostruzione psicologica che in base ad essi spieghi tutti i quid rimasti insoluti. E per far questo, Philo Vance, diversamente da Sherlock Holmes, sonda l’anima e la mente dell’uomo, con l’attenzione che il buon Conan Doyle non aveva contemplato per il suo Sherlock Holmes. Si raffrontano così due diversi ideali: quello umanistico, attento alla psicologia e alle altre arti scaturenti dalla passione e dal gusto (Pittura, Scultura, Musica) di Philo Vance; e quello scientifico, analitico, di Sherlock Holmes.
Tuttavia, Philo Vance, osserva alcuni particolari, e in virtù della sua capacità di vedere al di là del mero indizio, ne dà una spiegazione tale che la visione di un omicidio susseguente ad un tentativo di rapina finisce per crollare miseramente.
Normalmente, quando si parla di questo romanzo, tutti individuano la sottigliezza del ragionamento di Van Dine, nella spiegazione della Camera Chiusa, in effetti “immaginifica”: spiegare non tanto come l’assassino e il testimone siano potuti entrare, quanto come essi siano potuti uscire, visto che il portiere quando va via, spranga sempre dal di dentro il portoncino che porta nel cortile interno al palazzo (l’uscita posteriore) con un chiavistello, in tale maniera che chiunque entri nel palazzo stesso, dopo la sua uscita, debba passare per forza davanti al centralinista, impressiona; e impressionò in quel tempo, moltissimo.
Ma ancor di più impressionò il pubblico dei lettori (e dei critici) l’aver inventato un modo che dilazionasse in avanti nel tempo l’azione delittuosa, cioè dopo che il suo accompagnatore della sera assieme al centralinista l’avessero sentita parlar e rispondere alle domande fatte da loro fuori della porta.
Se tuttavia la soluzione della Camera Chiusa e l’espediente per far apparire accaduto dopo, un omicidio che era stato invece commesso prima, rappresentano i mezzi con cui l’investigatore inchioda l’assassino, e che sono messi in chiaro da chiunque analizzi questo romanzo, pochi, pochissimi o nessuno, hanno esaminato gli altri momenti della deduzione vandiniana.
Secondo me, un altro momento in cui Van Dine impressiona il lettore è quando fa argomentare Vance molto molto sottilmente, sulla posizione relativa al corpo della vittima e sugli strappi subiti dai suoi abiti: se davvero Margaret Odell fosse stata affrontata in un corpo a corpo, immaginando che si sarebbe difesa con tutte le proprie forze, per quale motivo un innocente mazzolino, che le è stato ritrovato in grembo, non sarebbe stato scagliato altrove? Per terra, per esempio? E inoltre se così fosse stato, il collo non sarebbe stato rivolto all’indietro, ma la vittima sarebbe dovuta cadere avanti. Quindi… il delitto non si è consumato così, e si è tentato, con una messinscena, di depistare le indagini: lo strangolamento è avvenuto dal di dietro, quando la vittima non si aspettava che chi le stava dietro la strangolasse, ergo si fidava di lui/lei. Ma ci sono gli strappi del vestito! Altra messinscena: gli strappi sono stati fatti post-mortem per confondere il ragionamento degli investigatori.
Secondo ragionamento molto sottile è quello, concernente la chiave dell’armadio: per quale motivo essa è posta internamente all’armadio, quando comunemente essa invece dovrebbe esser infilata nella serratura esternamente?
C’erano quindi, quella sera, in quella stanza, tre persone: Margaret Odell e due altre persone, di cui una nascosta nell’armadio. Chi è stato l’assassino e chi il testimone? L’assassino ha anche rubato in un secondo tempo, oppure è stato l’altro a rubare? Le due persone presenti nell’appartamento, nei loro diversi ruoli, sono legate ad un altro ragionamento che si fa largo allorché Philo Vance nota come un porta-documenti sia vuoto, e come un portagioie di acciaio sia stato apparentemente forzato con un attizzatoio di ghisa: se davvero ci fosse stato un ladro avrebbe certamente usato uno strumento più idoneo per far saltare il coperchio, piuttosto che usare un attizzatoio. Tanto più che un esperto chiamato da Vance ne corrobora la tesi: che cioè vi son stati due momenti diversi nell’effrazione: quello rozzo con l’attizzatoio, che non ha sortito altri effetti se non di ammaccare il coperchio, e quello altamente professionale, effettuato con uno strumento di acciaio, probabilmente un grimaldello. Perché mai si sarebbe dovuto portare dalla camera vicina un attizzatoio inadeguato a far quello che ha fatto il grimaldello?
In parole povere, Vance postula l’azione in due momenti separati, da parte di due diverse persone. Ecco una primo fatto accertato, di grande importanza: nell’appartamento, quella sera, la sera del sabato, due persone sono state lì, probabilmente in un tempo successivo alla morte della Canarina. Il che non vuol dire necessariamente che entrambi avessero partecipato all’omicidio.
Fatto sta che il secondo ignoto visitatore sarà ucciso e solo dopo la sua morte Vance, individuando l’espediente per ritardare la morte, darà un volto all’assassino. In questo caso l’espediente sarà direttamente messo in relazione all’attività dell’assassino.
Secondo me, fu proprio questo espediente, e non invece la soluzione della Camera Chiusa, a determinare il successo del romanzo. La ragione? L’espediente era legato ad un oggetto, che in quei tempi, negli Anni Venti, stava vivendo un’affermazione roboante e che era uno degli status symbol di una famiglia agiata, almeno di posizione sociale borghese. Un oggetto legato alla musica. Era difficile, assai difficile per non dire impossibile che una famiglia operaia o di assai modeste condizioni coltivasse la musica, mentre in una famiglia di estrazione medio-alto borghese la musica era una delle componenti anche sociali che le permettevano distinguersi da un’altra inferiore.
E non è un caso che accadesse che proprio Philo Vance si interessasse a quell’oggetto, disdegnato dagli altri rappresentanti dell’ordine, dall’ottuso Sergente Heath al troppo conformista Procuratore Markham.
Ma perché Philo Vance sì e gli altri no? Perché Philo Vance è un esteta, è interessato a quelle arti che per il povero Markham non rappresentano invece alcuna fonte di diletto. Vance è un individuo superiore, un cavaliere, un principe rinascimentale, superiore a tutti, anche al procuratore Markham: il solo che gli possa stare alla pari è Van Dine stesso, rinchiuso nella corazza del segretario.scudiero narratore delle sue gesta.
L’esser un coltivatore di arti lo mette su un gradino più altro del volgo con cui si rapporta.
Philo Vance è l’immagine del Super Uomo Nietzschiano, di cui Wilard Huntigdon Wright era profondo conoscitore, avendo curato la prima edizione integrale americana delle opere del pensatore tedesco. Proprio queste arti o i giochi che egli pratica (il gioco degli scacchi, che è strumento dell’arte del pensiero, del ragionamento, sarà alla base di The Bishop Murder Case; mentre il poker giocherà un certo ruolo nella classificazione psicologica dell’omicida, in The Canary Murder Case).
Individuo in questo romanzo 4 caratteristiche peculiari di Vance: la deduzione (soluzione della Camera Chiusa), la psicologia (il ragionamento che scaturisce dalla partita a poker), la curiosità (la scoperta dell’imballo dei dischi in un cestino della carta straccia), la sensibilità artistica.
Infatti, al di là di come egli dimostri in maniera incontrovertibile il modo per uscire dal portoncino lasciando il chiavistello chiuso dall’interno; al di là del fatto che egli usi l’elemento psicologico derivante da una partita a poker per insinuare la colpevolezza di una certa persona, non riuscirebbe mai a provare le sue accuse se…un elemento puramente casuale non gli desse una mano.
Può un fattore affidato al caso avere la meglio sulla psicologia finissima e sulla superiore deduzione di Philo Vance? E’ questo il punto. NO.
Eppure in questo caso, la superiorità potrebbe esser affermata. Tuttavia, metto in rilievo come la personalità di Philo Vance sia determinata dall’unione di una molteplicità di fattori (le 4 caratteristiche peculiari) : tra questi la sensibilità artistica ha un peso assolutamente non indifferente, e nel caso nostro è assolutamente determinante. Sensibilità artistica che in questo romanzo, pur facendo capolino qua e là, come se si nascondesse per non essere inquadrata come elemento caratterizzante del tutto, nel finale gioca un ruolo di primo piano.
Tutto questo per affermare cosa? Semplicemente che in questo romanzo, cosa trascurata colpevolmente da molti critici, il fattore più importanti di tutti, per determinare la colpevolezza di una tale persona in rapporto ad altre, è proprio la sensibilità artistica di Philo Vance. Che è sensibilità letteraria (di citazioni se ne trovano a bizzeffe, sia di opere latine, che francesi, tedesche), sensibilità verso le arti figurative, scultoree e di altri tipi di manufatti artistici, es. i tappeti, le porcellane. E ancor più, direi più manifestatamene in questo romanzo, la sensibilità artistica di Vance è sensibilità musicale.
Nel vissuto dell’indagine, si può apprezzare il peso della sensibilità artistica di Vance, nelle sue valutazioni relative alla idiozia di usare delle pergamente per confezionare un cestino per la carta straccia, poi alla fattura dei tappeti, e infine in valutazioni di tipo musicale.
Philo Vance è nell’appartamento della Canarina. E’ alla ricerca di qualcosa, ma non sa cosa. Sa chi possa essere l’omicida, anzi ne è sicuro dopo aver giocato a poker, con quelli che in questo dramma hanno un ruolo, cioè gli amanti della Canarina. Ma il sapere chi sia, non significa nulla, perché egli al momento non ha modo di provare come quella persona possa essere accusata del suo omicidio, perché una situazione assolutamente lampante lo metterebbe fuorigioco: una persona, estranea al gioco, che era con lui e che affermerebbe anche sotto tortura, assolutamente in buona fede, che l’omicida era in sua compagnia, in un certo momento. Ecco allora perché va a bighellonare a casa della vittima, assieme a Markham. E’ proprio in questa situazione che gli si accende la lampadina.
Tra tutti i gusti, quelli musicali di Vance, qui, hanno una importanza determinante: infatti se Vance non fosse edotto e conoscitore di musica classica, la soluzione gli sfuggirebbe. Nondimeno è da mettere in rilievo come, dall’altra parte, se l’omicida avesse seguito un altro iter di pensiero, sicuramente Vance non avrebbe avuto modo di provare la sua colpevolezza.
Entra in gioco, quindi un altro elemento, nella definizione delle responsabilità: il Fato; a cui non si sfugge:
grammofono). Saputa la risposta, lo cerca con lo sguardo. Il grammofono è nell’anticamera;
su di esso è appoggiato un tappetino sormontato da una boccia per fiori.
Schifato dall’esteriorità priva di qualsiasi rilievo artistico e dettata solo dalla legge dell’apparenza, Vance si chiede quale musica mai sentisse La Canarina: “..Mi domando quali fossero i gusti musicali della signorina. Victor Herbert, senza dubbio”( idem, pag. 249).
Chi era Victor Herbert a quel tempo? Un compositore, animatore della vita musicale soprattutto newyorkese, autore di operette e anche di musiche molto conosciute, tipo “Serenades of All Nations”, cantate e danzate da ballerine. Comunque sia un tipo di musica alternativa a quella “seria”. Ecco che a questo punto si realizza il disegno del Fato che oppone la scelta sbagliata dell’omicida (ma sbagliata perché?) alla curiosità musicale di Vance:
Ecco perché nella soluzione de “La Canarina assassinata”, la propensione di Vance verso la sensibilità artistica, e soprattutto musicale, gioca un ruolo fondamentale. Non disgiunta, come abbiamo visto dalla casualità preordinata dal Fato.
Il Fato che è la Forza a cui soggiacciono uomini e dei; il Fato che, come un ingranaggio invisibile ma inesorabile, lega i soggetti alle loro azioni; il Fato infine che è l’interprete per antonomasia della grande tragedia greca. Questa, della Canarina, non è una grande tragedia ma una piccola. Pur sempre di tragedia tuttavia si tratta; e non di dramma. Il Dramma ha uno sfogo, che può essere positivo o negativo; la Tragedia invece non ha soluzioni positive: è sempre negativa, sia per gli innocenti che per i colpevoli. E qui i colpevoli e gli innocenti muoiono alla stessa maniera: è innocente Odell e colpevole X? Oppure è colpevole la prima e innocente il secondo? Niente di tutto questo: nel romanzo, colpevoli e innocenti si confondono, invece di esser ben demarcati.
E in quanto attori di una tragedia, i vari interpreti talora si muovono in quanto soggiogati da una volontà che è al di sopra di loro, e a cui non sfuggono.
Al Fato, per me, è collegato il riferimento musicale esplicitato dalla etichetta sul disco, l’Andante in Do minore, della 5^ Sinfonia di Beethoven: la tonalità di Do minore, che è di per sé una tonalità funerea, molto spesso usata per i Requiem (assieme al Re minore, più usuale), diventa in Beethoven la tonalità dell’eroe. La Sinfonia è però detta anche “del destino che bussa alla porta”: un altro riferimento al Fato. Al Destino. A qualcosa che sta per compiersi.
Alla fine del romanzo lo ammetterà lo stesso assassino che : “Ho pensato che se qualcuno, per qualunque evenienza, avesse aperto il grammofono prima che potessi tornare a distruggere il disco, difficilmente avrebbe desiderato ascoltare della musica classica, e avrebbe sicuramente optato per qualcosa di più popolare.
