Connington fu un autore che cominciò a scrivere romanzi polizieschi,
come svago: c’era una voce che diceva che negli anni ’30, parecchi
professori leggevano gialli per svago..ma è anche vero che parecchie
menti illustri ne scrivevano: Dorothy Sayers, Nicholas Blake, Edmund
Crispin, Thomas Kyd, e appunto J.J. Connington, che in realtà si
chiamava A.W.Stewart ed era un famosissimo docente di chimica e
scienziato: Un cadavere fuori posto, è un romanzo del 1935.
Diciamo
subito che il lettore italiano che ha letto i romanzi degli inizi degli
anni ’30, potrebbe trovarsi spaesato: quella che è la caratteristica
principale di Connington, cioè l’atmosfera (le notti di luna piena,
l’oscurità, misteriosi passaggi segreti, per es.) qui non esiste. Il
romanzo infatti si presenta come un caratteristico Whodunnit di metà
degli anni ’30, un romanzo ad enigma, come tanti di quegli anni, anche
se sempre affascinante e costruito assai bene (anche se, ancora una
volta, l’assassino è, per il lettore esperto, molto facile da trovare:
io l’ho trovato almeno 150 pagine prima della conclusione. C’era una
voce che mi diceva che proprio lui doveva essere: ed in effetti non ho
sbagliato. Il fatto è che Connington è sempre troppo rispettoso del
lettore, e molto spesso dice troppo degli indiziati, quasi ne sbandiera
le peculiarità, per cui…ad un certo punto, chi abbia una memoria
analitica di quello che abbia letto e che sappia che 2+2 fa sempre 4,
non può non capire chi sia l’assassino, per quanto improbabile). In
questo caso abbiamo un poliziotto, William Danbury, che è desideroso di
mettersi in luce, ma per farlo avrebbe bisogno di qualcosa veramente
interessante, che neanche a farlo apposta, gli capita sotto il naso:
mentre è di ronda di notte, il signor Geddington che abita al civico
Grove N.5, lo prega di intervenire in uno stabile, perché si è sentito
uno sparo. Danbury trova, non cercandolo, un bel cadavere caldo caldo,
in un appartamento sfitto, dove sono in corso lavori di tinteggiatura
delle pareti: nel bel mezzo di una camera è il corpo di un uomo, col
volto sfigurato da un colpo di pistola sparato in faccia, in mezzo a una
barattolo di vernice rovesciato, macchie di sangue sul pavimento ed un
fazzoletto che ne è zuppo, e in una latta di vernice, una croce d’oro a
forma di Tau. Inoltre, il cadavere indossa guanti, delle scarpe di gomma
e ha in tasca uno sfollagente artigianale ma dall’aria assai efficace.
Le indagini si presentano subito difficili. Non c’è apparentemente
nessun vero indizio, tanto che persino gli abiti sono privi delle
targhette riconoscitive, e nessuno degli inquilini dello stabile, a
prima vista lo riconosce. Vi è un giornalista free-lance, invadente e a
perenne caccia di scoop, Barbican, che è stato il primo ad accorrere ed
il primo ad aiutare l’agente Danbury ed il suo collega a isolare la
scena del delitto; c’è l’architetto Barnard; c’è George Mitford, ex
impiegato d’ufficio che vive assai modestamente con una piccola rendita,
e che sogna i luoghi fiabeschi del Giappone; c’è una coppia che invita
sempre persone nel loro appartamento, di estrazione sociale elevata o
che almeno vuol far ritenere tale; c’è la signora Sternhall, che di
origini francesi dà lezioni della sua lingua originale in casa sua, e
suo cognato, un tipo deciso ma dall’aria poco raccomandabile: la donna è
sola, perché il marito, è sempre fuori per lavoro, ed al momento del
rinvenimento del cadavere, è lontano. Insomma una fauna variegata. A
questi tipi se ne aggiungono altri due, che assieme ad alcuni inquilini,
sono soliti frequentare casa Sternhall per imparare o affinare il
francese: c’è Ambrose Bracknell, un giovane ed aitante predicatore di
una setta cristiana, e Miss Huntingdon, una ragazza che ne è innamorata.
Fato sta che il cadavere, ricomposto,e soprattutto il viso pulito dal
sangue e reso presentabile, fanno sì che il cadavere sia riconosciuto e
associato al signor Sternhall che al momento della morte sarebbe dovuto
essere lontano, e che invece era vicinissimo a casa sua. Si scoprirà che
egli conduceva una doppia vita, perché aveva due mogli: quindi era
bigamo. Che aveva licenziato un povero impiegato e lo aveva
perseguitato, e che lui stesso era stato perseguitato a sua volta da un
ricattatore che conosceva i suoi segreti. Che Bracknell era quello che
aveva perso nella colluttazione con Sternhall il ciondolo a forma di
Tau, ma non ne era stato lui l’assassino; e che per allontanare da sé i
sospetti della polizia non aveva esitato a mettere in mezzo Miss
Huntingdon che di lui era infatuata: insomma un bel farabutto! E che la
signora Sternhall aveva taciuto molte cose a Sir Clinton Driffield, Capo
della Polizia e protagonista dei molti romanzi di Connington. Il
cadavere non sarà il solo nel prosieguo del romanzo ma sarà accompagnato
da un secondo, quello dell’impiegato (era lui quello che guarda caso
era stato licenziato da Sternhall) che impaziente di guadagnare i mille
dollari messi come taglia per chi avrebbe rivelato alla polizia dei
particolari utili ad acchiappare l’assassino, li sbandiera incautamente
facendo riferimento ad una lettera che intende inviare proprio
all’attenzione del Capo della Polizia: proprio questa avventatezza gli
costerà la morte. L’assassino, che se qualcuno non l’avesse già
individuato, si capisce lapallissianamente ora chi possa essere, lo
ucciderà simulando un suicidio in una Camera Chiusa. Che verrà invece
riconosciuto come omicidio quando intorno al cadavere si riconosceranno
due tipi diversi di sangue. Toccherà a Sir Clinton nelle ultime pagine,
con l’aiuto del suo amico Wendover (una specie di dottor Watson, ma
molto più acuto del compagno di Sherlock Holmes), inchiodare l’assassino
(casomai non si fosse ancora capito chi potesse essere) e spiegare i
punti oscuri del dramma, anche se le ultime pagine non precedono la
rivelazione finale, ma ne sono solo un riassunto ricapitolativo, giacchè
l’assassino vien rivelato già a pag. 215 ( ma io l’ho capito già
abbastanza presto, sulla base anche di un motivo che ricorre in tutti
gli assassini sia di carta che reali) cioè venti pagine prima che viene
