Appleby, forse, è l’investigatore più colto in letteratura in assoluto, tanto quanto Philo Vance lo è nelle arti figurative e scultoree. Del resto, mentre Philo Vance fu la creatura di Willard Huntington Wright, grande critico d’arte newyorkese e profondo conoscitore dell’opera di Nietsche, Appleby lo è stata di John Innes Mackintosh Stewart, che solo per divertimento, come diceva lui, scrisse gli oltre cinquanta titoli, con lo pseudonimo di Michael Innes. In realtà John Innes Mackintosh Stewart era un cattedratico, imprestato al romanzo poliziesco, come Cecil Day-Lewis (alias Nicholas Blake), o come Alfred Bennett Harbage (alias Thomas Kyd): insegnò, a Oxford, Letteratura Inglese. Della sua professione universitaria, nei suoi romanzi vi sono molte testimonianze dotte: citazioni di Shakespeare, di altri poeti inglesi, citazioni di poeti e letterati latini, oltre che una prosa estremamente forbita e raffinata. Tuttavia, se nei primi romanzi, queste caratteristiche sono amplificate, esse tendono progressivamente, con il fluire del tempo, ad attenuarsi, pur comparendo qua e là.
Tuttavia, rimarchiamo la pochezza dei romanzi di questo straordinario autore britannico pubblicati in Italia a fronte dei molti invece tradotti di Nicholas Blake (pseudonimo di Cecil Day-Lewis, e come lui, cattedratico: solo 5. Un po’ poco, se si considera la grande qualità di questo romanziere.
Nel 1975 fu
pubblicato da Rizzoli, nell’ambito della sua collana “I Gialli di
Qualità” (comprendente tra l’altro, oltre a Innes, altri ottimi
scrittori, talora assolutamente sconosciuti in Italia), “Delitto ad
Elvedon Court” (Appleby’s Other Story, 1974).
E’ un’altra avventura di Appleby, anche questa volta piuttosto tarda.
E’ curioso rammentare come i romanzi di Innes siano stati pubblicati in
Italia solo a partire dagli anni settanta, e, cosa ancora più curiosa,
sono stati pubblicati suoi romanzi allora relativamente recenti, come se
i precedenti romanzi della sua produzione, quelli più rinomati,
soprattutto i primi quattro, Death at the President’s Lodging (1936) conosciuto anche come Seven Suspects; Hamlet, Revenge! (1937); Lament for a Maker (1938); Stop Press (1939; anche come The Spider Strikes), e i molti ottimi, tra cui altre eccellenze, non fossero mai stati stampati. Una cosa ben strana!
Il primo romanzo di Innes ad essere pubblicato in Italia, nell’agosto 1966, fu “La moglie immortale” (The New Sonia Wayward,1960), nell’ambito della collana Feltrinelli “Il Brivido e l’avventura”. Seguirono “Per quarantott’ore silenzio” ( Silence Observed, 1961)
pubblicato nel 1972 dalle Edizioni Paoline; poi quello che presento
oggi; ed infine il romanzo pubblicato da Mondadori nel 1976, “Meglio
erede che morto” (The Gay Phoenix, 1975). Qualche anno fa, anche Polillo ha voluto dire la sua, pubblicando l’opera prima di Innes, “Morte nello studio del rettore”, Death at the President’s Lodging (1936).
“Delitto ad Elvedon Court” comincia con un omicidio.
John Appleby ex
Commissario Capo ora in pensione, assieme al suo amico Colonnello Tommy
Pride, Capo della Polizia di Contea, si sta recando ad Elvedon Court,
antica residenza di campagna, di proprietà di Maurice Tytherton, uomo
d’affari e grande collezionista di quadri. Il segreto intendimento di
Pride, che ha allegramente coinvolto Appleby, ben contento di
risvegliarsi dal torpore della pensione, è quello di ottenere un parere
dall’amico in merito ad una faccenda avvenuta qualche anno prima: la
scomparsa di alcuni quadri di valore dalla magione di Elvedon Court, ben
pagata dalla assicurazione di turno. Comunque a Pride qualcosa non
quadra in quella sparizione e così i due si stanno recando dal
collezionista. Sfortuna vuole che lo trovino già morto e stecchito: è
stato ammazzato nella notte con un colpo di pistola, all’interno del suo
studio.