– E doveva trovarlo proprio uno che detesta la musica leggera! Temo…che un destino maligno abbia presieduto a questo suo gioco.
– Sì…se avessi delle inclinazioni religiose, potrei dire qualche sciocchezza sulla ricompensa e sul castigo divino.” (idem, pag. 261)
Di riferimenti musicali ve ne sono però anche altri, disseminati qua e là.
Intanto ve n’è uno che richiama Mozart. Nel cap. VII, leggiamo che la cameriera di Odell viene interrogata formalmente alla presenza di Vance da Markham e parla di un tale, un ex innamorato della Odell, che si vestiva all’ultima moda, che l’andava spesso a trovare e riusciva a scucirle sempre dei soldi.. Vance parlandone a Markham, poco dopo, usa un aggettivo italiano (nel testo il termine è scritto in italiano), assai poco usuale, che una persona che abbia una certa cultura, anche musicale, sentendolo, assocerà sempre a Mozart. Vance infatti dice: “..Quasi ogni Dalila dei giorni nostri ha un avido amoroso..” (idem, pag. 61).
L’aggettivo “amoroso” a me richiama in mente, subito, un’Aria di Mozart dall’Opera Le Nozze di Figaro, con cui termina il Primo Atto dell’Opera, e che comincia con : “Non più andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando; delle belle turbando il riposo Narcisetto, Adoncino d’amor”. E sicuramente al “farfallone” mozartiano vuole idealmente riferirsi Vance, anche se lui usa il termine “gigolò”, in riferimento al fatto che il personaggio nominato, chiedeva soldi alla Odell (ma non la ricattava).
Nella stessa frase potrebbe celarsi anche un altro riferimento musicale: Vance, associa a Odell, il nome “Dalila”. Sappiamo tutti che Dalila era la Filistea, quasi una Mata-Hari dei tempi nostri, che tramite la sua bellezza riuscì a far invaghire di sé Sansone: il riferimento potrebbe essere riferito tuttavia anche all’opera lirica di Camille Saint-Saens : “Samson et Dalila”, che durante la Stagione 1915/16, era stata rappresentata a New York, al Metropolitan Opera, con Margarete Matzenauer (Dalila) e Enrico Caruso (Sansone).
Poi vi sono altri due riferimenti musicali.
Il primo è un brano per pianoforte solo. Prima infatti che Vance si interessi al cestino della carta straccia, ha notato un pianoforte, e sedutosi, vi suona l’attacco del “Capriccio n.1” di Brahms.
Il Capriccio n.1 è il primo di otto brani dell’op.76. E’ in Fa diesis minore, una tonalità che potremmo definire “dolorosa”, talora anche “straziante”: il diesis è come se accentuasse il dolore del Fa minore portandolo ad un punto di non ritorno. Potrei anche dire che per taluni, il Fa diesis minore è la tonalità della tragedia, ma la cosa sembrerebbe troppo voluta. Limitiamoci quindi al brano in sé per sé. E’ un pezzo in arpeggi, di grado abbastanza difficile. Che significa? Che Vance non è un semplice amatore delle cose belle, non è un dilettante erudito, ma un colto professionista: il pianoforte lo sa suonare, e suona per di più un brano difficile. In altre parole, anche la musica, come la pittura, la scultura, le conoscenze in porcellane, tappeti, etc.. non vengono mai praticate da Philo Vance esteriormente, ma sempre con un grado di conoscenza che lo qualifica non solo nei confronti del volgo ignorante ma anche nei confronti di altri esteti come lui.
Il secondo riferimento musicale attiene ad una cosa che mi si è mostrata lampante e a cui anni fa, quando lessi per la prima volta il romanzo, non detti importanza : la somiglianza, sicuramente non casuale, tra Margaret Odell, ballerina in rapida ascesa, e l’alter ego della Principessa Odette, interprete del famoso balletto musicato da Tchaikowsky: Odile, il Cigno Nero, la figlia del mago Rothbart che vuole sostituirsi a Odette per rubargli l’amore del Principe Derek.
Odile-Odell, non sono solo due nominativi molto simili, ma che sono anche collegabili, la prima alla seconda, anche per il fatto che si richiamano a due volatili: un cigno ed una canarina. Come il Cigno Nero con le arti magiche fa in modo che Derek la veda come Odette, quindi il male si traveste da bene, anche Odell che sembrerebbe essere pura come il suo canto, in realtà ha l’anima nera come il peccato.
Odile-Odell sono ambedue rapportabili quindi a Odette e insieme formano una triade ideale: Odile-Odell-Odette.
Odile e Odell ambiscono ambedue a identificarsi in Odette. Se all’identificazione di Odile, abbiamo accennato, vi è tuttavia anche quella nascosta di Odell: infatti la Odette di Odell è lei stessa trasformata in un personaggio positivo, che la società accetta e riconosce.
Considerando i tre personaggi, possiamo vedere come ad essi sia singolarmente ma anche nell’ambito del loro rapporto vicendevole, possa applicarsi la “Teoria del Desiderio Mimetico” di René Girard, soprattutto quando verifichiamo meglio quali siano soggetto, oggetto e mediatore.
Girard, trovò la caratteristica comune nella letteratura: il Desiderio. Il desiderio non è mai espressione diretta del soggetto, ma è il riflesso del desiderio di qualcosa da parte di altri. Nella sua espressione si affrontano due momenti alternativi: quando l’oggetto del desiderio è lontano, il soggetto (che desidera quello che vuole il mediatore) ed il mediatore possono coesistere in pace; quando invece l’oggetto del desiderio tra i due è vicino, sul loro stesso piano, emerge una conflittualità.
Così possiamo applicare la Teoria del Desiderio Mimetico anche al romanzo in oggetto.
Innanzitutto prendiamo in esame la Triade: Odette è l’oggetto desiderato, sia da Odile che ambisce ad identificarvisi per rubarle l’amore di Derek, sia metaforicamente da Odell, che vorrebbe trasformarsi da insulsa Canarina in un Cigno e possedere l’amore di un principe come Odette. Quindi in questo caso avremmo la “Mediazione esterna”: Odell desidera di essere Odette, ed il mediatore del desiderio è Odile, che a sua volta ambisce a trasformarsi in Odette. Mediatore e soggetto, sono un qualcosa di incompiuto, e come tale ambiscono a trasformarsi nell’oggetto del desiderio, tramite un raggiro (Odile si trasforma in Odette grazie ad una illusione, Odell ambisce a trasformarsi in Odette grazie ad un ricatto). Siccome Odette è un desiderio che può essere lontano, i due personaggi non si scontrano sul piano ideale.
Tuttavia se andiamo a verificare i due casi singoli, la mediazione è ancor più evidente:
in Tchaikowsky, per esempio, il soggetto che desidera è Odile, l’oggetto desiderato è il Principe Derek, mentre il mediatore del desiderio è Odette. Secondo René Girard, ricadremmo nella cosiddetta “mediazione interna” caratterizzata da un elevato scontro di carattere sempre più violento e parossistico man mano che le due sfere, i due desideri che tendono al medesimo oggetto, venissero a contatto. Una caratterizzazione simile, però, la ritroviamo anche nel romanzo di Van Dine, e più precisamente nel rapporto che lega Margaret Odell al suo oggetto. Anche qui troviamo applicata la “mediazione interna”: Margaret Odell, il soggetto, brama l’oggetto, che è la stabilità economica e sociale. Questo è anche l’oggetto del mediatore “X”. I due, soggetto (Odell) e mediatore (X) vengono in contrasto sull’oggetto del contendere e questo contrasto è tanto più forte quanto maggiore è la brama del soggetto, cioè di Odell, di possederlo. Così vengono a scontrarsi la voglia di un nuovo status sociale con la volontà che la stabilità del vecchio, coincidente con gli affetti familiari di “X”, venga mantenuta. Il contrasto è tanto più alto e tanto più senza uscita, perchè per piegare le difesa di X, ci si serve del ricatto.
Odile-Odell sono unite anche da un altro rapporto: entrambe sono ballerine, ma il loro rapporto col ballo è antitetico: per la prima, Odile, dalla tragedia scaturisce il ballo; per la seconda, Odell, dal ballo scaturisce la tragedia, dalle amicizie che lei ha costruito sulla sua attività di ballerina.
Sempre legato alla musica è l’uso del grammofono, fino ad allora espressione di un mondo frivolo, salottiero, che uscito dalla Prima Guerra Mondiale non si era ancora affacciato a quella che sarà la Grande Depressione del 1929. Fino ad allora, nessuno aveva mai pensato di servirsene per altro scopo che non fosse stato quello di riprodurre musica; dopo Van Dine, invece…
Voglio ricordare innanzitutto Agatha Christie e il suo And Then There Were None del 1939: qui il procedimento che sottende all’uso del grammofono è inverso. Infatti così come in Van Dine l’uso del grammofono è quello di creare un’illusione, cioè dimostrare al portiere dell’albergo che a quell’ora, la Canarina era ancora viva (mentre non lo era più), quella che si potrebbe definire coloristicamente “una voce dall’Oltretomba”, in And Then There Were None di Agatha Christie, la voce di Mr. Owen (il padrone di casa) incisa su un disco, e amplificata dal grammofono, vanamente aspettato dai dieci presenti, ha il compito di creare un’illusione opposta, cioè dimostrare alle dieci persone presenti, che la persona che parla attraverso la voce registrata sul disco, non sia materialmente presente in mezzo a loro, cosa che invece è.
Se tuttavia la Christie si serve dell’espediente vandiniano piegandolo ai propri interessi, in altra occasione, precedente al romanzo della Christie, l’illusione del grammofono viene ricreata con un oggetto che negli anni ’30 aveva in gran parte soppiantato il primo: la radio. Se ne serve Clayton Rawson per generare altra illusione, in Death from a Top Hat, 1938. E ancora precedente ai due, un altro romanzo, nel 1930, era ricorso all’espediente della radio, collegata però a dei grammofoni occultati: The Invisibile Host, di Bristow & Manning.
Infine, talora, Vance fa sfoggio anche di letture colte. Un caso è quello presente nel cap. VIII, laddove Vance e Markham continuano a disquisire in merito alle impronte lasciate nella neve: “Grau, teurer Freund, ist alle Teorie” declama Philo Vance. Il passo è uno dei più famosi del Faust di Goethe. Ma è solo la metà quello che cita Vance. Il passo intero sarebbe : “Grau, teurer Freund, ist alle Teorie, Und grün des Lebens goldner Baum”, cioè letteralmente : “Caro amico, tutta la teoria è grigia, e verde l’albero d’oro della vita”. Vance cita però la prima parte perché da lui viene adattata al discorso che sta tenendo a Markham , che verte sull’assenza di impronte sulla neve e sulla mancanza di testimonianze su chi le avrebbe dovute lasciare, cioè su come Markham non possegga né prove dirette né prove indiziarie (=la teoria è grigia).
Non è il solo passo. Ve ne sono parecchi altri.
Per es. ad un certo punto del cap.10, dice: “Forse sì. Potrebbe figurare come un moderno Cayley Drummle”. Chi è Cayley Drummle? Si dovrebbe conoscere il dramma di Arthur Wing Pinero, The Second Mrs.Tanqueray per sapere chi fosse, ma né Van Dine né i traduttori lo dicono. Il primo non lo dice perché nel colloquio che tiene a Markham, il senso del discorso eventualmente viene compreso; e del resto se i riferimenti cui alludesse non fossero criptici, non si potrebbe alludere alla enciclopedica cultura di Van Dine; i secondi invece non sciolgono il quesito perché probabilmente non lo sanno e non ritengono per forza di andarsi a sobbarcare di un inutile onere (neanche riconosciuto nel pagamento della traduzione, immagino).
Il punto però è che il lettore medio che legge Van Dine, trovandosi dinanzi a queste digressioni, a questi rimandi colti, a queste citazioni, non è tenuto per forza ad avere pari enciclopediche virtù di Van Dine e di Philo Vance. Per cui o il traduttore è così sensibile da andarsi a documentare oppure il lettore o dovrà farlo se vorrà cogliere tutto quanto espresso da Van Dine oppure sarà costretto a saltare a piè pari quando si troverà costretto a tali imbarazzanti confronti.
Tutto ciò mi da modo di mettere in risalto il fatto che contrariamente a quanto si dice, i Gialli di S.S. Van Dine non sono affatto così facili da leggere; tutt’altro!
Ancora, leggiamo:
“– E’ piuttosto tardi, l’ammetto, ma perché non acciuffare il momento opportuno per i capelli, come consiglia Pittico?
Perde la fortuna chi lascia la sua morsa
poiché calva è dietro, l’occasion trascorsa”.
Ma Catone il Vecchio ha anticipato Cowley. Nei suoi “Disticha de moribus” ha scritto: Fronte capillata..” (pagg.80-81, op. cit., trad. Ferrari).
Il distico attribuito a Pittico capiamo che dev’essere messo in relazione con Cowley. Ma chi è costui, direbbe Don Abbondio? Nessuno ci dice che è uno dei più grandi poeti inglesi del Seicento.
Meno male che il capitolo 10 finisce con Catone il Vecchio di cui almeno viene citata la fonte del riferimento, “I Distici” (anche se attualmente una parte della critica mette in dubbio che l’autore sia proprio Catone il Vecchio).