arrestato. Se il romanzo, nella successione dei titoli di Connington,
perde parecchio in atmosfera e acquista nella creazione dell’enigma e
nella sua soluzione (ma quella della Camera Chiusa è alquanto criptica),
un carattere è riconoscibilissimo, in quanto è un vero e proprio
marchio della produzione di Connington: come abbiamo detto
J.J.Connington in realtà era un grande scienziato, e in tutti i suoi
romanzi, Stewart introdusse una qualche diavoleria elettronica, o una
qualche invenzione oppure un qualche espediente che avesse contatti con
la fisica o la chimica. In questo romanzo, particolarmente interessante è
l’analisi sanguigna dei vasi e degli organi del cadavere, ed il
confronto con il sangue trovato sul pavimento, partendo dal presupposto
notevole che se fosse stato sangue sgorgato dalla ferita, esso si
sarebbe dovuto coagulare tutto negli stessi tempi. Ed invece il fatto
che vi sia del sangue coagulato e invece del sangue fresco rinforza
l’ipotesi di una manomissione della scena del delitto. Inoltre vi è il
dato caratteristico dell’assenza di impronte, ottenuta utilizzando
polvere di licopodio. Il licopodio (Lycopodium) è un genere di piante
vascolari appartenente alla famiglia delle Lycopodiaceae., abbastanza
diffuso in tutto il mondo. Le sue spore, essendo altamente infiammabili,
vengono utilizzate per spettacoli pirotecnici e anche circensi.
Tuttavia in questo romanzo, A.W.Stewart sfruttò la capacità propria
della polvere di licopodio, di essere refrattaria all’acqua, in quanto
dotata di grandi proprietà assorbenti, e per questa sua proprietà,
specificamente utilizzata nell’industria farmaceutica: siccome il sudore
è in percentuale composto da una certa quantità di acqua, ricoperti i
polpastrelli di licopodio, essi non avrebbero lasciato impronte
digitali. Un’altra caratteristica saliente del romanzo, è che esso
comincia senza una introduzione (in uso di altri romanzieri britannici
del tempo: Christie, Marsh, Heyer) in cui venga anticipata la genesi del
delitto: in questo, il romanzo si avvicina molto a quello che è il
romanzo americano. Sostanzialmente, infatti, una delle differenze di
struttura del romanzo poliziesco americano, da quello anglosassone per
eccellenza, è l’assenza di una introduzione: il romanzo comincia col
delitto, e solo allora cominciano le indagini di cui è partecipe il
lettore: in altre parole il lettore viene assimilato al detective. Da
ciò, verrà originata la tendenza, per esempio in Queen, a indire una
tenzone tra scrittore e lettore, con la Sfida al lettore. Invece nel
romanzo poliziesco britannico, prima del delitto, vi è una introduzione
che introduce il lettore all’ambiente in cui avviene il delitto; cioè in
altre parole, il lettore viene assimilato al narratore.
Mi sembra una
differenza sostanziale. Perché se in quello britannico, il lettore è
avvantaggiato rispetto al detective perché ha assistito ad avvenimenti
di cui il detective non sa nulla, e quindi la soluzione finale sarà
ancora più una sconfitta del lettore, perché avvenuta per opera di chi
non sapeva nulla ed invece è riuscito ad arrivare primo, in quello
americano, il lettore è davvero sullo stesso piano del detective, e
quindi la tenzone è svolta con pari intensità dalle due parti e c’è
davvero la possibilità che il lettore pareggi la capacità del detective
di risolvere il problema. Nella sua sostanza, il romanzo sembrebbe un
archetipo di un procedural, in quanto, come in tutti i Connington, le
indagini sono svolte dalla polizia; tuttavia ad agire è il Capo della
Polizia, che si comporta come un vero e proprio investigatore,
supportato però da altri organi di polizia. Non è un caso unico:
infatti, più o meno negli stessi anni, nasceva nell’altra parte del
Globo, dalla penna di Anthony Abbot, un altro investigatore simile: Il
Capo della Polizia, Commissario Thatcher Colt. La curiosità è che in
questo romanzo vi è una Camera Chiusa, non conosciuta ai più. Scritta
nello stesso anno de Le tre bare di Carr , nel 1935, presenta
singolarmente parecchi caratteri che la collegano proprio a Carr, direi a
The Hollow Man, del 1935; e a The Gilded Man, romanzo di Carter Dickson
(John Dickson Carr) con Henry Merrivale, del 1942. Innanzitutto il
soggetto: il proprietario di casa che vien trovato mascherato, con
guanti di gomma e scarpe di gomma, ed uno sfollagente in tasca; lì il
padrone di casa veste i panni di un ladro in casa sua, con tanto di
guanti e scarpe di gomma,anche lì non si capisce che ci faccia nel luogo
dove viene trovato, e anche lui viene aggredito: la sola differenza è
che in quel caso viene ferito gravemente, mentre qui viene ucciso. Anche
lì come qui c’è una Camera Chiusa, ma quello che mi interessa far
notare è che ancora una volta, a me sembrerebbe che sia stato Carr a
prendere a modello Connington, e non viceversa. Le date di pubblicazione
sono infatti emblematiche: ma nella sua sostanza, il romanzo differisce
molto da altri più classici. Qui la messinscena del delitto avvicina il
romanzo molto ai più celebrati Carr (erano già apparsi parecchi romanzi
di Carr, con le sue caratteristiche, prima del 1935) : c’è la tipica
tendenza ad inscenare una situazione in cui più elementi appaiono
bizzarri, in cui ciascuno di essi propone a sua volta un sottomistero
che deve’essere spiegato. Interessante mi sembra inoltre la doppia
asserzione di Sir Clinton a riguardo delle Camere Chiuse. A pag. 197
afferma: “..Sono sempre un po’ scettico riguardo alle camere chiuse –
disse seccamente Sir Clinton – mi sono già venuti in mente sei modi in
cui sarebbe stato possibile eseguire il trucchetto di una camera chiusa a
chiave dall’interno. Giusto come esercizio intellettuale, sai?” Reitera
il concetto a pag.226: “…perché avevo pensato parecchio a quei casi di
camera chiusa, giusto per esercitarmi mentalmente”. Si tratta di un
altro esempio di introduzione alla Conferenza di Fell di Carr in The
Hollow Man, prima che fosse concepita: credo proprio, a questo punto,
che si renderà evidente un’ulteriore allargamento della mia Storia delle
Dissertazioni sulle Camere Chiuse, pubblicata sul Blog Mondadori.