Pride, chiede ad
Appleby, con la benevolenza dell’Ispettore Henderson, ben contento di
ottenere una consulenza prestigiosa come quella dell’ex Commissario, di
occuparsene discretamente.
L’ambiente in cui
la polizia deve muoversi è nebuloso, ben oltre le più rosee aspettative:
gli abitanti della casa, dai familiari ai domestici, sono quanto di più
infido possa esistere.
La moglie di
secondo letto di Maurice Tytherton, Alice, è bellissima ma gelida e
distante: è interessata al buon nome della proprietà, ad essere ben
considerata dalla società, e sfrutta le sostanze del marito in maniera
considerevole, vivendo agiatamente. Per quanto si sappia i suoi rapporti
col marito sono freddi: il marito ha un’amante, Cynthia Graves, una
tipa di assai dubbia moralità, una cortigiana di lusso, una mantenuta
insomma, che non disdegna di riscaldare il letto non solo dell’amante ma
anche del nipote di questi, Archie, altro tipo debosciato, la cui
attività preferita è quella di fare sesso con chiunque tizia gli capiti a
tiro, comprese le cameriere; ma anche lei, Cynthia, in fondo, non ha
perso tempo: ha una relazione extraconiugale col Dottor Carter, eminente
chirurgo. Insomma una famiglia in cui “le corna” sono vicendevoli e
anche ben conosciute.
Oltre agli stretti
familiari, altri personaggi strani si muovono nella casa: Raffaello,
strano mediatore di opere d’arte, dalla fedina penale non proprio
immacolata, coinvolto nel passato di Appleby in inchieste riguardanti
sparizioni di opere d’arte e ricettazione, che si aggira nelle enormi e
molteplici stanze della villa, pare invitato dallo stesso padrone di
casa; Miss Kentwell, altro strano personaggio, la cui occupazione sembra
essere quella di spillare soldi per beneficenza; e infine il
maggiordomo, Catmull, e la sua consorte, entrambi viscidi, molto
interessati alle proprietà di casa, e pettegoli. Infine c’è anche il
figliol prodigo, appena tornato a casa, Mark, unico figlio di Maurice,
che Appleby trova nel bosco attorno alla casa, e che pare sia stato a
casa la sera prima poco prima che suo padre fosse ucciso, e che avesse
avuto con lui una furiosa lite, conclusasi con la fuga nel bosco. Il
motivo di tanto astio? I gioielli della madre, prima moglie di Maurice,
monili di gran valore, tra cui una parure di diamanti, che in quanto di
sua proprietà e non donategli dal marito, dovrebbero essere propri del
figlio ed invece sono finiti, nonostante le aspirazioni a possederli da
parte di Alice, nelle mani della puttana di Maurice, Cynthia, che in
ogni occasione non perde mai occasione di far capire come per lei il
sesso sia un’occupazione e una possibilità di successo.
Oltre a questi
“esempi di moralità”, altri due personaggi girano nel tourbillon
dell’entourage: il vicario Voysey, e il segretario di Maurice, Ronnie
Ramsden, altro personaggio alquanto ambiguo.
Le indagini di
Appleby e Harrison si presentano subito alquanto complesse: Ramsden e
Miss Kentwell, hanno la sera prima fatto un giro nella casa, con
destinazione i tetti, salendo e discendendo scale interne, per godersi
la luna piena. Prima si sono affacciati nello studio al primo piano, non
trovandovi Maurice Tytherton, poi, quando sono ridiscesi, lo hanno
trovato morto: particolare curioso è il vassoio col brandy che invece di
trovarsi sulla mensola del caminetto è in altro posto come se Maurice
avesse ricevuto una visita. Inoltre, la prima volta che sono entrati
nello studio, si è sentito l’urlo di un pavone, e affacciandosi lo hanno
visto stazionare sulla testa della statua di Ermete, proprio sotto la
finestra, mentre la seconda volta non l’hanno sentito.