Così sappiamo che Vance, volendo cogliere l’occasione propizia al volo, il momento opportuno, non cita né Lorenzo il Magnifico né tantomeno Orazio (perché l’occasione propizia, il momento opportuno legato alla fortuna non è proprio pari al Carpe Diem nei due autori), ma Abraham Cowley e Marco Porcio Catone: il riferimento di Cowley risiede proprio nel distico catoniano: “Rem, tibi quam noris aptam, dimittere noli: Fronte capillata, post est Occasio calva” (Non permettono ciò che consideri buono per le tue fughe; l’occasione ha i capelli sulla fronte, ma dietro è calva” Distici, Libro 1, 2,26).
Perché? Neanche questo dice Van Dine. Perché si aspetta che il suo lettore lo sappia o lo immagini: il fatto è che il distico catoniano è da mettere in relazione con la Dea Fortuna secondo i romani: cioè i capelli appesi sulla fronte e la nuca calva, oltre che essere sinonimi di giovinezza e vecchiaia, lo sono anche di buona e cattiva fortuna. Tuttavia “occasione=occasio” è espressa con il sostantivo latino che comincia con maiuscola, a significare un nome, che si riferisce ad una dea, l’Occasione, messa in relazione con quella greca Kairos (καιρός), una divinità minore del tempo:“il momento opportuno”.
Un breve discorso a parte merita invece il passo:
“– Forse perché ne era innamorato – sorrise Markham.
– Un po’ come Ambra, eh?..
Pronta era Ambra prima di chiamarla:
Ambra venne, che un’altra io chiamavo”.
Neanche del distico inserito, Van Dine attraverso Vance informa il lettore. E siccome il traduttore di turno non si pone il problema cosa stia traducendo, ecco che il lettore deve accettare senza capire nulla o quasi di ciò che legge. Siccome io leggo sempre tutto il testo e mi soffermo sui passi, mi son posto il problema che altri non si son posti: chi era Ambra? Una creatura mitologica amata da Ombrone. Mi son ricordato di un poemetto in ottave che compose Lorenzo il Magnifico e che si chiamava Ambra. Possibile che..?
No. Non si tratta di quel poemetto. E allora..? A questo punto sento il bisogno di confrontare il passo originale: Van Dine ha scritto veramente Ambra oppure altro?
Mi corre in aiuto un mio amico d’oltreoceano, John Norris, blogger come il sottoscritto, che mi fornisce il distico in lingua americana (prima edizione, Scribner, 1927):
“Abra was ready ere I called her name;
And, though I called another, Abra came.”
Abra quindi, non Ambra. Perché abbiano tutti tradotto Abra come Ambra è un mistero: Ambra in inglese (e americano) si dice Amber, non Abra.
Ecco allora che la provenienza è diversa: Solomon on the Vanity of the World. Book II, Verso 364, di Matthew Prior, un grande poeta inglese vissuto a cavallo tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, che viene immediatamente prima di Alexander Pope (chi fosse interessato al poema, ecco il link, perché è di pubblico dominio: http://www.poetrycat.com/matthew-prior/solomon-on-the-vanity-of-the-world-a-poem-in-three-books—pleasure-book-ii.).
Vance quindi modello di eleganza, di sensibilità artistica, di conoscenza della musica, di conoscenze letterarie, tanti concetti compresi in uno solo: erudizione, che in questo romanzo (anzi, nei romanzi) di Van Dine, è presente in gran quantità. Ciò può essere divertente, interessante, ma anche talora irritante.
Non diremmo noi stessi, impegnati a leggere le avventure di Philo Vance, in fondo, quello che dice il suo interlocutore ?
“Andiamo! – supplicò Markham alzandosi. – Qualunque cosa pur di arginare questo profluvio di erudizione” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case, La Canarina assassinata – trad. Pietro Ferrari, I Gialli del Lunedì, L’Unità/Mondadori, pag. 81).
La traduzione di questo volume dei bassotti è di Pietro Ferrari, già Mondadori.
PIETRO DE PALMA
Quando lo scrisse, Wilard Huntigdon Wright, aveva già pubblicato The Benson Murder Case, 1926 “La strana morte del Signor Benson”, romanzo che aveva ottenuto un buon successo. Ma è senza dubbio proprio con The Canary Murder Case, 1927 “La Canarina assassinata” e poi con The Greene Murder Case, 1928, “La Tragedia di Casa Greene”, che si impose come il più grande autore della sua epoca: due romanzi che fecero scuola.
Antitetici è bene dirlo: così come “La Tragedia di Casa Greene” è una vicenda di morte che si svolge claustrofobicamente in una dimora in cui sono costretti a vivere gli eredi di una fortuna, ed in cui aleggia dal primo all’ultimo istante un’atmosfera greve e plumbea, ne “La Canarina Assassinata”, l’atmosfera è invece frivola e salottiera, molto più leggera, ma al tempo stesso complicata.
I tre romanzi assieme formano una ideale trilogia
Da un certo punto di vista, si può dire, a mio parere, che sia uno dei più grandi romanzi polizieschi che siano mai stati concepiti. Oggi, che le soluzioni vandiniane sono state fatte proprie e poi superate da tanti grandi scrittori a lui successivi, Van Dine sembra essere Pollicino, e a taluni le sue soluzioni fanno ridere. Invece, non si può pensare alla letteratura poliziesca degli anni ’30, senza inchinarsi reverenzialmente dinanzi a Van Dine. Perché senza di lui non ci sarebbero stati Ellery Queen, Charles Daly King, il primo Rex Stout.
E dei romanzi di Van Dine, i due che hanno avuto più influsso sui posteri sono stati proprio The Canary Murder Case e The Greene Murder Case. In particolare The Canary Murder Case, ebbe un effetto dirompente all’epoca: fu in testa per parecchi mesi alle classifiche dei libri più letti.
Julian Symons nella sua opera critica più famosa, Bloody Murder, riportò il giudizio di un altro critico, Howard Haycraft, scrivendo che “ ..his second book, The Canary Murder Case 1927, broke all modern publishing records for detective fiction at the time” (Julian Symons, Bloody Murder, Penguin Books, 1985, pag.101).
Più in là a testimoniare il grandissimo successo riportato da questo romanzo e dal successivo romanzo, che sconvolsero la letteratura poliziesca del tempo, dominata dagli autori britannici, Symons affermava che “It was said that he had lifted the detective story on to the plane of a fine art, and by his own account he was the favorite crime writer of two Presidents” (op. cit. pag. 102).
Ma perché The Canary Murder Case ebbe tutto questo successo? Analizziamo la storia.
Innanzitutto chi è la Canarina? Prendendo a prestito la stessa prosa di Wilard Huntigdon Wright “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto ornitologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della canarina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e rosea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu promossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.
Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luoghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popolarmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo appartamento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case,“La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7).
La Canarina è Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B, di night club, che è poi diventata famosissima in certi ambienti di Broadway. Conosce il suo ruolo e sa quale sia anche il giudizio che le riservano negli ambienti borghesi di cui lei rappresenta il richiamo: nel balletto non fa altro che fare il verso ad un uccello e mostrare le gambe. Ma si illude di poter scalare la società e conquistare un suo posto importante. E’ un po’ lo stesso discorso che fa la puttana di un Bordello di lusso (la prostituta sogna un amore impossibile con un bel cliente che oltre che utilizzarla per il suo piacere, la introduca nel mondo “normale”) il discorso di Margaret Odell, che, finito lo spettacolo, si ritrova nel grigiore della vita i ogni giorno, da cui esce temporaneamente solo nel volgere di uno spettacolo in cui uomini facoltosi in ghette, cilindro e marsina, fanno la coda per vederla , magari dondolarsi su un’altalena, su un trespolo, su cui lei, La Canarina, mostra le gambe.
E’ chiaro quindi che Margaret Odell, come farebbe una qualsiasi mantenuta, cerchi qualcuno che le assicuri, almeno nel suo mondo fatto di lustrini e pailettes, una certa onorabilità e almeno l’illusione di aver scalato quella società che invece non la accetterà mai. E’ la società degli anni ‘venti, in cui la grande crisi economica portò sul lastrico decine di migliaia di persone, ma che favorì anche l’arricchimento maggiore di chi già era ricco.
La Canarina ha molte amicizia maschili e non lo nega: i suoi accompagnatori la sfoggiano come oggi si farebbe con una Ferrari Testarossa, le altre donne la invidiano o ne parlano male, lo immaginiamo, ma lei pensa di poter usare queste amicizie, per i suoi scopi, che sono quelli di far carriera. Ha raccolto le confessioni di chi stava tra le sue gambe, ed un bel giorno decide di far il gran passo: decide di forzare la mano ad uno dei suoi amanti, e metterlo con le spalle contro il muro. E’ facile pensare, e poi lo si saprà, a cosa aspiri La Canarina: non vuol più essere “La Canarina”, ma una signora del Jet-Set, appartenere a quell’ambiente di cui ha conosciuto “tanti validi esponenti”. Solo che non capisce una cosa molto semplice: chi mai sposerebbe una “Canarina”? Ma lei si illude. E come tale resta vittima dei suoi stessi sogni.
Un bel giorno “La Canarina” vien ritrovata morta, assassinata, strangolata.
L’immagine che ne da Van Dine è terribile:
“Il capo era rivolto all’indietro, come per una costrizione violenta…i capelli, disciolti, ricadevano dalla nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato; aveva perso ogni bellezza; la pelle era esangue, gli occhi vitrei; la bocca era aperta e le labbra convulse. Il collo, sui due lati della cartilagine tiroidea, mostrava orribili lividi scuri. La Canarina indossava un leggero abito da sera di pizzo Chantilly nero sopra ad uno chiffon color crema. Sul bracciolo del divano aveva gettato una cappa di un tessuto dorato, bordata di ermellino…a parte i capelli arruffati, una delle spalline dell’abito era stata strappata e il sottile pizzo del corpetto si era aperto in un lungo squarcio..una scarpetta di satin si era sfilata ed il ginocchio destro era contorto in dentro vero il divano, come se la poveretta avesse cercato di liberarsi dalla soffocante morsa del suo antagonista: Le sue dita erano ancora piegate,senza dubbio come nel momento in cui si era arresa alla morte” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag.22-23).
Dal sopralluogo effettuato dalla polizia emerge che mancano dei gioielli, che invece avrebbero dovuto esserci, secondo quanto afferma la sua domestica: quindi si è portati a identificare l’assassinio, come l’effetto di una rapina, o di un furto in appartamento, finito male (per Odell).
Tuttavia, questo è il giudizio della polizia per bocca del Procuratore Distrettuale di New York, F.X. Markham, che conduce le indagini. Di diverso avviso sarà il giudizio di Philo Vance, amico del Procuratore, osservatore imparziale e di geniali intuizioni, che salverà anche questa volta la Polizia da una figuraccia, e che invece sonderà una strada che nessuno aveva intravisto.
Philo Vance è una evoluzione di Sherlock Holmes, radicale: se eredita da Holmes l’attenzione ai particolari, agli indizi, non è però un applicatore integerrimo di essi. Infatti gli indizi che magari porterebbero a orientare le indagini in un certo verso, devono accordarsi ad una ricostruzione psicologica che in base ad essi spieghi tutti i quid rimasti insoluti. E per far questo, Philo Vance, diversamente da Sherlock Holmes, sonda l’anima e la mente dell’uomo, con l’attenzione che il buon Conan Doyle non aveva contemplato per il suo Sherlock Holmes. Si raffrontano così due diversi ideali: quello umanistico, attento alla psicologia e alle altre arti scaturenti dalla passione e dal gusto (Pittura, Scultura, Musica) di Philo Vance; e quello scientifico, analitico, di Sherlock Holmes.
Tuttavia, Philo Vance, osserva alcuni particolari, e in virtù della sua capacità di vedere al di là del mero indizio, ne dà una spiegazione tale che la visione di un omicidio susseguente ad un tentativo di rapina finisce per crollare miseramente.
Normalmente, quando si parla di questo romanzo, tutti individuano la sottigliezza del ragionamento di Van Dine, nella spiegazione della Camera Chiusa, in effetti “immaginifica”: spiegare non tanto come l’assassino e il testimone siano potuti entrare, quanto come essi siano potuti uscire, visto che il portiere quando va via, spranga sempre dal di dentro il portoncino che porta nel cortile interno al palazzo (l’uscita posteriore) con un chiavistello, in tale maniera che chiunque entri nel palazzo stesso, dopo la sua uscita, debba passare per forza davanti al centralinista, impressiona; e impressionò in quel tempo, moltissimo.
Ma ancor di più impressionò il pubblico dei lettori (e dei critici) l’aver inventato un modo che dilazionasse in avanti nel tempo l’azione delittuosa, cioè dopo che il suo accompagnatore della sera assieme al centralinista l’avessero sentita parlar e rispondere alle domande fatte da loro fuori della porta.
Se tuttavia la soluzione della Camera Chiusa e l’espediente per far apparire accaduto dopo, un omicidio che era stato invece commesso prima, rappresentano i mezzi con cui l’investigatore inchioda l’assassino, e che sono messi in chiaro da chiunque analizzi questo romanzo, pochi, pochissimi o nessuno, hanno esaminato gli altri momenti della deduzione vandiniana.