Pietro De Palma
domenica 30 ottobre 2016
giovedì 27 ottobre 2016
Peter Lovesey – Il Signore dell’Enigma (Bloodhounds, 1996) – trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N. 2532 del 1997, pagg. 362.
Nel
panorama contemporaneo degli scrittori di romanzi gialli, specializzati
nel genere classico, Peter Lovesey ha un posto di rilievo. Nato a
Whitton, nel 1936, Lovesey ha passato varie vicissitudini: nel 1944 la
sua casa fu distrutta durante un bombardamento tedesco; aveva la
passione dello sport e si dilettò in atletica, ma ben presto capì che
non era la sua strada; frequentò l’Università dove conobbe la sua
attuale moglie; si dedicò all’insegnamento ma poi vi preferì la carriera
di scrittore a tempo pieno. Vive vicino Chichester. Ha firmato col suo
vero nominativo tutti i suoi romanzi tranne tre, firmati invece con
quello di Petert Lear. Anche suo figlio Phil scrive romanzi polizieschi.
Le sue serie sono incentrate su personaggi come il
sergente Cribb, l’agente Thackeray, Bertie (ossia Alberto, principe di
Galles) e Peter Diamond. I suoi romanzi hanno meritato molti premi: nel
1976 con Swing, Swing Together ha vinto il Grand Prix de Littérature Policière; nel 1978 ha vinto il premio Silver Dagger Award con il romanzo Waxwork (bissato nel 1995 con The Summon, e nel 1996 con Bloodhounds); quattro anni dopo ha conquistato l’ambito Gold Dagger Award con il romanzo The False Inspector Dew. Ha vinto anche il Prix du Roman d’Aventures con il romanzo A Case of Spirits, il Premio Macavity con Bloodhounds (bissato nel 2004 con The house sitter) e con lo stesso romanzo anche il Premio Barry. Ha vinto anche il Premio Cartier Diamond Dagger nel 2004, e il Premio Agatha alla carriera del 2008. Nel 1988, il suo Rough Cider è stato selezionato nella cinquina finale dell’ MWA Edgar Award., cosa ripetutasi nel 1996 con The Summons.
Bloodhounds, tradotto e pubblicato in Italia come “Il Signore dell’Enigma”, è dedicato a John Dickson Carr.
Un gruppo di affezionati lettori di gialli,
noti come i Segugi, si riuniscono in una cappella sotterranea della
Chiesa dei SS. Michele e Paolo, a Bath. Sono: Milo Motion, Hilda
Childmark, Jessica Shaw, Polly Wycherley, Rupert Darby, Sid Towers. A
questi, un giorno si unisce anche Shirley-Ann Miller. Ella
si fa subito conoscere per la sua versatilità di conoscenze nel genere e
per la sua amabilità. I Segugi sono versati soprattutto al Mystery,
mentre in qualche modo aborriscono il resto. Al loro interno,
Shirley-Ann riconosce delle dinamiche non certo idilliache, che le fa
ben capire come, al di là delle conoscenze simili, gli affiliati al
gruppo non siano tutti uniti da sentimenti di salda amicizia: già lo
vede quando un giorno Rupert porta il suo cane dabbasso, provocando le
ire di alcuni, e soprattutto di Hilda Chilmark, una vecchia erede di
famiglia illustre ma caduta in rovina, che però, non memore di ciò,
tratta gli altri come fossero una spanna sotto di sé. L’atteggiamento di
rifiuto nei confronti di Rupert e del suo cane, si accentua in altra
occasione, durante la quale sia Sid Towers che Milo Motion (entrambi
patiti di Carr) avrebbero dovuto portare con sé una copia di The Hollow Man,
per discuterne nel gruppo, leggendo anche la Conferenza del dottor
Fell: in questa occasione, proprio la signora Chilmark ha un attacco di
iperventilazione, da cui rinviene per intervento di Jessica Show che
dopo aver rimediato un sacchetto di carta, dove Motion teneva la sua
copia del Carr, la fornisce alla Chilmark perché questa possa
ripristinare la corretta respirazione. Fatto sta che l’incidente
fornisce l’occasione di introdurre dentro la copia del romanzo di Carr,
di proprietà di Syd Tower, un rarissimo francobollo nero da 1 penny,
rubato qualche giorno prima da un museo cittadino, furto che era stato
preventivamente annunciato da un messaggio, in forma di quartina, e che
aveva allertato la polizia cittadina: lo stesso Peter Diamond,
sovrintendente della polizia di Bath, e capo della sezione omicidi,
aveva dovuto fornire all’ispettore Wigfull, incaricato di approntare il
piano per catturare i ladri e poi, dopo il furto, di recuperare il
francobollo trafugato, alcuni suoi uomini, tra cui l’ispettrice Julia
Hargreves, suo braccio destro.
Nel momento in cui il francobollo riappare,
nel corso della riunione dei Segugi, e dopo l’attacco di
iperventilazione di Hilda Chilmark, si insinua il sospetto (anche nel
lettore) che uno dei Segugi possa essere stato il ladro del francobollo.