Il lasso di tempo è
di venti minuti, in cui chiunque della casa avrebbe potuto compere il
delitto senza essere visto: i due che verosimilmente, per quanto detto,
sono esclusi a priori sono Ramsden e Kentwell, che in quanto assieme,
forniscono ognuno all’altro un alibi inattaccabile (sempre però che non
l’abbiano ucciso assieme!). Comunque sia non si capisce per quale motivo
avrebbe dovuto sopprimere il suo padrone Ramsden, e ancor più la
Kentwell che è apparentemente in quella casa per reperire fondi di
beneficenza: avrebbe dovuto uccidere “la sua gallina dalle uova d’oro”.
Per quale motivo?
Appleby comincia ad
indagare. E ben presto capisce che ognuno dei soggetti di questo dramma
presenta due o tre diverse facce, ognuno mentendo e nello stesso tempo
presentando le verità che più fanno comodo. E capisce che tra i vari
moventi: gelosia (nei confronti del nipote o della moglie: Maurice aveva
chiesto il pomeriggio stesso della sua morte, al suo legale, di
cambiare il testamento), cambiamento del testamento (nipote, moglie,
figlio), possesso dei gioielli della moglie (figlio, moglie, amante),
quadri rubati (Raffaello), icone sottratte all’URSS e finite nelle mani
di Maurice, e del cui ritrovamento si occupa Miss Kentwell, detective
privata sotto mentite spoglie, la cui doppia occupazione in quella casa
era quella di controllare Alice per parte del marito, per comprovarne il
tradimento e nel tempo stesso cercare le icone rubate, di nascosto a
Maurice, una doppiogiochista scaltra e furba, il movente determinante è
quello delle opere d’arte. E nell’arco di un giorno perviene alla
soluzione del caso, dopo aver fatto il giro dell’immensa villa e aver
visitato tutte le stanze e i piani e persino esser stato nelle soffitte;
dopo aver trovato della carta stracciata, nel locale deputato alla
spazzatura; dopo aver sentito del grido di un pavone, nella notte
dell’omicidio; dopo aver trovato le icone rubate, dietro a degli
innocenti quadretti.
Ci troviamo dinanzi
ad un romanzo di altissima classe, con una tensione che non si allenta
un attimo. Varie sono le caratteristiche che individuo.
Innanzitutto
l’assenza di un prologo, di una parte introduttiva al delitto: Innes,
pur essendo un puro britannico, e quindi inserito nel filone della
detective story di marca anglosassone, alla Christie o alla Heyer
insomma, si comporta invece come soleva fare Carr: inserire il proprio
personaggio a delitto avvenuto, il più delle volte, estraneo al contesto
in cui è maturato il delitto, imparziale, “super homines” e quindi in
grado di valutare le mezze verità anche come mezze bugie.
Poi la presenza di figure retoriche sparse qua e là, tra cui alcune rappresentazioni allegoriche molto efficaci.
John Innes
Mackintosh Stewart era un cattedratico di grande cultura umanistica,
qualità che si poteva apprezzare nella tendenza più volte espressa nei
suoi romanzi, al riferimento letterario di opere di autori latini e
britannici del passato: anche qui, ogni tanto, emergono le sue
conoscenze letterarie.
All’inizio del romanzo, c’è un passo emblematico: “Il boschetto ammicca al boschetto, ogni sentiero ha il suo gemello, e metà della piattaforma rispecchia l’altra metà”,
che il lettore non molto curioso, potrebbe falsamente attribuire a
William Blake che viene citato qualche rigo più sotto, e che soprattutto
potrebbe attribuire ad uno sfoggio assolutamente vanitoso di cultura
poetica.
In realtà, “Grove nods at grove, each alley has a brother,
And half the platform just reflects the other” , che è un passo tratto da “Epistles to Several Persons: Epistle IV, To Richard Boyle” (Moral Essays, ep. IV, l. 117) di Alexander Pope, a parere mio sottende ad altro ragionamento.