Secondo me, un altro momento in cui Van Dine impressiona il lettore è quando fa argomentare Vance molto molto sottilmente, sulla posizione relativa al corpo della vittima e sugli strappi subiti dai suoi abiti: se davvero Margaret Odell fosse stata affrontata in un corpo a corpo, immaginando che si sarebbe difesa con tutte le proprie forze, per quale motivo un innocente mazzolino, che le è stato ritrovato in grembo, non sarebbe stato scagliato altrove? Per terra, per esempio? E inoltre se così fosse stato, il collo non sarebbe stato rivolto all’indietro, ma la vittima sarebbe dovuta cadere avanti. Quindi… il delitto non si è consumato così, e si è tentato, con una messinscena, di depistare le indagini: lo strangolamento è avvenuto dal di dietro, quando la vittima non si aspettava che chi le stava dietro la strangolasse, ergo si fidava di lui/lei. Ma ci sono gli strappi del vestito! Altra messinscena: gli strappi sono stati fatti post-mortem per confondere il ragionamento degli investigatori.
Secondo ragionamento molto sottile è quello, concernente la chiave dell’armadio: per quale motivo essa è posta internamente all’armadio, quando comunemente essa invece dovrebbe esser infilata nella serratura esternamente?
C’erano quindi, quella sera, in quella stanza, tre persone: Margaret Odell e due altre persone, di cui una nascosta nell’armadio. Chi è stato l’assassino e chi il testimone? L’assassino ha anche rubato in un secondo tempo, oppure è stato l’altro a rubare? Le due persone presenti nell’appartamento, nei loro diversi ruoli, sono legate ad un altro ragionamento che si fa largo allorché Philo Vance nota come un porta-documenti sia vuoto, e come un portagioie di acciaio sia stato apparentemente forzato con un attizzatoio di ghisa: se davvero ci fosse stato un ladro avrebbe certamente usato uno strumento più idoneo per far saltare il coperchio, piuttosto che usare un attizzatoio. Tanto più che un esperto chiamato da Vance ne corrobora la tesi: che cioè vi son stati due momenti diversi nell’effrazione: quello rozzo con l’attizzatoio, che non ha sortito altri effetti se non di ammaccare il coperchio, e quello altamente professionale, effettuato con uno strumento di acciaio, probabilmente un grimaldello. Perché mai si sarebbe dovuto portare dalla camera vicina un attizzatoio inadeguato a far quello che ha fatto il grimaldello?
In parole povere, Vance postula l’azione in due momenti separati, da parte di due diverse persone. Ecco una primo fatto accertato, di grande importanza: nell’appartamento, quella sera, la sera del sabato, due persone sono state lì, probabilmente in un tempo successivo alla morte della Canarina. Il che non vuol dire necessariamente che entrambi avessero partecipato all’omicidio.
Fatto sta che il secondo ignoto visitatore sarà ucciso e solo dopo la sua morte Vance, individuando l’espediente per ritardare la morte, darà un volto all’assassino. In questo caso l’espediente sarà direttamente messo in relazione all’attività dell’assassino.
Secondo me, fu proprio questo espediente, e non invece la soluzione della Camera Chiusa, a determinare il successo del romanzo. La ragione? L’espediente era legato ad un oggetto, che in quei tempi, negli Anni Venti, stava vivendo un’affermazione roboante e che era uno degli status symbol di una famiglia agiata, almeno di posizione sociale borghese. Un oggetto legato alla musica. Era difficile, assai difficile per non dire impossibile che una famiglia operaia o di assai modeste condizioni coltivasse la musica, mentre in una famiglia di estrazione medio-alto borghese la musica era una delle componenti anche sociali che le permettevano distinguersi da un’altra inferiore.
E non è un caso che accadesse che proprio Philo Vance si interessasse a quell’oggetto, disdegnato dagli altri rappresentanti dell’ordine, dall’ottuso Sergente Heath al troppo conformista Procuratore Markham.
Ma perché Philo Vance sì e gli altri no? Perché Philo Vance è un esteta, è interessato a quelle arti che per il povero Markham non rappresentano invece alcuna fonte di diletto. Vance è un individuo superiore, un cavaliere, un principe rinascimentale, superiore a tutti, anche al procuratore Markham: il solo che gli possa stare alla pari è Van Dine stesso, rinchiuso nella corazza del segretario.scudiero narratore delle sue gesta.
L’esser un coltivatore di arti lo mette su un gradino più altro del volgo con cui si rapporta.
Philo Vance è l’immagine del Super Uomo Nietzschiano, di cui Wilard Huntigdon Wright era profondo conoscitore, avendo curato la prima edizione integrale americana delle opere del pensatore tedesco. Proprio queste arti o i giochi che egli pratica (il gioco degli scacchi, che è strumento dell’arte del pensiero, del ragionamento, sarà alla base di The Bishop Murder Case; mentre il poker giocherà un certo ruolo nella classificazione psicologica dell’omicida, in The Canary Murder Case).
Individuo in questo romanzo 4 caratteristiche peculiari di Vance: la deduzione (soluzione della Camera Chiusa), la psicologia (il ragionamento che scaturisce dalla partita a poker), la curiosità (la scoperta dell’imballo dei dischi in un cestino della carta straccia), la sensibilità artistica.
Infatti, al di là di come egli dimostri in maniera incontrovertibile il modo per uscire dal portoncino lasciando il chiavistello chiuso dall’interno; al di là del fatto che egli usi l’elemento psicologico derivante da una partita a poker per insinuare la colpevolezza di una certa persona, non riuscirebbe mai a provare le sue accuse se…un elemento puramente casuale non gli desse una mano.
Può un fattore affidato al caso avere la meglio sulla psicologia finissima e sulla superiore deduzione di Philo Vance? E’ questo il punto. NO.
Eppure in questo caso, la superiorità potrebbe esser affermata. Tuttavia, metto in rilievo come la personalità di Philo Vance sia determinata dall’unione di una molteplicità di fattori (le 4 caratteristiche peculiari) : tra questi la sensibilità artistica ha un peso assolutamente non indifferente, e nel caso nostro è assolutamente determinante. Sensibilità artistica che in questo romanzo, pur facendo capolino qua e là, come se si nascondesse per non essere inquadrata come elemento caratterizzante del tutto, nel finale gioca un ruolo di primo piano.
Tutto questo per affermare cosa? Semplicemente che in questo romanzo, cosa trascurata colpevolmente da molti critici, il fattore più importanti di tutti, per determinare la colpevolezza di una tale persona in rapporto ad altre, è proprio la sensibilità artistica di Philo Vance. Che è sensibilità letteraria (di citazioni se ne trovano a bizzeffe, sia di opere latine, che francesi, tedesche), sensibilità verso le arti figurative, scultoree e di altri tipi di manufatti artistici, es. i tappeti, le porcellane. E ancor più, direi più manifestatamene in questo romanzo, la sensibilità artistica di Vance è sensibilità musicale.
Nel vissuto dell’indagine, si può apprezzare il peso della sensibilità artistica di Vance, nelle sue valutazioni relative alla idiozia di usare delle pergamente per confezionare un cestino per la carta straccia, poi alla fattura dei tappeti, e infine in valutazioni di tipo musicale.
Philo Vance è nell’appartamento della Canarina. E’ alla ricerca di qualcosa, ma non sa cosa. Sa chi possa essere l’omicida, anzi ne è sicuro dopo aver giocato a poker, con quelli che in questo dramma hanno un ruolo, cioè gli amanti della Canarina. Ma il sapere chi sia, non significa nulla, perché egli al momento non ha modo di provare come quella persona possa essere accusata del suo omicidio, perché una situazione assolutamente lampante lo metterebbe fuorigioco: una persona, estranea al gioco, che era con lui e che affermerebbe anche sotto tortura, assolutamente in buona fede, che l’omicida era in sua compagnia, in un certo momento. Ecco allora perché va a bighellonare a casa della vittima, assieme a Markham. E’ proprio in questa situazione che gli si accende la lampadina.
Tra tutti i gusti, quelli musicali di Vance, qui, hanno una importanza determinante: infatti se Vance non fosse edotto e conoscitore di musica classica, la soluzione gli sfuggirebbe. Nondimeno è da mettere in rilievo come, dall’altra parte, se l’omicida avesse seguito un altro iter di pensiero, sicuramente Vance non avrebbe avuto modo di provare la sua colpevolezza.
Entra in gioco, quindi un altro elemento, nella definizione delle responsabilità: il Fato; a cui non si sfugge:
- è il Fato a dettare il fatto che l’omicida abbia buttato una confezione nel cestino della carta straccia; ma, se questo fosse stato un cestino qualunque, Vance non si sarebbe interessato ad esso: egli nota che è fatto di pergamena. Per un altro questo particolare non significherebbe nulla, ma per uno come lui che ha una sensibilità innata per tutto ciò che è bello e fine, esteticamente parlando, quel cestino di pergamena è un affronto. Quindi decide di guardarvi dentro, e trova uno sgualcito foglio di carta da pacchi ed un largo involucro quadrato marrone.
- Se Vance non si interessasse di musica, non frequentasse i teatri e non si recasse a sentire concerti, non potrebbe arguire che si tratti di un involucro di dischi. A questo punto ecco che si affaccia il fantasma della musica: sarà la predisposizione musicale e i gusti dell’assassino e del detective a sancire la soluzione dell’enigma.
grammofono). Saputa la risposta, lo cerca con lo sguardo. Il grammofono è nell’anticamera;
su di esso è appoggiato un tappetino sormontato da una boccia per fiori.
- Se Vance non fosse stato un esperto d’arte, non si sarebbe mai interessato a quel tappeto. Ma è anche da mettere in rilievo che se l’omicida per evitare che qualcuno guardasse dentro il grammofono non avesse messo un tappetino ed una boccia per fiori, probabilmente l’attenzione di Vance non sarebbe stata catturata. Egli nota infatti che è “..anatolico, probabilmente spacciato per un tappeto del Kaysari per ragioni puramente commerciali. Non vale un granchè, troppo simile al tipo Ushak..” (S.S. Van Dine, “La Canarina
Schifato dall’esteriorità priva di qualsiasi rilievo artistico e dettata solo dalla legge dell’apparenza, Vance si chiede quale musica mai sentisse La Canarina: “..Mi domando quali fossero i gusti musicali della signorina. Victor Herbert, senza dubbio”( idem, pag. 249).
Chi era Victor Herbert a quel tempo? Un compositore, animatore della vita musicale soprattutto newyorkese, autore di operette e anche di musiche molto conosciute, tipo “Serenades of All Nations”, cantate e danzate da ballerine. Comunque sia un tipo di musica alternativa a quella “seria”. Ecco che a questo punto si realizza il disegno del Fato che oppone la scelta sbagliata dell’omicida (ma sbagliata perché?) alla curiosità musicale di Vance:
- Se Vance non fosse stato un amante della Musica colta non sarebbe mai stato attratto da Beethoven: “…Parola mia! L’Andante della Sinfonia in Do minore di Beethoven! –esclamò allegramente. – Conosci sicuramente il motivo, Markham. Il più perfetto andante che sia mai stato scritto!” (idem, pag. 249). La sorpresa di Vance è ancora più marcata in quanto fino ad allora ha notato un senso estetico della Canarina quanto mai riprovevole ai suoi occhi: quindi i gusti musicali di Odell, Beethoven, sono per lui uno shock..positivo. E decide di sentire il disco.
Ecco perché nella soluzione de “La Canarina assassinata”, la propensione di Vance verso la sensibilità artistica, e soprattutto musicale, gioca un ruolo fondamentale. Non disgiunta, come abbiamo visto dalla casualità preordinata dal Fato.
Il Fato che è la Forza a cui soggiacciono uomini e dei; il Fato che, come un ingranaggio invisibile ma inesorabile, lega i soggetti alle loro azioni; il Fato infine che è l’interprete per antonomasia della grande tragedia greca. Questa, della Canarina, non è una grande tragedia ma una piccola. Pur sempre di tragedia tuttavia si tratta; e non di dramma. Il Dramma ha uno sfogo, che può essere positivo o negativo; la Tragedia invece non ha soluzioni positive: è sempre negativa, sia per gli innocenti che per i colpevoli. E qui i colpevoli e gli innocenti muoiono alla stessa maniera: è innocente Odell e colpevole X? Oppure è colpevole la prima e innocente il secondo? Niente di tutto questo: nel romanzo, colpevoli e innocenti si confondono, invece di esser ben demarcati.
E in quanto attori di una tragedia, i vari interpreti talora si muovono in quanto soggiogati da una volontà che è al di sopra di loro, e a cui non sfuggono.
Al Fato, per me, è collegato il riferimento musicale esplicitato dalla etichetta sul disco, l’Andante in Do minore, della 5^ Sinfonia di Beethoven: la tonalità di Do minore, che è di per sé una tonalità funerea, molto spesso usata per i Requiem (assieme al Re minore, più usuale), diventa in Beethoven la tonalità dell’eroe. La Sinfonia è però detta anche “del destino che bussa alla porta”: un altro riferimento al Fato. Al Destino. A qualcosa che sta per compiersi.
Alla fine del romanzo lo ammetterà lo stesso assassino che : “Ho pensato che se qualcuno, per qualunque evenienza, avesse aperto il grammofono prima che potessi tornare a distruggere il disco, difficilmente avrebbe desiderato ascoltare della musica classica, e avrebbe sicuramente optato per qualcosa di più popolare.