Syd, dopo un confronto con gli altri Segugi,
decide di andare al Posto di Polizia, e denunciare il ritrovamento, nel
suo libro, che giura di non aver mai lasciato dal momento in cui l’ha
preso a bordo della sua barca, dove vive. Fatto sta che Syd, dopo aver
denunciato la cosa in più interrogatori, ed esser riuscito a dimostrare
la sua estraneità al furto del penny, ritorna alla barca di sua
proprietà, in compagnia di John Wigfull, e, dopo aver aperto il
lucchetto con cui tiene chiusa la cabina, vi trova morto stecchito Milo
Motion: il lucchetto è di tipo speciale, tedesco, con due sole chiavi
che possano aprirlo, di cui una è caduta nello specchio d’acqua dove è
ancorata la barca più di un anno prima; la cabina non ha altre aperture,
se non un’altra porta che è però sprangata dal di dentro da numerosi
catenacci; Syd giura che la sola chiave che possa aprire il lucchetto è
stata sempre nelle sue mani, e nello stesso tempo si professa innocente.
Il prosieguo delle indagini dimostrerà che non è lui l’assassino. Come
ha fatto Milo Motion a entrare nella cabina e perché? Come ha fatto
qualcuno a ucciderlo e riuscire non solo ad aprire un lucchetto che Syd
giura di aver chiuso, ma anche a chiuderlo, stante l’impossibilità
materiale che quel lucchetto possa avere altra chiave per aprirlo? E
soprattutto, perché è stato ucciso?
La cosa più incredibile è che l’omicidio
impossibile sembra essere stato preventivamente annunciato da un’altra
quartina, di cui il significato prima incomprensibile viene
successivamente messo in relazione proprio al romanzo di Carr. E’ chiaro
a questo punto che, se prima qualcuno aveva avanzato l’ipotesi che il
ladro sarebbe potuto essere uno dei Segugi, ora deve esserci tra gli
stessi anche un omicida, salvo poi che lo stesso ladro non si sia
macchiato anche di omicidio.
Varie ipotesi si faranno strada sull’identità
del ladro, anche in grado di spiegare l’omicidio, ma alla risoluzione
si arriverà solo alla fine del romanzo, dopo che ben due ipotesi circa
la soluzione della Camera Chiusa si saranno fatte ammirare (la seconda,
quella di Diamond, distruggerà la prima di Wigfull, dopo il
ritrovamento, da parte dei sommozzatori della polizia, della prima
chiave del lucchetto) per genialità ed estrosità, dopo che un secondo
omicidio avrà gettato altra sabbia negli occhi degli inquirenti (verrà
ucciso Rupert Darby, personaggio scomodo ed inviso ai più, che qualcuno
aveva supposto esser stato l’accusatore di Jessica, all’apertura di una
mostra pittorica presso la Galleria di cui lei era proprietaria, per la
morte di Milo, e l’autore di un “Je t’accuse” scritto con la vernice
bianca su una delle vetrine della galleria); e dopo che qualcuno avrà
cominciato a sospettare anche un ricatto al danno di altra appartenente
dei Segugi, per una gravidanza scomoda e la nascita di un figlio
segreto, sempre gravitante nel gruppo dei Segugi.
Il romanzo non ha neppure un finale scontato,
perché ben due finali si susseguiranno serrati: il primo, con due
colpevoli quasi sicuri ma troppo annunciati, ed un altro, quello
definitivo, con un colpevole per nulla scontato, non lontano dall’azione
e nello stesso tempo mai tenuto presente nelle indagini, e riportato
sotto le luci dei riflettori, solo dopo la riflessione finale di
Diamond.
Romanzo bellissimo e spettacolare, presenta
un’incredibile varietà di personaggi ( e quindi di moventi), pur
all’interno di una struttura narrativa, già consolidata e affrontata in
altri romanzi da altri scrittori: infatti l’associazione cosiddetta di
Segugi, formata da lettori e appassionati cultori di gialli, è solo
l’ultima in ordine di tempo, tra le tante che l’hanno preceduta: basterà
ricordare quella dei Vedovi Neri di Asimov, o quella dei Sette Solutori
di Sladek in Invisibile Green, o ancora i tre amici appassionati di gialli, che si affronteranno in Gammal Ost
di Ulf Durling. Tuttavia è il caso di ricordare che Lovesey, introduce
nel romanzo anche una vena decisamente umoristica, e ironica (basterà
ricordare che i Segugi son fatti incontrare in una cappella sotterranea
di una chiesa, neanche fossero gli adepti di una setta, nel cui ambito
si scontrano rivalità, odii, e vengono perpetrati furti, ricatti e
omicidi: una setta satanica, quasi): è come se lo stesso autore
ironizzasse su chi il mystery lo prende terribilmente sul serio.
Lovesey però imprime in questo romanzo, un
suo marchio riconoscibilissimo: l’omaggio a John Dickson Carr, ricordato
dall’inizio alla fine, attraverso accenni, citazioni e conferenze, che
hanno come riferimento, il romanzo più ricordato di quello: The Hollow Man,
Le tre bare. Questo omaggio non è però solo formale ma anche
sostanziale in quanto viene elaborato un doppio enigma da Camera Chiusa:
un assassinio in una cabina di una barca, ermeticamente chiusa
dall’esterno per mezzo di un lucchetto a prova di ladro, e dall’interno
da un’altra porta chiusa per mezzo di un catenaccio; l’apparizione di un
francobollo rarissimo, rubato da un museo, in un libro che il
possessore giura di non aver mai depositato altrove (e non è lui
l’assassino!).
A questo si aggiunge la vena leggera di cui è
impregnato il romanzo, l’humour sempre presente, la ridda dei sospetti,
le piste vere e false, le invenzioni scoppiettanti che non sono mai
definitive ma lasciano sempre una seconda possibilità al ragionamento.