And half the platform just reflects the other” , che è un passo tratto da “Epistles to Several Persons: Epistle IV, To Richard Boyle” (Moral Essays, ep. IV, l. 117) di Alexander Pope, a parere mio sottende ad altro ragionamento.
Come per altre opere,
anche qui Michael Innes sfrutta le sue conoscenze umanistiche
utilizzandole anche in preziosismi lessicali ed enigmatici riferimenti,
che, quando inserite nel dialogo, mai sono avulse dal contesto del plot
ma anzi anticipano la natura della rivelazione e le deduzioni
successive. Così,
Innes si serve di figure retoriche per rivelare talune caratteristiche
del plot. L’allegoria
che è insita nel distico di Pope, può esser riferita oltre che alla
doppiezza psicologica dei personaggi, anche alla doppia natura di una
caratteristica del plot che sarà alla base della rivelazione finale. Non
credo proprio sia una mia personale supposizione, tant’è vero che
l’inizio del distico “Grove nods at grove” viene ripetuto più in là nel prosieguo del romanzo, quasi a cadenzarne il significato nascosto.
Tuttavia Innes inserisce altre figure retoriche nella tessitura narrativa del romanzo: una similitudine tra il modo di sbucciare la mela del reverendo Voysey e la leggiadria con cui sale la rampa delle scale di Elvedon Court: “Gli
rammentava assurdamente il modo in cui il reverendo Voysey aveva
sbucciato la mela, con tanta delicatezza, tanto elegante era la sua
aggraziata spirale in pietra di Bath finemente intagliata” (cap.4 pag 75); oppure un’altra allegoria, quella riferita al sogno di Archie: “Il
tavolo da biliardo diventava sempre più grande e così le stecche. E le
palle alla fine erano come palle da cannone, e lui doveva continuamente
farle sbattere di qua e di là, freneticamente” (cap. 3 pag. 41). In
questo caso l’allegoria è chiara, a parere mio: alluderebbe ad una
rappresentazione dell’amplesso, in una figurazione anche piuttosto
oscena: il tavolo da biliardo potrebbe essere l’amante o il letto, le
stecche sono spesso rappresentazioni figurate del membro maschile,le
palle dei testicoli. Il loro movimento frenetico figurativamente esprime
proprio la foga di un amplesso, in una rappresentazione estremamente
plastica.
E anche descrive
meravigliosamente la figura di Archie, legando la comprensione della sua
natura psicologica ad una rappresentazione che è anche visiva,
esplicativa nella sua volgarità e associabile ad un tipo di persona
particolare.
Un passo celebrativo è quello presente nel cap.4 della traduzione italiana del libro, pag.92:
“Tenete alte le vostre spade lucenti o la rugiada le farà arrugginire”. Il distico è riferito al celebre discorso che l’Otello di Shakespeare fa e che in inglese recita: “Keep up your bright swords, for the dew will rust them” (William Shakespeare : Othello, Atto 1, Scena II, verso 60).
Il
matterello levato in aria dalla moglie del maggiordomo Catmull e pronto
a colpire, richiama la spada levata in aria da Otello. Qui l’immagine
epica del discorso shakespeariano, assume un tono assolutamente e
volutamente più ruspante: perché al guerriero del mare è contrapposta
una guerriera della cucina. La rugiada, che come si sa si posa sui fiori
e sull’erba, quindi su qualcosa che è in basso. Se non si usa sovente
la spada, quella resterà inoperosa, infilata nel fodero, e potrà correre
il rischio di arrugginirsi. Se invece la si usa, combattendo, essa non
potrà arrugginirsi, perché sarà sempre usata, e quindi pulita e
affilata.
Altra figura retorica che mi appare è la circonlocuzione: la frase presa in esame è “L’assoluta inutilità dei regni sommersi”,
a pag. 114 del cap. 6^ del romanzo nella versione italiana, con cui
Appleby commenta tra sé e sé il suo errare nelle soffitte di Elvedon
Court. Comunque sia, la frase nella sua versione originale è “The superannuations of sunk realms”, ha
significato ben diverso dalla sua resa in italiano, direi alquanto
strana: infatti, se volessi letteralmente tradurre il verso inglese, che
è tratto da “The Fall of Hyperion – A dream” di John Keats (1, 66), scriverei “L’obsolescenza (o il pensionamento) di reami irrecuperabili”.