– E doveva trovarlo proprio uno che detesta la musica leggera! Temo…che un destino maligno abbia presieduto a questo suo gioco.
– Sì…se avessi delle inclinazioni religiose, potrei dire qualche sciocchezza sulla ricompensa e sul castigo divino.” (idem, pag. 261)
Di riferimenti musicali ve ne sono però anche altri, disseminati qua e là.
Intanto ve n’è uno che richiama Mozart. Nel cap. VII, leggiamo che la cameriera di Odell viene interrogata formalmente alla presenza di Vance da Markham e parla di un tale, un ex innamorato della Odell, che si vestiva all’ultima moda, che l’andava spesso a trovare e riusciva a scucirle sempre dei soldi.. Vance parlandone a Markham, poco dopo, usa un aggettivo italiano (nel testo il termine è scritto in italiano), assai poco usuale, che una persona che abbia una certa cultura, anche musicale, sentendolo, assocerà sempre a Mozart. Vance infatti dice: “..Quasi ogni Dalila dei giorni nostri ha un avido amoroso..” (idem, pag. 61).
L’aggettivo “amoroso” a me richiama in mente, subito, un’Aria di Mozart dall’Opera Le Nozze di Figaro, con cui termina il Primo Atto dell’Opera, e che comincia con : “Non più andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando; delle belle turbando il riposo Narcisetto, Adoncino d’amor”. E sicuramente al “farfallone” mozartiano vuole idealmente riferirsi Vance, anche se lui usa il termine “gigolò”, in riferimento al fatto che il personaggio nominato, chiedeva soldi alla Odell (ma non la ricattava).
Nella stessa frase potrebbe celarsi anche un altro riferimento musicale: Vance, associa a Odell, il nome “Dalila”. Sappiamo tutti che Dalila era la Filistea, quasi una Mata-Hari dei tempi nostri, che tramite la sua bellezza riuscì a far invaghire di sé Sansone: il riferimento potrebbe essere riferito tuttavia anche all’opera lirica di Camille Saint-Saens : “Samson et Dalila”, che durante la Stagione 1915/16, era stata rappresentata a New York, al Metropolitan Opera, con Margarete Matzenauer (Dalila) e Enrico Caruso (Sansone).
Poi vi sono altri due riferimenti musicali.
Il primo è un brano per pianoforte solo. Prima infatti che Vance si interessi al cestino della carta straccia, ha notato un pianoforte, e sedutosi, vi suona l’attacco del “Capriccio n.1” di Brahms.
Il Capriccio n.1 è il primo di otto brani dell’op.76. E’ in Fa diesis minore, una tonalità che potremmo definire “dolorosa”, talora anche “straziante”: il diesis è come se accentuasse il dolore del Fa minore portandolo ad un punto di non ritorno. Potrei anche dire che per taluni, il Fa diesis minore è la tonalità della tragedia, ma la cosa sembrerebbe troppo voluta. Limitiamoci quindi al brano in sé per sé. E’ un pezzo in arpeggi, di grado abbastanza difficile. Che significa? Che Vance non è un semplice amatore delle cose belle, non è un dilettante erudito, ma un colto professionista: il pianoforte lo sa suonare, e suona per di più un brano difficile. In altre parole, anche la musica, come la pittura, la scultura, le conoscenze in porcellane, tappeti, etc.. non vengono mai praticate da Philo Vance esteriormente, ma sempre con un grado di conoscenza che lo qualifica non solo nei confronti del volgo ignorante ma anche nei confronti di altri esteti come lui.
Il secondo riferimento musicale attiene ad una cosa che mi si è mostrata lampante e a cui anni fa, quando lessi per la prima volta il romanzo, non detti importanza : la somiglianza, sicuramente non casuale, tra Margaret Odell, ballerina in rapida ascesa, e l’alter ego della Principessa Odette, interprete del famoso balletto musicato da Tchaikowsky: Odile, il Cigno Nero, la figlia del mago Rothbart che vuole sostituirsi a Odette per rubargli l’amore del Principe Derek.
Odile-Odell, non sono solo due nominativi molto simili, ma che sono anche collegabili, la prima alla seconda, anche per il fatto che si richiamano a due volatili: un cigno ed una canarina. Come il Cigno Nero con le arti magiche fa in modo che Derek la veda come Odette, quindi il male si traveste da bene, anche Odell che sembrerebbe essere pura come il suo canto, in realtà ha l’anima nera come il peccato.
Odile-Odell sono ambedue rapportabili quindi a Odette e insieme formano una triade ideale: Odile-Odell-Odette.
Odile e Odell ambiscono ambedue a identificarsi in Odette. Se all’identificazione di Odile, abbiamo accennato, vi è tuttavia anche quella nascosta di Odell: infatti la Odette di Odell è lei stessa trasformata in un personaggio positivo, che la società accetta e riconosce.
Considerando i tre personaggi, possiamo vedere come ad essi sia singolarmente ma anche nell’ambito del loro rapporto vicendevole, possa applicarsi la “Teoria del Desiderio Mimetico” di René Girard, soprattutto quando verifichiamo meglio quali siano soggetto, oggetto e mediatore.
Girard, trovò la caratteristica comune nella letteratura: il Desiderio. Il desiderio non è mai espressione diretta del soggetto, ma è il riflesso del desiderio di qualcosa da parte di altri. Nella sua espressione si affrontano due momenti alternativi: quando l’oggetto del desiderio è lontano, il soggetto (che desidera quello che vuole il mediatore) ed il mediatore possono coesistere in pace; quando invece l’oggetto del desiderio tra i due è vicino, sul loro stesso piano, emerge una conflittualità.
Così possiamo applicare la Teoria del Desiderio Mimetico anche al romanzo in oggetto.
Innanzitutto prendiamo in esame la Triade: Odette è l’oggetto desiderato, sia da Odile che ambisce ad identificarvisi per rubarle l’amore di Derek, sia metaforicamente da Odell, che vorrebbe trasformarsi da insulsa Canarina in un Cigno e possedere l’amore di un principe come Odette. Quindi in questo caso avremmo la “Mediazione esterna”: Odell desidera di essere Odette, ed il mediatore del desiderio è Odile, che a sua volta ambisce a trasformarsi in Odette. Mediatore e soggetto, sono un qualcosa di incompiuto, e come tale ambiscono a trasformarsi nell’oggetto del desiderio, tramite un raggiro (Odile si trasforma in Odette grazie ad una illusione, Odell ambisce a trasformarsi in Odette grazie ad un ricatto). Siccome Odette è un desiderio che può essere lontano, i due personaggi non si scontrano sul piano ideale.
Tuttavia se andiamo a verificare i due casi singoli, la mediazione è ancor più evidente:
in Tchaikowsky, per esempio, il soggetto che desidera è Odile, l’oggetto desiderato è il Principe Derek, mentre il mediatore del desiderio è Odette. Secondo René Girard, ricadremmo nella cosiddetta “mediazione interna” caratterizzata da un elevato scontro di carattere sempre più violento e parossistico man mano che le due sfere, i due desideri che tendono al medesimo oggetto, venissero a contatto. Una caratterizzazione simile, però, la ritroviamo anche nel romanzo di Van Dine, e più precisamente nel rapporto che lega Margaret Odell al suo oggetto. Anche qui troviamo applicata la “mediazione interna”: Margaret Odell, il soggetto, brama l’oggetto, che è la stabilità economica e sociale. Questo è anche l’oggetto del mediatore “X”. I due, soggetto (Odell) e mediatore (X) vengono in contrasto sull’oggetto del contendere e questo contrasto è tanto più forte quanto maggiore è la brama del soggetto, cioè di Odell, di possederlo. Così vengono a scontrarsi la voglia di un nuovo status sociale con la volontà che la stabilità del vecchio, coincidente con gli affetti familiari di “X”, venga mantenuta. Il contrasto è tanto più alto e tanto più senza uscita, perchè per piegare le difesa di X, ci si serve del ricatto.
Odile-Odell sono unite anche da un altro rapporto: entrambe sono ballerine, ma il loro rapporto col ballo è antitetico: per la prima, Odile, dalla tragedia scaturisce il ballo; per la seconda, Odell, dal ballo scaturisce la tragedia, dalle amicizie che lei ha costruito sulla sua attività di ballerina.
Sempre legato alla musica è l’uso del grammofono, fino ad allora espressione di un mondo frivolo, salottiero, che uscito dalla Prima Guerra Mondiale non si era ancora affacciato a quella che sarà la Grande Depressione del 1929. Fino ad allora, nessuno aveva mai pensato di servirsene per altro scopo che non fosse stato quello di riprodurre musica; dopo Van Dine, invece…
Voglio ricordare innanzitutto Agatha Christie e il suo And Then There Were None del 1939: qui il procedimento che sottende all’uso del grammofono è inverso. Infatti così come in Van Dine l’uso del grammofono è quello di creare un’illusione, cioè dimostrare al portiere dell’albergo che a quell’ora, la Canarina era ancora viva (mentre non lo era più), quella che si potrebbe definire coloristicamente “una voce dall’Oltretomba”, in And Then There Were None di Agatha Christie, la voce di Mr. Owen (il padrone di casa) incisa su un disco, e amplificata dal grammofono, vanamente aspettato dai dieci presenti, ha il compito di creare un’illusione opposta, cioè dimostrare alle dieci persone presenti, che la persona che parla attraverso la voce registrata sul disco, non sia materialmente presente in mezzo a loro, cosa che invece è.
Se tuttavia la Christie si serve dell’espediente vandiniano piegandolo ai propri interessi, in altra occasione, precedente al romanzo della Christie, l’illusione del grammofono viene ricreata con un oggetto che negli anni ’30 aveva in gran parte soppiantato il primo: la radio. Se ne serve Clayton Rawson per generare altra illusione, in Death from a Top Hat, 1938. E ancora precedente ai due, un altro romanzo, nel 1930, era ricorso all’espediente della radio, collegata però a dei grammofoni occultati: The Invisibile Host, di Bristow & Manning.
Infine, talora, Vance fa sfoggio anche di letture colte. Un caso è quello presente nel cap. VIII, laddove Vance e Markham continuano a disquisire in merito alle impronte lasciate nella neve: “Grau, teurer Freund, ist alle Teorie” declama Philo Vance. Il passo è uno dei più famosi del Faust di Goethe. Ma è solo la metà quello che cita Vance. Il passo intero sarebbe : “Grau, teurer Freund, ist alle Teorie, Und grün des Lebens goldner Baum”, cioè letteralmente : “Caro amico, tutta la teoria è grigia, e verde l’albero d’oro della vita”. Vance cita però la prima parte perché da lui viene adattata al discorso che sta tenendo a Markham , che verte sull’assenza di impronte sulla neve e sulla mancanza di testimonianze su chi le avrebbe dovute lasciare, cioè su come Markham non possegga né prove dirette né prove indiziarie (=la teoria è grigia).
Non è il solo passo. Ve ne sono parecchi altri.
Per es. ad un certo punto del cap.10, dice: “Forse sì. Potrebbe figurare come un moderno Cayley Drummle”. Chi è Cayley Drummle? Si dovrebbe conoscere il dramma di Arthur Wing Pinero, The Second Mrs.Tanqueray per sapere chi fosse, ma né Van Dine né i traduttori lo dicono. Il primo non lo dice perché nel colloquio che tiene a Markham, il senso del discorso eventualmente viene compreso; e del resto se i riferimenti cui alludesse non fossero criptici, non si potrebbe alludere alla enciclopedica cultura di Van Dine; i secondi invece non sciolgono il quesito perché probabilmente non lo sanno e non ritengono per forza di andarsi a sobbarcare di un inutile onere (neanche riconosciuto nel pagamento della traduzione, immagino).
Il punto però è che il lettore medio che legge Van Dine, trovandosi dinanzi a queste digressioni, a questi rimandi colti, a queste citazioni, non è tenuto per forza ad avere pari enciclopediche virtù di Van Dine e di Philo Vance. Per cui o il traduttore è così sensibile da andarsi a documentare oppure il lettore o dovrà farlo se vorrà cogliere tutto quanto espresso da Van Dine oppure sarà costretto a saltare a piè pari quando si troverà costretto a tali imbarazzanti confronti.
Tutto ciò mi da modo di mettere in risalto il fatto che contrariamente a quanto si dice, i Gialli di S.S. Van Dine non sono affatto così facili da leggere; tutt’altro!
Ancora, leggiamo:
“– E’ piuttosto tardi, l’ammetto, ma perché non acciuffare il momento opportuno per i capelli, come consiglia Pittico?
Perde la fortuna chi lascia la sua morsa
poiché calva è dietro, l’occasion trascorsa”.
Ma Catone il Vecchio ha anticipato Cowley. Nei suoi “Disticha de moribus” ha scritto: Fronte capillata..” (pagg.80-81, op. cit., trad. Ferrari).
Il distico attribuito a Pittico capiamo che dev’essere messo in relazione con Cowley. Ma chi è costui, direbbe Don Abbondio? Nessuno ci dice che è uno dei più grandi poeti inglesi del Seicento.
Meno male che il capitolo 10 finisce con Catone il Vecchio di cui almeno viene citata la fonte del riferimento, “I Distici” (anche se attualmente una parte della critica mette in dubbio che l’autore sia proprio Catone il Vecchio).