Diversamente da altri autori che tengono alto
il ritmo con trovate affini all’action, Lovesey riesce ad attrarre
l’attenzione del lettore (che non scema mai fino alla fine) solo con le
ripetute trovate. Anzi, il fatto che a venti pagine dalla fine, Lovesey
faccia intravedere un possibile sospettabile, non è per me da mettere in
relazione con la tendenza di alcuni scrittori di vecchia scuola di
utilizzare le ultime pagine, come una sorta di riepilogo che spieghi i
fatti precedenti, quanto con il fatto che l’autore stia lanciando
un’altra falsa esca, sì che la verità ultima sia ricercata altrove: è il
vecchio presupposto di Agatha Christie, in base al quale perché il
quadro della situazione possa dirsi risolto in tutto, è necessario che
tutte le tessere del mosaico vadano a posto, non forzando in alcun modo
il loro inserimento.
L’unica cosa che lascia qua e là interdetti è
la spiegazione nascosta di un determinato evento, non comunicata al
lettore immediatamente e invece rivelata solo in un secondo momento (gli
spruzzi della vernice bianca non solo sul basco di Rupert ma anche sul
mantello del pelo del suo cane, che non era stato da lui portato al
vernissage della mostra di pittura), anche se si capisce subito la sua
portata: tiene alta l’attenzione del lettore spettatore sull’ipostesi
contestuale, finchè non viene rivelato il particolare nascosto, che
porta ad una soluzione diametralmente diversa, anche se non definitiva
per quanto attiene la scoperta dell’assassino.
L’attenzione di Lovesey sulle personalità
degli attori del dramma, per di più, non è per nulla relativa: lo
dimostra l’influenza che tutti i personaggi hanno nello svolgimento
dell’azione narrativa: persino quella che sembrerebbe essere l’unica
persona a non poter essere inserita nel gruppo dei sospettabili, perché
l’unica ad essere entrata a far parte del gruppo dei Segugi, avrà una
parte importantissima seppure indiretta, ed entrerà di prepotenza nella
soluzione finale,a nche se non personalmente.
Così nel romanzo, l’andamento dell’azione vedrà l’inizio coincidente nella fine e viceversa.
Pietro De Palma
Notizie più dettagliate sull’autore, nel suo sito:
http://peterlovesey.com/about
Noël Windry: Il giudice è in vacanza (Le Piège aux diamants, 1933) – trad. Alberto Tedeschi – G.E.M. n. 167 del 1940
Noel Vindry
è una figura storica del romanzo poliziesco francese ad enigma e in particolare
delle Camere Chiuse.
Nato nel 1896 nell’Alta Savoia e morto a Parigi nel 1954,
egli, avvocato e poi giudice, giudice istruttore, creò un personaggio in cui
trasfondere la propria attività, conferendogli una grande calma, riflessione e
capacità di analizzare a fondo un problema; una grande cultura, unita all’amore
per la buona cucina; e facendone un gran fumatore di pipa. In sostanza nel
giudice Allou si possono tranquillamente notare i caratteri di almeno sei
grandi detective, a lui precedenti in quanto ad apparizione (e a me pare
evidente che Alan Twist di Halter sia molto vicino, come caratterizzazione del
personaggio, ad Allou). Vindry consegnò alle stampe dodici romanzi, con il
giudice Allou, tutte Camere Chiuse. Di essi, pochissimi sono stati ristampati
in epoca moderna, e sul mercato dell’antiquariato librario e del collezionismo,
i Vindry essensdo difficili a trovarsi, sono anche piuttosto costosi.
Ecco la
serie originale:
- La Maison qui tue, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1931
- Le Loup du Grand-Aboy, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1932
- La Fuite des morts, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1933
- Le Piège aux diamants, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1933
- Le Fantôme de midi, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1934
- La Bête hurlante, Gallimard, 1934
- L’Armoire aux poisons, Gallimard, 1934
- Le Collier de sang, Gallimard, 1934
- Le Cri des mouettes, Gallimard, 1934
- Le Double Alibi, Gallimard, 1934
- Masques noirs, Gallimard, 1935
- À travers les murailles, Gallimard, 1937
- Les Verres noirs, Gallimard, « Le Scarabée d’Or » no 16, 1938
Di Noel
Vindry, sono stati pubblicati solo tre romanzi in Italia, due in libro (La
Maison qui tue e Le Piège aux diamants ) ed uno sotto forma di
romanzo a puntate su rivista (Les Verres noirs).
E’ bene
subito dire che l’edizione GEM, tradotta da Alberto Tedeschi, direttore e alla
bisogna anche traduttore, fu massacrata. Perché ? L’interrogativo non riguarda
tanto la sostanza, perché i GEM erano pubblicazioni popolari, estremamente
ridotte, rispetto alle più lussuose e sovra-copertinate Palmine, romanzi che
venivano opportunamente tagliati nelle traduzioni e presentati in paperback.
L’interrogativo che mi pongo, che pongo e che rimarrà purtroppo senza risposta,
è perché mai proprio un romanzo di Vindry, l’unico poi di cui Mondadori avesse
acquisito i diritti, venne sottoposto a questa infame tosura e quindi non
pubblicato integralmente nelle Palmine ed invece lo furono altri romanzi, per
esempio i due di Marquand, con Mr. Moto, certamente meno importanti? Io penso
per una ragione. Tedeschi non amava Carr, e non amava i francesi. Aveva
pubblicato uno dei capolavori di Very nelle Palmine, e uno Steeman. Ma pur
essendo due Camere Chiuse, gli autori erano più conosciuti in Italia rispetto a
Vindry. Persino i due Marquand avrebbero potuto, immagino io, nelle aspirazioni
di Tedeschi, che gestiva con poteri assoluti quasi la collana, rendere di più,
perché Mr. Moto è affine a Charlie Chan, è un detective asiatico, e come tale
avrebbe potuto far ricordare al lettore attento il protagonista dei romanzi di
Biggers. Fatto sta che proprio per il taglio importante del romanzo e per aver
fatto più un lavoro di collage che non di vera traduzione, il romanzo è molto
difficilmente leggibile e non ha un grande respiro. Però il fascino
dell’atmosfera rimane tutta, perché è il tema del romanzo che le dona un
fascino tutto suo.