Solo in questa resa si potrebbe apprezzare il senso della perifrasi
citata da Innes perché in questo caso meglio si accorderebbe con una
soffitta polverosa in cui sono accatastate tante cose oramai messe in
pensione perchè non più utilizzabili oppure passate di moda.
Tuttavia queste
figure retoriche ed espressioni, che ogni tanto si incontrano, hanno
tutte un’aria molto ironica, classica estrinsecazione dell’humour
britannico, una risata a denti stretti, che sgrava la tensione,
mitigandola con la battuta dell’uomo colto.
Il risultato nella
sua complessità, è una scrittura non molto facile da interpretare,
preziosa nei suoi giochi di parole, nei suoi significati, molto spesso
doppi, difficile e quindi anche lenta nel suo incedere, assimilabile a
quella lentezza dell’incedere con cui una persona anziana, come Appleby,
si muove e parla: insomma una similitudine nascosta nella stessa natura
stilistica del modo di scrivere..
Altro significato
nascosto mi parrebbe essere il riferimento all’urlo del pavone
appollaiato sulla testa della statua di Hermes: come lo stesso Innes
dice, citando la natura di Psicopompo di Hermes: “ E’ Ermes, signorina Kentwell. Conduce le anime dei morti nell’Ade, ed è perciò indicato con l’attributo di psychopompos
dagli antichi greci…con un chiaro di luna come quello vedemmo subito di
che si trattava: il grido era stato lanciato da un pavone, appollaiato
sulla testa della statua.” (pag.101, cap.5). Infatti Hermes era
l’accompagnatore degli spiriti dei morti, nel viaggio per il mondo
sotterraneo dell’aldilà: quindi, il riferimento di Hermes e del pavone,
sarebbe un’allusione ricercata: il pavone che urla (di notte, anche
l’upupa urla, ed è un simbolo di morte), appollaiato sulla testa di una
divinità , con valenza di divinità dell’oltretomba, alluderebbe alla
morte di qualcuno, in questo caso di Maurice. In altre parole, quando il
pavone urla appollaiato sulla testa della statua di Hermes, Maurice è
già morto e Hermes lo sta conducendo nel Regno dei Morti.
Tuttavia, la classe
di Innes sta nel servirsi di queste sottigliezze della pratica poetica,
e di queste citazioni dotte, non come abbiamo detto prima, per
sfoggiare solamente la propria cultura, ma soprattutto per sottolineare
talune caratteristiche del romanzo. In questo, quindi, ancora una volta,
il romanzo rivela dei tesori, non così palesi alla prima
interpretazione.
Il romanzo infine possiede anche delle citazioni molto significative, di autori polizieschi: esse sono manifeste, quando cita “Il problema sul ponte della Thor” di Conan Doyle da Il taccuino di Sherlock Holmes, e celate, quando molto probabilmente si rifa nella soluzione, ad un celeberrimo racconto di John Dickson Carr.
Quale? Proprio quel The Crime in Nobody's Room di cui abbiamo recentemente parlato. Anzi, più che a quello, direi a The Villa of the Damned, radiodramma contenuto nell'antologia The Dead Sleep Lightly : infatti la messinscena sfugge ai due esempi di Christie e Carr di cui abbiamo parlato giorni fa. Mentre infatti per Christie, il fatto che vi siano due appartamenti uno sopra l'altro, non presuppone l'impossibilità, perchè viene detto subito che si tratta di due appartamenti distinti che appartengono a due proprietari diversi, e per Carr pur essendoci impossibilità, si tratta di uno stesso appartamento che viene cambiato per l'occasione originando la messinscena, qui essa consiste nel far in modo che il protagonista vada in una stanza anzichè in un'altra, esattamente uguali, come accade infatti nel radiodramma carriano citato, creandosi quindi delle impossibilità che invece non sarebbero esistite se il protagonista fosse entrato nella stanza giusta (come ancora accade nel radio-dramma).
Pietro De Palma
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