Così sappiamo che Vance, volendo cogliere l’occasione propizia al volo, il momento opportuno, non cita né Lorenzo il Magnifico né tantomeno Orazio (perché l’occasione propizia, il momento opportuno legato alla fortuna non è proprio pari al Carpe Diem nei due autori), ma Abraham Cowley e Marco Porcio Catone: il riferimento di Cowley risiede proprio nel distico catoniano: “Rem, tibi quam noris aptam, dimittere noli: Fronte capillata, post est Occasio calva” (Non permettono ciò che consideri buono per le tue fughe; l’occasione ha i capelli sulla fronte, ma dietro è calva” Distici, Libro 1, 2,26).
Perché? Neanche questo dice Van Dine. Perché si aspetta che il suo lettore lo sappia o lo immagini: il fatto è che il distico catoniano è da mettere in relazione con la Dea Fortuna secondo i romani: cioè i capelli appesi sulla fronte e la nuca calva, oltre che essere sinonimi di giovinezza e vecchiaia, lo sono anche di buona e cattiva fortuna. Tuttavia “occasione=occasio” è espressa con il sostantivo latino che comincia con maiuscola, a significare un nome, che si riferisce ad una dea, l’Occasione, messa in relazione con quella greca Kairos (καιρός), una divinità minore del tempo:“il momento opportuno”.
Un breve discorso a parte merita invece il passo:
“– Forse perché ne era innamorato – sorrise Markham.
– Un po’ come Ambra, eh?..
Pronta era Ambra prima di chiamarla:
Ambra venne, che un’altra io chiamavo”.
Neanche del distico inserito, Van Dine attraverso Vance informa il lettore. E siccome il traduttore di turno non si pone il problema cosa stia traducendo, ecco che il lettore deve accettare senza capire nulla o quasi di ciò che legge. Siccome io leggo sempre tutto il testo e mi soffermo sui passi, mi son posto il problema che altri non si son posti: chi era Ambra? Una creatura mitologica amata da Ombrone. Mi son ricordato di un poemetto in ottave che compose Lorenzo il Magnifico e che si chiamava Ambra. Possibile che..?
No. Non si tratta di quel poemetto. E allora..? A questo punto sento il bisogno di confrontare il passo originale: Van Dine ha scritto veramente Ambra oppure altro?
Mi corre in aiuto un mio amico d’oltreoceano, John Norris, blogger come il sottoscritto, che mi fornisce il distico in lingua americana (prima edizione, Scribner, 1927):
“Abra was ready ere I called her name;
And, though I called another, Abra came.”
Abra quindi, non Ambra. Perché abbiano tutti tradotto Abra come Ambra è un mistero: Ambra in inglese (e americano) si dice Amber, non Abra.
Ecco allora che la provenienza è diversa: Solomon on the Vanity of the World. Book II, Verso 364, di Matthew Prior, un grande poeta inglese vissuto a cavallo tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, che viene immediatamente prima di Alexander Pope (chi fosse interessato al poema, ecco il link, perché è di pubblico dominio: http://www.poetrycat.com/matthew-prior/solomon-on-the-vanity-of-the-world-a-poem-in-three-books—pleasure-book-ii.).
Vance quindi modello di eleganza, di sensibilità artistica, di conoscenza della musica, di conoscenze letterarie, tanti concetti compresi in uno solo: erudizione, che in questo romanzo (anzi, nei romanzi) di Van Dine, è presente in gran quantità. Ciò può essere divertente, interessante, ma anche talora irritante.
Non diremmo noi stessi, impegnati a leggere le avventure di Philo Vance, in fondo, quello che dice il suo interlocutore ?
“Andiamo! – supplicò Markham alzandosi. – Qualunque cosa pur di arginare questo profluvio di erudizione” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case, La Canarina assassinata – trad. Pietro Ferrari, I Gialli del Lunedì, L’Unità/Mondadori, pag. 81).
La traduzione di questo volume dei bassotti è di Pietro Ferrari, già Mondadori.
PIETRO DE PALMA
mercoledì 21 marzo 2018
Pierre Boileau-Thomas Narcejac : Sans Atout e l’aggressore invisibile (L’Aggresseur invisible,1984) – trad. Gilda Piersanti – Il Giallo per ragazzi, Mondadori, 1990
Seconda
puntata sulla serie per ragazzi di Boileau-Narcejac, che poi tanto per
ragazzi non mi sembra, semmai fu il tentativo di cavalcare quell’onda
degli anni ottanta in cui c’era una scoperta delle letteratura
“juvenile” come la chiamano in America.
Questo, rispetto a quello che ho analizzato qualcvhe giorno fa, è ancora più da adulti, presentando un plot di tutto rispetto, con due vittime, e colpi di scena a volontà. Dei romanzi scritti, mi pare forse il migliore, ed è legato persino per una certa cosa, ad un romanzo di molti anni prima di Pierre Boileau, pur differenziandosi nella trama, resa più accattivante dalal partecipazione di Narcejac, ritengo.
Questa volta Sans Atout, a causa della sua bronchite, avendo il suo medico detto ai suoi genitori che abbisogna di un periodo di riposo e di ossigenazione, sta accompagnando il padre all’Isola di Oleron, sull’Oceano Atlantico, al Castello di Bugeay (il posto è reale, il castello no. almeno un castello che si chiami così). In sostanza Raoul Chalmont, il figlio di Roland Chalmont, proprietario di quel castello, ex compagno di studi dell’Avvocato Robion, padre di François (Sans Atout), vi si è rivolto perchè risolva un mistero: il nonno di Raoul è stato assassinato misteriosamente un anno prima, e da allora girano voci su un apparizione nelle sale del castello, cosa che sta mandando alla malora gli affari di Raoul convinto di poter alleggerire le spese di gestione del castello, trasformandolo in un albergo.
Del resto quest’atmosfera sinistra, influenza persino il giovane François, il quale nel mezzo della notte sente come la presenza di qualcuno, ma è troppo spaventato per vedere in giro cosa sia, anzi si raggomitola sotto le coperte, salvo suonare il campanello e far accorrere il maggiordomo, il vecchio Simon, il quale dopo aver bussato, rassicura il giovane sull’infondatezza delle voci e delle dicerie.
Il padre, ha cominciato ad investigare e si è rivolto al commissario che ha gestito la cosa all’epoca dell’assassinio, non riuscendo però a trovare significativi indizi: il vecchio è stato assassinato ma in condizioni impossibili: qualcuno lo ha ucciso sfondandogli il cranio, ma l’oggetto non è stato trovato. E neanche l’assassino, visto che nel brevissimo intervallo di tempo tra il grido e la scoperta dell’assassinio, nessuno è stato visto scappare, e del resto le tre vie erano presidiate: Simon al piano superiore, Raoul a quello inferiore assieme ad un cugino del padre, Georges Durban, Roland passeggiava nel parco. E cosa ancora più pazzesca, l’unica via possibile sarebbe stata quella del parco, perchè la finestra è stata trovata aperta: ma se qualcuno fosse salito arrampicandosi sull’edera che è abbarbicata al muro, e poi sceso per la stessa strada, sarebbero state trovate tracce, foglie strappate, danni al fusto, impronte. Ed invece…nulla.
L’avvocato Robion comincia a sospettare che sia uno dei presenti in quel momento: ma come avrebbe fatto? Del resto dalle testimonianze non emerge nulla di interessante: Simon è stato quello che ha scoperto la vittima, ed è sempre stato molto devoto al vecchio, avendolo quello cresciuto in quanto il ragazzo era in sostanza un trovatello; Raoul era al piano di sotto in compagnia del cugino, Roland era nel parco: Roland è quello che al tempo aveva pessimi rapporti col padre, per via della gestione del castello: il vecchio voleva vendere il castello ad un compraore esterno, ma Roland vi si opponeva. Dopo la morte del vecchio, Roland si è rinchiuso in se stesso, sta ore ed ore chiuso nella sua ala, a forgiare soldatini e ricostruire le fasi della battaglia di Verdun, con precisione e cura maniacale, rifiutando di vedere anima viva, come se fosse roso dal rimorso, o comunque dal dolore per la perdita del padre, al quale era molto attaccato.
Al castello padre e figlio hanno trovato pochi villeggianti: una coppia e Alfred Nourey, un riccone. E’ lui colui al quale il padre stava per vendere il castello? E’ lui a diffondere storie sulla presunta infestazione del castello.
Se tuttavia Simon fa di tutto per ridimensionarle, qualcosa in effetti accade: l’auto della coppia di villeggianti viene ritrovata piena di letame, cosa che non si riesce a capire da dove venga, non essendoci nessuno nei paraggi che ne abbia in quantità; inoltre Sans Atout, rinviene per caso nella sua valigia, volendo prendere un paio di calzini, un piccola croce, con un elmo attaccato, una croce con due lettere incise S A, che prima non c’era. Ha saputo da Nourey che anche lui ha trovato dei sassolini che prima non c’erano nella sua stanza, e i sassolini sono il primo indizio di un Poltergeist. E infine, nel cuore della notte, scoppia un incendio in un’ala del castello, intorno ad una poltrona, che rovina irrimediabilmente la tappezzeria della camera: anche qui, senza spiegazioni, tranne quella di uno scherzo di qualche spirito infastidito da qualcuno.
Sans Atout si rivolge a Simon che gli presta ascolto, anzi lo introduce nelle stanze del vecchio Roland, e in un cassetto trovano centinaia di quelle croci.
Sans Atout non sa che pesci pigliare: sospetta di tutti. Sospetterebbe anche di Simon , che poi cosa c’entrerebbe col resto? Ma sospetta innanzitutto di Roland e di Raoul. Anche di Durban , ma soprattutto di Nourey, il cui gioco non sta capendo. Ovviamente il più sospettabile è Roland, perchè ammesso che fosse effettivamente nel parco, avrebbe dovuto vedere l’assassino che invece non ha visto. Eppure ad un certo punto anche Roland viene trovato morto, ucciso da un colpo di pistola, ma la pistola non si trova, quindi non è suicidio ma omicidio. Eppure anche in questo caso nessuno avrebbe potuto farlo, perchè apparentemente gli altri presenti nel castello erano altrove: la vittima è stata trovata nel museo, con le sue centinaia di piccole croci sparse attorno, vestito, come se aspettasse qualcuno. Qualcuno deve essere venuto dall’esterno, ma mancano le prove che ciò sia avvenuto.
L’Avvocato Robion scoprirà l’astuto colpevole, con l’aiuto del figlio, dopo aver saputo dell’avventura del figlio e della presenza di qualcuno nella sua stanza, poi fuggito prima dell’arrivo di Simon.
Il romanzo è scritto meravigliosamente, tenendo presente che è rivolto precipuamente ad un pubblico adolescenziale: quindi castelli e fantasmi. Ma emerge anche forse il tentativo di raccogliere altri lettori, perchè la trama ricca di colpi di scena, è contorta e “nera” quanto basta: vi sono due vittime, morte in situazioni impossibili. Ed un’atmosfera palpabile, densa. I sospettati ci sono, ma i moventi no. E’ proprio la mancanza di moventi in sostanza a spingere il padre di François a cercare una soluzione alternativa che spieghi e ricostruisca le due morti. In sostanza la prima è stata un assassinio non premeditato, se vogliamo l’aggravamento di un’aggressione precedente; la seconda è stata un suicidio, ma resa omicidio dalla sparizione dell’arma. Perchè l’assassino abbia voluto simulare un altro assassinio, è il tentativo di ampliare le voci di un’infestazione sovrannaturale.
Anche qui, anche in questa mancanza di moventi e quindi nell’impossibilità di sondare psicologicamente le personalità dei vari attori del dramma, si attua quella che è la caratteristica del romanzo francese ad enigma: proporre un problema insolubile, risolto il quale l’assassino non può che essere una determinata persona. In sostanza il Mystery francese è l’opposto di quello anglosassone: lì il mistero si risolve, solo inquadrando l’omicida e analizzando i moventi e gli alibi; qui si scopre l’assassino, risolvendo prima il puzzle. E’ un po’ una sorta di rivincita sciovinista contro gli amici-nemici “cugini” inglesi: non era stato forse Maurice Leblanc il primo a ridicolizzare il metodo deduttivo anglosassone, opponendo a Sherlock Holmes il suo Arsene Lupin, in Arsene Lupin contro Herlock Sholmes?
Il romanzo ha ancora altre attrattive, prima fra tutte quelle di riutilizzare una idea geniale già maturata molti anni prima in un capolavoro di Pierre Boileau, analizzato già in questo blog: L’assassino invisibile (L’assassin vient les mains vides, 1945):
http://lamortesaleggere.myblog.it/2015/04/08/pierre-boileau-lassassino-invisibile-lassassin-vient-les-mains-vides-1945-trad-aldo-albani-i-grandi-gialli-pagotto-n15-anno-iii-milano-1951/
non solo riutilizza una stessa idea, ma anche personaggi presenti in quel romanzo di trent’anni prima: Simon, il maggiordomo devotissimo al padrone in L’Invisible aggresseur che accorre all’omicidio del vecchio in pantofole e vestaglia, fa da pendant con il Simon in L’assassin vient les mains vides, devotissimo alla vecchia zia brutalmente assassinata, perchè da loro allevati quando erano in tenera età. Tutto il resto cambia. E devo dire anche in meglio, visto che qui l’atmosfera è maggiormente densa di quel romanzo precedente.