E’ bene
anticipare qui anche che il protagonista non è tanto il Giudice Allou,
protagonista dei dodici romanzi di Vindry, quanto il suo collega Dampierre,
incaricato delle indagini. Allou, compare in un secondo tempo, come accade nel
primo romanzo di Carter Dickson con H.M., e diventa quindi il “deus ex-machina”
della ricostruzione e della soluzione finale.
Gli attori
principali del dramma sono i tre soci delle “Gallerie del Porto”: Flavio
Dancour, suo fratello Paul e André Caroux. Il padrone originario è Flavio che
però ben presto, accortosi di aver intrapreso un’attività ben al di là delle
proprie forze, si consocia con un amico e con il fratello Paul. I due, per
arricchirsi alle spalle dell’ingenuo Flavio, fraudolentemente fanno in modo che
i suoi affari vadano alla malora e in più gli concedono un prestito che sanno
non potrà mai essere onorato. Insomma, ben presto, contro Flavio viene spiccato
un mandato di arresto per bancarotta fraudolenta. Solo in extremis il fratello
Paul si ravvede, e pure avaro e taccagno qual è, concede un sostegno di
settantacinquemila franchi a Flavio e la possibilità di fuggire in motoscafo,
giacchè per la legge francese il domicilio era inviolabile dal tramonto fino
all’alba e quindi Dalcour, a meno che non si consegni lui alle forze di
polizia, dovrà essere arrestato all’alba, e fino a quel momento il commissario
Laurent e degli agenti circonderanno la casa impedendo a qualsiasi persona, che
fosse in quella casa, di uscire senza essere da loro intercettato. Durante
l’assedio, Flavio verrà visto affacciarsi alla finestra e rispondere al
richiamo della polizia ad arrendersi e verrà scorto da un agente arrampicatosi
fin sotto alla finestra, prima seduto ad un tavolo, poi per terra. Il fatto è
che prima che venga visto per terra, si sente chiarissimo un colpo di pistola,
poi viene visto il corpo di Flavio per terra ed allora si è inclini a pensare
che si sia ucciso. In realtà non tutto va così.
Infatti,
nonostante lo sparo, la polizia non entra in casa perché la porta è dotata di
serratura particolare. Tuttavia vedono un’auto avvicinarsi sempre più: è il
dottor Rufare, amico della vittima, il quale era spaventato per dei rumori di
passi e per questo gli ha chiesto di venire subito. Tuttavia nessuno può essere
uscito, perché c’è il cordone di polizia tutt’attorno. Ma quando entrano, e
trovano Dacour riverso per terra, il dottore, visitandolo attesta che è stato
ucciso con un corpo contundente che gli ha fratturato il cranio. Mentre il
dottore visita il cadavere, i poliziotti e il commissario perquisiscono la
casa, mentre il figlio del dottore sta sulla porta di casa, non sopportando la
vista di un cadavere.
Non trovano
nessuno. E neanche la pistola. E non può essere scappato, perché l’uscita era
presidiata da Pierre, il figlio di Rufare. E allora? Come ha fatto l’assassino
a fuggire?
Al primo
mistero se ne aggiungono degli altri.
Il dottore
afferma di avere visto in casa di Dalcour 5 meravigliosi brillanti azzurri,
stimati trecentomila franchi, che evidentemente la vittima aveva sperato di
portare via con sé. Ma i 5 brillanti non si trovano: erano in una cassettina di
ferro, che si apriva con un congegno a scatto attivabile mediante un segreto.
Ma brillanti e cassettina non si trovano: il delitto è la conseguenza di un
furto? L’assassino è il ladro?
La polizia
mette gli occhi sulla ex domestica di Dalcour passata da pochi giorni a
servizio da Caroux: può esser stata lei a trafugare i brillanti. La polizia non
crede alle sue parole e l’arresta. Il fatto è che la polizia è convinta che ci
siano due responsabili: l’assassino e Giannina Arlaud, la domestica. Perché le
impronte rinvenute su un candelabro di argento, non appartengono ad alcuno dei
sospetti, tantomeno a Giannina.
Qualche
giorno dopo, viene trovato morto Paul Dalcour, fratello di Flavio: è stato
trovato nella sua povera stanza (non era povero, ma viveva da povero per non
spendere soldi ) chiusa dall’interno, asfissiato dal gas; sul tavolo una
lettera in cui si proclama assassino del fratello. Solo che le impronte sul
candelabro non sono le sue.
Emerge un
altro fatto importante ora: Flavio, otto giorni prima di morire, aveva ceduto i
brillanti a suo fratello Paul, in cambio di un assegno di duecentocinquantamila
franchi. Perché allora Rufare ha detto di averli visti a casa di Flavio? Mentre
Giannina dice di non vederli più almeno da due settimane, e il tempo
coinciderebbe con la vendita degli stessi? O Flavio non li ha venduti e allora
la notizia è falsa, oppure li ha venduti e Rufare ha mentito. Ma perché? Rufare
dev’essere estraneo al delitto: del resto la telefonata dal suo amico è stata
fatta. Per quale motivo Dalcour avrebbe chiamato proprio il suo assassino? Ma
poi come avrebbe fatto ad ucciderlo, se non c’era quando Dalcour è morto? No, è
un’ipotesi che non regge. Rufare dev’essere estraneo.
Come
insolita e fonte di dubbi è la faccenda di Paul Dalcour. Per quale motivo egli
si sarebbe dichiarato responsabile della morte del fratello se gli aveva dato
un assegno per duecentocinquantamila franchi a fronte dei cinque
brillanti? E ancora più strana è la questione dell’omicidio: per quale motivo
sarebbe stato ucciso se non aveva già più i diamanti? Forse l’assassino non lo
sapeva, un assassino ignoto ancora nella vicenda.
Un nuovo
colpo di scena esplode. La polizia riceve una telefonata anonima e intercetta
due ladri che hanno compiuto un furto in appartamento e la casa è quella di
Caroux: essi stanno portando via una cassettina, che viene riconosciuta da
Rufare, come quella dell’amico. Dopo averla fatta scassinare, vi trovano
dentro, immersi nella bambagia, cinque brillanti azzurri. Conseguenza
possibile? Se Caroux aveva i brillanti, è chiaro che egli è l’assassino. Si
pone sempre il problema: come avrà fatto? Caroux viene arrestato: ladro e
assassino sono la stessa persona. Almeno così parrebbe.