Inoltre un’altro motivo di interesse è dato dalla strana forma di racconto: in sostanza, il romanzo è scritto in forma di diario, nella forma colloquiale di una seie di lettere che François scrive al suo amico Pierre, per alleviare la solitudine, parlandogli in tempo reale di quello che sta facendo, delle cose che gli accadono, e infine della soluzione del padre.
L’escamotage stilistico non è male, perchè in certo qual modo assicura una certa tensione nello svolgimento della storia. Ed è anche la prima volta che un romanzo epistolare non mi annoi, dopo che anni fa, cercai, nelle mie estati di ventenne appassionato di letture romantiche, di leggere l’Oberman di Etienne Pivert de Sénancour, non riuscendolo a finire.
L’assassino non è casuale, ma è il meno probabile, anche se il suo movente visto da una certa ottica, è il più forte di tutti. In più il romanzo, è molto classico in quanto l’assassino non cala dal cielo ma è sempre presente nella storia, ed un certo suo comportamento agli inizi dell’indagine del padre indirizzerà alla soluzione finale: in questo, la componente psicologica fa il suo capolino. L’investigatore capendo come l’assassino si sia comportato in altra circostanza , lo inchioda sulla sua caratteristica principe: la mimesi, che gli ha consentito di farla franca un anno prima, e che gli consentirebbe di rifarla franca, se l’avvocato Robion non lo inchiodasse scoprendo la sua capacità camaleontica di mimetizzarsi, e di cambiare personalità e modi di fare all’occorrenza.
Siccome il romanzo prende molto dal primo ed in sostanza utilizza l’escamotage narrativo del romanzo di trant’anni prima, ed essendo questo molto difficile a trovarsi, ritengo che sarebbe per il lettore italiano il caso di verificare se vi sia la possibilità di reperire questo romanzo con Sans Atout, in quanto trattasi ancora di un eccellente romanzo.
Me ne aveva già anticipata la qualità due anni fa, il noto critico ed editore americano John Pugmire, un mio buon conoscente, il quale dopo aver letto il mio articolo in inglese (traduzione di quello già in italiano) sul mio blog in lingua inglese, su L’assassin vient les mains vides, mi aveva scritto:
Dear Pietro,
I thought there was something familiar about your description, so I looked up my copy of l’Invisible Aggresseur by Boileau-Narcejac, and it’s the same story.
l’Assassin Vient les Mains Vides was Boileau’s earlier version which was never published in book form. Your analysis nevertheless applies and is very good, as usual.
Un motivo in più per cercarlo, mi pare.
Pietro De Palma
Questo, rispetto a quello che ho analizzato qualcvhe giorno fa, è ancora più da adulti, presentando un plot di tutto rispetto, con due vittime, e colpi di scena a volontà. Dei romanzi scritti, mi pare forse il migliore, ed è legato persino per una certa cosa, ad un romanzo di molti anni prima di Pierre Boileau, pur differenziandosi nella trama, resa più accattivante dalal partecipazione di Narcejac, ritengo.
Questa volta Sans Atout, a causa della sua bronchite, avendo il suo medico detto ai suoi genitori che abbisogna di un periodo di riposo e di ossigenazione, sta accompagnando il padre all’Isola di Oleron, sull’Oceano Atlantico, al Castello di Bugeay (il posto è reale, il castello no. almeno un castello che si chiami così). In sostanza Raoul Chalmont, il figlio di Roland Chalmont, proprietario di quel castello, ex compagno di studi dell’Avvocato Robion, padre di François (Sans Atout), vi si è rivolto perchè risolva un mistero: il nonno di Raoul è stato assassinato misteriosamente un anno prima, e da allora girano voci su un apparizione nelle sale del castello, cosa che sta mandando alla malora gli affari di Raoul convinto di poter alleggerire le spese di gestione del castello, trasformandolo in un albergo.
Del resto quest’atmosfera sinistra, influenza persino il giovane François, il quale nel mezzo della notte sente come la presenza di qualcuno, ma è troppo spaventato per vedere in giro cosa sia, anzi si raggomitola sotto le coperte, salvo suonare il campanello e far accorrere il maggiordomo, il vecchio Simon, il quale dopo aver bussato, rassicura il giovane sull’infondatezza delle voci e delle dicerie.
Il padre, ha cominciato ad investigare e si è rivolto al commissario che ha gestito la cosa all’epoca dell’assassinio, non riuscendo però a trovare significativi indizi: il vecchio è stato assassinato ma in condizioni impossibili: qualcuno lo ha ucciso sfondandogli il cranio, ma l’oggetto non è stato trovato. E neanche l’assassino, visto che nel brevissimo intervallo di tempo tra il grido e la scoperta dell’assassinio, nessuno è stato visto scappare, e del resto le tre vie erano presidiate: Simon al piano superiore, Raoul a quello inferiore assieme ad un cugino del padre, Georges Durban, Roland passeggiava nel parco. E cosa ancora più pazzesca, l’unica via possibile sarebbe stata quella del parco, perchè la finestra è stata trovata aperta: ma se qualcuno fosse salito arrampicandosi sull’edera che è abbarbicata al muro, e poi sceso per la stessa strada, sarebbero state trovate tracce, foglie strappate, danni al fusto, impronte. Ed invece…nulla.
L’avvocato Robion comincia a sospettare che sia uno dei presenti in quel momento: ma come avrebbe fatto? Del resto dalle testimonianze non emerge nulla di interessante: Simon è stato quello che ha scoperto la vittima, ed è sempre stato molto devoto al vecchio, avendolo quello cresciuto in quanto il ragazzo era in sostanza un trovatello; Raoul era al piano di sotto in compagnia del cugino, Roland era nel parco: Roland è quello che al tempo aveva pessimi rapporti col padre, per via della gestione del castello: il vecchio voleva vendere il castello ad un compraore esterno, ma Roland vi si opponeva. Dopo la morte del vecchio, Roland si è rinchiuso in se stesso, sta ore ed ore chiuso nella sua ala, a forgiare soldatini e ricostruire le fasi della battaglia di Verdun, con precisione e cura maniacale, rifiutando di vedere anima viva, come se fosse roso dal rimorso, o comunque dal dolore per la perdita del padre, al quale era molto attaccato.
Al castello padre e figlio hanno trovato pochi villeggianti: una coppia e Alfred Nourey, un riccone. E’ lui colui al quale il padre stava per vendere il castello? E’ lui a diffondere storie sulla presunta infestazione del castello.
Se tuttavia Simon fa di tutto per ridimensionarle, qualcosa in effetti accade: l’auto della coppia di villeggianti viene ritrovata piena di letame, cosa che non si riesce a capire da dove venga, non essendoci nessuno nei paraggi che ne abbia in quantità; inoltre Sans Atout, rinviene per caso nella sua valigia, volendo prendere un paio di calzini, un piccola croce, con un elmo attaccato, una croce con due lettere incise S A, che prima non c’era. Ha saputo da Nourey che anche lui ha trovato dei sassolini che prima non c’erano nella sua stanza, e i sassolini sono il primo indizio di un Poltergeist. E infine, nel cuore della notte, scoppia un incendio in un’ala del castello, intorno ad una poltrona, che rovina irrimediabilmente la tappezzeria della camera: anche qui, senza spiegazioni, tranne quella di uno scherzo di qualche spirito infastidito da qualcuno.
Sans Atout si rivolge a Simon che gli presta ascolto, anzi lo introduce nelle stanze del vecchio Roland, e in un cassetto trovano centinaia di quelle croci.
Sans Atout non sa che pesci pigliare: sospetta di tutti. Sospetterebbe anche di Simon , che poi cosa c’entrerebbe col resto? Ma sospetta innanzitutto di Roland e di Raoul. Anche di Durban , ma soprattutto di Nourey, il cui gioco non sta capendo. Ovviamente il più sospettabile è Roland, perchè ammesso che fosse effettivamente nel parco, avrebbe dovuto vedere l’assassino che invece non ha visto. Eppure ad un certo punto anche Roland viene trovato morto, ucciso da un colpo di pistola, ma la pistola non si trova, quindi non è suicidio ma omicidio. Eppure anche in questo caso nessuno avrebbe potuto farlo, perchè apparentemente gli altri presenti nel castello erano altrove: la vittima è stata trovata nel museo, con le sue centinaia di piccole croci sparse attorno, vestito, come se aspettasse qualcuno. Qualcuno deve essere venuto dall’esterno, ma mancano le prove che ciò sia avvenuto.
L’Avvocato Robion scoprirà l’astuto colpevole, con l’aiuto del figlio, dopo aver saputo dell’avventura del figlio e della presenza di qualcuno nella sua stanza, poi fuggito prima dell’arrivo di Simon.
Il romanzo è scritto meravigliosamente, tenendo presente che è rivolto precipuamente ad un pubblico adolescenziale: quindi castelli e fantasmi. Ma emerge anche forse il tentativo di raccogliere altri lettori, perchè la trama ricca di colpi di scena, è contorta e “nera” quanto basta: vi sono due vittime, morte in situazioni impossibili. Ed un’atmosfera palpabile, densa. I sospettati ci sono, ma i moventi no. E’ proprio la mancanza di moventi in sostanza a spingere il padre di François a cercare una soluzione alternativa che spieghi e ricostruisca le due morti. In sostanza la prima è stata un assassinio non premeditato, se vogliamo l’aggravamento di un’aggressione precedente; la seconda è stata un suicidio, ma resa omicidio dalla sparizione dell’arma. Perchè l’assassino abbia voluto simulare un altro assassinio, è il tentativo di ampliare le voci di un’infestazione sovrannaturale.
Anche qui, anche in questa mancanza di moventi e quindi nell’impossibilità di sondare psicologicamente le personalità dei vari attori del dramma, si attua quella che è la caratteristica del romanzo francese ad enigma: proporre un problema insolubile, risolto il quale l’assassino non può che essere una determinata persona. In sostanza il Mystery francese è l’opposto di quello anglosassone: lì il mistero si risolve, solo inquadrando l’omicida e analizzando i moventi e gli alibi; qui si scopre l’assassino, risolvendo prima il puzzle. E’ un po’ una sorta di rivincita sciovinista contro gli amici-nemici “cugini” inglesi: non era stato forse Maurice Leblanc il primo a ridicolizzare il metodo deduttivo anglosassone, opponendo a Sherlock Holmes il suo Arsene Lupin, in Arsene Lupin contro Herlock Sholmes?
Il romanzo ha ancora altre attrattive, prima fra tutte quelle di riutilizzare una idea geniale già maturata molti anni prima in un capolavoro di Pierre Boileau, analizzato già in questo blog: L’assassino invisibile (L’assassin vient les mains vides, 1945):
http://lamortesaleggere.myblog.it/2015/04/08/pierre-boileau-lassassino-invisibile-lassassin-vient-les-mains-vides-1945-trad-aldo-albani-i-grandi-gialli-pagotto-n15-anno-iii-milano-1951/
non solo riutilizza una stessa idea, ma anche personaggi presenti in quel romanzo di trent’anni prima: Simon, il maggiordomo devotissimo al padrone in L’Invisible aggresseur che accorre all’omicidio del vecchio in pantofole e vestaglia, fa da pendant con il Simon in L’assassin vient les mains vides, devotissimo alla vecchia zia brutalmente assassinata, perchè da loro allevati quando erano in tenera età. Tutto il resto cambia. E devo dire anche in meglio, visto che qui l’atmosfera è maggiormente densa di quel romanzo precedente.
Inoltre un’altro motivo di interesse è dato dalla strana forma di racconto: in sostanza, il romanzo è scritto in forma di diario, nella forma colloquiale di una seie di lettere che François scrive al suo amico Pierre, per alleviare la solitudine, parlandogli in tempo reale di quello che sta facendo, delle cose che gli accadono, e infine della soluzione del padre.
L’escamotage stilistico non è male, perchè in certo qual modo assicura una certa tensione nello svolgimento della storia. Ed è anche la prima volta che un romanzo epistolare non mi annoi, dopo che anni fa, cercai, nelle mie estati di ventenne appassionato di letture romantiche, di leggere l’Oberman di Etienne Pivert de Sénancour, non riuscendolo a finire.
L’assassino non è casuale, ma è il meno probabile, anche se il suo movente visto da una certa ottica, è il più forte di tutti. In più il romanzo, è molto classico in quanto l’assassino non cala dal cielo ma è sempre presente nella storia, ed un certo suo comportamento agli inizi dell’indagine del padre indirizzerà alla soluzione finale: in questo, la componente psicologica fa il suo capolino. L’investigatore capendo come l’assassino si sia comportato in altra circostanza , lo inchioda sulla sua caratteristica principe: la mimesi, che gli ha consentito di farla franca un anno prima, e che gli consentirebbe di rifarla franca, se l’avvocato Robion non lo inchiodasse scoprendo la sua capacità camaleontica di mimetizzarsi, e di cambiare personalità e modi di fare all’occorrenza.
Siccome il romanzo prende molto dal primo ed in sostanza utilizza l’escamotage narrativo del romanzo di trant’anni prima, ed essendo questo molto difficile a trovarsi, ritengo che sarebbe per il lettore italiano il caso di verificare se vi sia la possibilità di reperire questo romanzo con Sans Atout, in quanto trattasi ancora di un eccellente romanzo.