Ma un nuovo
sconvolgimento accade: i cinque brillanti, analizzati, sono falsi: per quale
motivo avrebbe ammazzato Dalcour? Per cinque brillanti azzurri falsi? Caroux
non lo sapeva? E perché Dalcour aveva 5 brillanti falsi, quando aveva venduto
quelli veri al fratello, ora scomparsi?
Si presenta
un gioielliere spontaneamente e consegna alla polizia un brillante, che è stato
da lui acquistato a casa di una vecchia megera, a lui presentatasi per la
vendita: essa viene identificata nella domestica di Paul Dacour. Insomma un
nuovo personaggio entra nella vicenda: che ruolo ha?
Come ha
fatto ad entrare in possesso dei brillanti? Possibile che il suo padrone, avaro
e taccagno anche in punto di morte (andava a letto presto per non consumare la
luce, e risparmiava sull’inchiostro e sui pennini, e utilizzava come carta da
lettera quella ricavata da altri fogli già utilizzati) gliel’avesse detto e si
fidasse tanto di lei?
Caroux prima
si dichiara estraneo alla vicenda, poi chiama in causa Rufare e Giannina.
Rufare, messo alle strette, rivela il vero fine di Dalcour, che lo aveva
“costretto” a rimanere invece di fuggire subito: tentare una truffa, vendendo
all’amico, ma anche socio di Caroux in operazioni finanziarie al limite della
legalità, i cinque pezzi di vetro abilmente contraffatti.
Le indagini
sono ad punto di stallo: perché se è vero che Caroux è stato arrestato con
l’accusa di furto, non c’è nessuna prova che egli abbia ucciso Dalcour, né la
polizia ha prove per dimostrarlo.
Entra in
scena a questo punto il giudice Allou, amico del cugino del giudice Dampierre,
il quale, non volendo umiliare il collega, preferisce che sia quello a dedurre,
dopo aver raccolto delle prove. Allou è già molto conosciuto per aver risolto
brillantemente dei casi insoluti di Camera Chiusa. Dopo aver posto sulla
bilancia delle domande che nessuno si era posto (Dalcour aveva un’assicurazione
sulla vita? Chi ha fatto la telefonata alla polizia che ha permesso di bloccare
i due ladri? Sono davvero i brillanti il movente dell’omicidio?), Allou provoca
l’azione del collega. Le indagini permettono di identificare il misterioso
informatore nella persona del dott. Rufare: come sapeva egli che Caroux aveva
rubato i diamanti? Rufare rientra nell’inchiesta, gli vengono prese le impronte
digitali, ed ecco..queste sono quelle trovate sul candelabro. Capovolgimento
della situazione: Caroux non è più l’assassino, ma solo il ladro; Rufare è
l’assassino. Ma come avrebbe mai fatto? E allora Paul Dalcour perché si è
dichiarato assassino del fratello?
Allou
propone la sua verità: Rufare non avrebbe ucciso ma solo tentato un’estorsione.
Ma allora chi è stato? E come ha fatto? In un pirotecnico susseguirsi di eventi
e rivelazioni, Allou identificherà l’assassino, il ruolo di un complice, il
mistero della pistola scomparsa, di quella degli altri quattro brillanti e
dell’assegno di duecentocinquantamila franchi.
Romanzo
pirotecnico, propone una continua inversione di ruoli e situazioni, giungendo
sul finire del romanzo a proporre una ipotesi sconvolgente: un omicidio che
diventa suicidio e un suicidio che diventa omicidio, riuscendo a ricostruire
esattamente la vicenda e il ruolo di ogni singolo protagonista. Il continuo
turbillon di avvenimenti, di rivelazioni e di controrivelazioni che annullano
le precedenti creano uno spaesamento del lettore che, avvinto dagli
avvenimenti, non riesce più a capire nulla. Confesso che persino il
sottoscritto, che ne ha letti tanti di romanzi, non avrebbe mai pensato alla
possibilità di invertire la sostanza delle morti dei fratelli. Veramente un
romanzo straordinario.
Del resto il
coinvolgimento di Rufare nella vicenda si estrinseca in una messinscena: i
passi che Dalcour aveva sentito, sono solo un depistaggio, per… Ma allora in
cosa c’entra? Come mai non è l’assassino se sul candelabro che ha provocato la
morte di Dalcour c’erano le sue impronte? Ma Dalcour è morto per la frattura
oppure no? E perché lui avrebbe attestato la morte di Dalcour? E perché
l’autopsia rivela la frattura effettivamente? Insomma di carne sul fuoco Vindry
ne mette tanta!
Ricordiamoci
che il romanzo, il terzo nella successione dei dodici di Vindry, è del 1933.
Nel 1941
Agatha Christie consegnerà alla storia un romanzo che farà epoca ed influenzerà
tutto il genere: Evil Under the Sun. Vi ricordate l’escamotage del
romanzo? Beh, è anticipato in questo, né più né meno. Possibile che la Christie
abbia copiato l’idea di Vindry? Possibilissimo direi, visto che stranamente
anche quella di un romanzo di Steeman, Six hommes morts, si ritrova nel
suo capolavoro Ten Little Niggers, e in quello di Bristow & Manning,
The Invisible Host. A mio parere bisognerebbe analizzare l’opera della
Christie alla luce anche dell’influenza del romanzo francese. Non a caso lei riconosceva
l’enorme influsso dato alla sua velleità di scrivere romanzi polizieschi, di Le
mystere de la chambre jaune di Gaston Leroux. In realtà l’accertamento della
morte nel romanzo di Agatha Christie porta ad una serie di conseguenze, perché
la morte non è ancora avvenuta; mentre nel romanzo di Vindry la morte è
avvenuta, ma l’accertamento di essa si esplica con un diverso iter
consequenziale. Tuttavia l’idea base è la stessa: un falso accertamento
effettuato su un corpo esanime e quello che compie l’accertatore nel momento in
cui ha allontanato i presenti.