Me ne aveva già anticipata la qualità due anni fa, il noto critico ed editore americano John Pugmire, un mio buon conoscente, il quale dopo aver letto il mio articolo in inglese (traduzione di quello già in italiano) sul mio blog in lingua inglese, su L’assassin vient les mains vides, mi aveva scritto:
Dear Pietro,
I thought there was something familiar about your description, so I looked up my copy of l’Invisible Aggresseur by Boileau-Narcejac, and it’s the same story.
l’Assassin Vient les Mains Vides was Boileau’s earlier version which was never published in book form. Your analysis nevertheless applies and is very good, as usual.
Un motivo in più per cercarlo, mi pare.
Pietro De Palma
lunedì 5 marzo 2018
Georges Simenon : I sette minuti (La nuit des sept minutes, 1931) , da "Tre inchieste dell'Ispettore G.7" (G.7, 1938) - Trad. Marina Di Leo) - Adelphi, 2015
Per me lo scorso 23 dicembre è stato un giorno importante, perché ho
incontrato di nuovo un amico che ritenevo perso. Non sentivo Igor Longo
da 9 anni. Non starò qui a dire le cause, e cosa gli sia capitato. Ne
parlerò se lui vorrà un giorno, perché sarebbe anche una storia
istruttiva in un certo senso. Fatto sta, che Igor nel frattempo, se già
era a detta di Giulio Leoni “un’enciclopedia vivente” prima nel 2009,
ora nel 2018, non saprei dire cosa sia diventato. Forse un computer
vivente? Non so come faccia a leggere tanto, sia in italiano, ma
soprattutto in inglese, francese e anche in spagnolo.
Qualche giorno mi ha accennato a certi racconti che Simenon scrisse alla fine degli anni 20, dei racconti non con Maigret, ma con altri investigatori e basati esclusivamente su enigmi: io gli ho parlato di un volume della Adelphi, in cui erano proposti tre racconti. Lì per lì ho pensato che appartenessero ad una delle due raccolte, al che lui mi ha risposto che a quel punto non valeva la pena: sarebbe più intelligente acquistarli in francese. La mia sorpresa è stata totale quando invece ho scoperto che il volume non presentava una selezione Les treize mystères (1929, 13 racconti) o da Les treize énigmes (1929, 13 racconti), bensì era la traduzione italiana di Les sept minutes o G.7 (1938, 3 racconti): Tre inchieste dell'ispettore G.7 (Adelphi, 2015).
L’ho acquistato senza chiedere cosa fosse, e ho fatto bene, perché Igor mi ha detto che sono magnifici, soprattutto il secondo dei tre, quello che da il titolo al volume: La nuit des sept minutes (1931).
In sostanza, un preambolo che parla dell’Ispettore G.7, chiamato così perché proprio nel cappello introduttivo, si presenta al narratore, che diventerà suo amico e mentore, come passeggero di un’auto rossa, della compagnia G.7 di taxi parigini, serve e fare da collante tra i tre racconti che compongono la mini-antologia e a spiegare il rapporto tra il narratore e l’Ispettore e perché egli sia chiamato G.7. Due romanzi brevi fanno da ali al racconto più famoso, che presta il proprio titolo a quello stesso della raccolta: L'énigme de la Marie-Galante, Le Grand Langoustier e La nuit des sept minutes.
La nuit des sept minutes è una Camera Chiusa.
Una lettera avvisa la polizia che un tale Ivan Nikolaevic Morozov verrà assassinato il seguente 19 giugno nella casa propria.
La polizia, nella persona dell’ Ispettore G.7, cerca notizia su tale candidato all’obitorio, ma non risulta nulla dal casellario giudiziale né da altre fonti: si riesce a risalire solo alla sua abitazione, Lungosenna 11, e al fatto che abbia una bella figlia, che lavora nel campo della moda.
La sera dell’ipotetica uccisione, il cadavere ambulante viene sorvegliato da quando cena in un bistrot italiano fino all’entrata in casa sua, casa precedentemente perquisita e dichiarata vuota: ne osservano i movimenti in camera, quando arriva, si sveste, si mette il pigiama, e va a dormire.
L’attesa è snervante. Il narratore, l’agente Aubier, e l’Ispettore G.7 montano la guardia davanti all’abitazione: il narratore può testimoniare di essere stato sempre attento, tranne che in un periodo di soli sette minuti durante il quale si è assopito. Questo fatidico intervallo di sette minuti sarà fatale, perché pare che proprio durante esso, Morozov sia stato assassinato, cosa che scoprono in seguito. La cosa emblematica è che la casa è chiusa dall’interno, fuori sulla terra umida vi sono solo le impronte dei tre e di Morozov, la vittima presenta un foro di proiettile all’altezza del cuore, ma nessuna pistola è stata trovata sulla scena del crimine.
E’ ovvio che si parli di omicidio ma siccome di progressi non ce ne sono, perché nessuno è trovato nella stessa casa, G.7 perde il caso. Lo stesso suo amico, ragionando sul fatto che gli attori oltre la vittima siano lui stesso (ma non dubita della propria salute mentale), Aubier a cui è stato comandato di piantonare ma che non ha alcun legame con la situazione in oggetto, e G.7 (a cui strappa la confessione che conosceva la figlia di Morozov da prima che si sapesse della morte di lui) per forza di cose comincia a dubitare dell’amico, tanto da rivolgersi ad un detective privato e farlo sorvegliare. Sapeva già che Morozov, generale dell’esercito imperiale russo, fuggito a Parigi, ha sperperato al gioco il suo enorme patrimonio, e che qualche tempo prima aveva fatto un’assicurazione per 200.000 franchi. Ma poi viene a conoscere anche che G.7 è innamorato della ragazza, ricambiato, e quindi è parte in causa nella vicenda. Tuttavia, dopo una spiegazione alquanto imbarazzata con l’amico, G.7 spiegherà la soluzione della faccenda.
Bel racconto, facile facile. Pieno di inventiva, dimostra la filiazione sicuramente da Gaston Leroux (i poliziotti fuori dalla casa in cui si consuma la vicenda, è una caratteristica tutta francese che ci riporta alla memoria “Il mistero della Camera Gialla” di Leroux, cosa che poi si ripeterà in altri scrittori francesi: Vindry in Le Piège aux diamants e in La Bête hurlante, e molto più tardi Le onzième petit nègre di Jacquemard & Senecal) ma soprattutto da S.S. Van Dine. Innanzitutto è rispettoso delle sue regole, ma poi applica direttamente alcune caratteristiche al racconto: lo scrittore è amico del detective e partecipa in secondo piano allo svolgersi dell’azione (anche se qui entra nella storia commissionando ad un detective privato la sorveglianza del poliziotto), la scomparsa della pistola si collega ad un celebre romanzo della trilogia per antonomasia, in quanto è replicato esattamente lo stratagemma vandiniano (applicato anche successivamente al romanzo di Alexis Gensoul Gribouille est mort). L’unica defaillance è data dall’esiguità degli attori del dramma, altra caratteristica che ci riporta all’ambiente francese (molti romanzi di Pierre Boileau hanno per es. pochi sospettati per cui alla fin fine trovare l’assassino non è cosa ardua), per cui ben presto si capisce chi possa aver ucciso il generale.
Per spiegare l’impossibilità della camera Chiusa non si fa riferimento a trucchi concernenti la chiusura della porta o alle orme, ma a cause psicologiche, che legittimano il ricorrere ad un tipo di spiegazione per assurdo, la cui prova tangibile è acquisita non da G.7 ma dallo stesso narratore, nella sua incredulità.
Ritmo scorrevole, racconto delizioso.
Pietro De Palma
Qualche giorno mi ha accennato a certi racconti che Simenon scrisse alla fine degli anni 20, dei racconti non con Maigret, ma con altri investigatori e basati esclusivamente su enigmi: io gli ho parlato di un volume della Adelphi, in cui erano proposti tre racconti. Lì per lì ho pensato che appartenessero ad una delle due raccolte, al che lui mi ha risposto che a quel punto non valeva la pena: sarebbe più intelligente acquistarli in francese. La mia sorpresa è stata totale quando invece ho scoperto che il volume non presentava una selezione Les treize mystères (1929, 13 racconti) o da Les treize énigmes (1929, 13 racconti), bensì era la traduzione italiana di Les sept minutes o G.7 (1938, 3 racconti): Tre inchieste dell'ispettore G.7 (Adelphi, 2015).
L’ho acquistato senza chiedere cosa fosse, e ho fatto bene, perché Igor mi ha detto che sono magnifici, soprattutto il secondo dei tre, quello che da il titolo al volume: La nuit des sept minutes (1931).
In sostanza, un preambolo che parla dell’Ispettore G.7, chiamato così perché proprio nel cappello introduttivo, si presenta al narratore, che diventerà suo amico e mentore, come passeggero di un’auto rossa, della compagnia G.7 di taxi parigini, serve e fare da collante tra i tre racconti che compongono la mini-antologia e a spiegare il rapporto tra il narratore e l’Ispettore e perché egli sia chiamato G.7. Due romanzi brevi fanno da ali al racconto più famoso, che presta il proprio titolo a quello stesso della raccolta: L'énigme de la Marie-Galante, Le Grand Langoustier e La nuit des sept minutes.
La nuit des sept minutes è una Camera Chiusa.
Una lettera avvisa la polizia che un tale Ivan Nikolaevic Morozov verrà assassinato il seguente 19 giugno nella casa propria.
La polizia, nella persona dell’ Ispettore G.7, cerca notizia su tale candidato all’obitorio, ma non risulta nulla dal casellario giudiziale né da altre fonti: si riesce a risalire solo alla sua abitazione, Lungosenna 11, e al fatto che abbia una bella figlia, che lavora nel campo della moda.
La sera dell’ipotetica uccisione, il cadavere ambulante viene sorvegliato da quando cena in un bistrot italiano fino all’entrata in casa sua, casa precedentemente perquisita e dichiarata vuota: ne osservano i movimenti in camera, quando arriva, si sveste, si mette il pigiama, e va a dormire.
L’attesa è snervante. Il narratore, l’agente Aubier, e l’Ispettore G.7 montano la guardia davanti all’abitazione: il narratore può testimoniare di essere stato sempre attento, tranne che in un periodo di soli sette minuti durante il quale si è assopito. Questo fatidico intervallo di sette minuti sarà fatale, perché pare che proprio durante esso, Morozov sia stato assassinato, cosa che scoprono in seguito. La cosa emblematica è che la casa è chiusa dall’interno, fuori sulla terra umida vi sono solo le impronte dei tre e di Morozov, la vittima presenta un foro di proiettile all’altezza del cuore, ma nessuna pistola è stata trovata sulla scena del crimine.
E’ ovvio che si parli di omicidio ma siccome di progressi non ce ne sono, perché nessuno è trovato nella stessa casa, G.7 perde il caso. Lo stesso suo amico, ragionando sul fatto che gli attori oltre la vittima siano lui stesso (ma non dubita della propria salute mentale), Aubier a cui è stato comandato di piantonare ma che non ha alcun legame con la situazione in oggetto, e G.7 (a cui strappa la confessione che conosceva la figlia di Morozov da prima che si sapesse della morte di lui) per forza di cose comincia a dubitare dell’amico, tanto da rivolgersi ad un detective privato e farlo sorvegliare. Sapeva già che Morozov, generale dell’esercito imperiale russo, fuggito a Parigi, ha sperperato al gioco il suo enorme patrimonio, e che qualche tempo prima aveva fatto un’assicurazione per 200.000 franchi. Ma poi viene a conoscere anche che G.7 è innamorato della ragazza, ricambiato, e quindi è parte in causa nella vicenda. Tuttavia, dopo una spiegazione alquanto imbarazzata con l’amico, G.7 spiegherà la soluzione della faccenda.
Bel racconto, facile facile. Pieno di inventiva, dimostra la filiazione sicuramente da Gaston Leroux (i poliziotti fuori dalla casa in cui si consuma la vicenda, è una caratteristica tutta francese che ci riporta alla memoria “Il mistero della Camera Gialla” di Leroux, cosa che poi si ripeterà in altri scrittori francesi: Vindry in Le Piège aux diamants e in La Bête hurlante, e molto più tardi Le onzième petit nègre di Jacquemard & Senecal) ma soprattutto da S.S. Van Dine. Innanzitutto è rispettoso delle sue regole, ma poi applica direttamente alcune caratteristiche al racconto: lo scrittore è amico del detective e partecipa in secondo piano allo svolgersi dell’azione (anche se qui entra nella storia commissionando ad un detective privato la sorveglianza del poliziotto), la scomparsa della pistola si collega ad un celebre romanzo della trilogia per antonomasia, in quanto è replicato esattamente lo stratagemma vandiniano (applicato anche successivamente al romanzo di Alexis Gensoul Gribouille est mort). L’unica defaillance è data dall’esiguità degli attori del dramma, altra caratteristica che ci riporta all’ambiente francese (molti romanzi di Pierre Boileau hanno per es. pochi sospettati per cui alla fin fine trovare l’assassino non è cosa ardua), per cui ben presto si capisce chi possa aver ucciso il generale.
Per spiegare l’impossibilità della camera Chiusa non si fa riferimento a trucchi concernenti la chiusura della porta o alle orme, ma a cause psicologiche, che legittimano il ricorrere ad un tipo di spiegazione per assurdo, la cui prova tangibile è acquisita non da G.7 ma dallo stesso narratore, nella sua incredulità.
Ritmo scorrevole, racconto delizioso.
Pietro De Palma
Iscriviti a:
Post (Atom)