E Vindry?
Indubbiamente già in questo romanzo troviamo un tema che ricorrerà in uno dei
suoi capolavori successivi, La Bête hurlante: il fatto che la casa sia
circondata da un cordone di polizia che determina l’impossibilità che
l’assassino sia riuscito a fuggire. Ma troviamo anche caratteristiche riconducibili
anche ad altri romanzieri francesi del periodo: il fatto che al centro della
trama non vi sia una caratterizzazione psicologica dei personaggi ma l’enigma.
E’ l’enigma, il centro di tutto, intorno a cui si muove la vicenda: in sé per
sé la caratterizzazione psicologica è nulla o quasi e anche l’esiguità degli
attori fa sì che l’azione si concentri esclusivamente sulla storia, un
procedimento che si trova concretizzato anche in Boileau. E’ evidente che
Vindry si ponga in maniera antitetica rispetto a Simenon, per cui invece
l’enigma non è il fulcro della vicenda ma solo un tassello ed il centro di
tutto invece è la psicologia dei personaggi: Vindry è molto più vicino a Carr,
anche se Carr in certi suoi romanzi caratterizza i personaggi in maniera più a
tutto tondo di quanto non faccia Vindry.
Per lo
specialista in letteratura poliziesca Roland Lacourbe, Vindry è l'equivalente
francese di John Dickson Carr. Io, tuttavia, la penso diversamente: a mio
parere, Vindry più che essere l'equivalente di John Dickson Carr, è
l'equivalente di Clayton Rawson. Come Clayton Rawson nella creazione
dell'atmosfera non è il massimo, così accade nei romanzi di Vindry, dove
tuttavia la qualità della trama e la soluzione sono di alta qualità, di estrema
virtuosità. Quasi in più rispetto al Carr, come accade ad esempio a mio parere
nei romanzi di Rawson.
Vindry è
vicino a Carr, ma il Carr di Bencolin. E non tanto per la struttura del romanzo
come abbiamo detto, ma per certi particolari che sono presenti in It Walks
By Night e qui si ripetono: Vindry comincia a scrivere nel 1931,
mentre il primo romanzo di Carr è del 1930; in ambedue, protagonista è un
giudice, ancor più juge d’instruction: è lui che risolve il mistero; in Carr il
primo Bencolin si trova dinanzi una Camera Chiusa, e guarda caso di quali casi
si occupa il giudice Allou? Di Camere Chiuse.
Tuttavia se
Vindry è vicino a Carr, lo è anche per un’altra faccenda: ambedue, ma in realtà
anche Boileau spesso, per arrivare alla soluzione, capovolgono la situazione:
quando il quadro delle prove non porta a nulla, provano a guardare il problema
da una diversa prospettiva, che spesso è opposta. Sia Bencolin o Fell (o H.M.)
sia Allou hanno la capacità di staccarsi dal mondo reale e guardare la
successione degli eventi come se il loro spirito si fosse librato astralmente,
staccandosi dalla materialità degli eventi terreni.
Così come in Hag’s Nook capovolgendo l’ordine
delle cose Carr riesce a individuare l’assassino tra il meno probabile, qui
Vindry riesce a dargli un nome, anzi a provare la sua colpevolezza, sovvertendo
l’ordine delle cose: un assassinio diventa suicidio ed un suicidio diventa
omicidio.
Tuttavia,
nel momento in cui accade questo rovesciamento di prospettiva, aumenta anche il
virtuosismo dell’indagine. Se infatti le cose così avrebbero un senso (Paul
Dalcour è stato trovato a letto come se volesse dormire; la lettera che ha
lasciato, dato la sua tendenza a utilizzare pezzi di lettera, sarebbe potuta
essere un frammento di una lettera più lunga, con un senso diverso rispetto a
quello che a prima vista si desumeva: la filiazione dal Chesterton di The
Wrong Shape, è chiarissima), gli interrogativi aumentano a dismisura: con
l’omicidio, si tende a conoscere l’identità dell’omicida ed il suo modus
agendi; con il suicidio, la scomparsa della pistola, dell’assegno, la frattura
del cranio, la strana constatazione di decesso di Rufare che collima con quella
del medico legale, le sue impronte sul candelabro, ma nello stesso tempo la sua
estraneità all’assassinio; e nel tempo stesso, il suicidio che diventa omicidio
di Paul, costringe gli inquirenti a confrontarsi con la soluzione di una Camera
Chiusa diventata tale. E il tutto, spiegando anche gli alibi.
Così, in
sostanza, il capovolgimento dell’ordine delle cose porta Vindry a capovolgere
il senso di due Camere Chiuse: spiegando la prima in modo che non lo sia, e
spiegando la seconda morte come in effetti una Camera Chiusa, al tempo stesso
dandone una soluzione assolutamente lineare.
E’ da dire
peraltro che Vindry, a differenza di Agatha Christie e apparentandosi ancora
una volta a Carr, non imbroglia per nulla il lettore: il quadro dei fatti è
assolutamente quello che è davanti agli occhi de magistrato, quella che cambia
è la prospettiva da cui viene guardato il problema e la capacità di immaginare,
allontanandosi dal reale.
E per certi
versi Vindry, realizza qualcosa di suo, una caratteristica assolutamente
personale, nel suo far diventare difficile il facile: diversamente da tutti i
comuni detective che cercano in tutti i modi di semplificare la successione
degli eventi, riducendo i fattori ai minimi termini, Vindry realizza un
absurdum: spiegare l’inspiegabile, facendolo diventare ancora più astruso e più
denso di implicazioni recondite, nel tempo stesso spiegandole e dando
all’insieme un suo significato.
Pietro De
Palma
lunedì 24 ottobre 2016
Herbert Resnicow : Il Grande Gold (The Gold Solution, 1983) – Traduz. Gigi Coretti – Il Giallo Mondadori N. 1870 del 1984.
Herbert
Resnicow è scomparso quindici anni fa, dopo aver vissuto 77 anni. Era nato nel
1920, ma la sua entrata di diritto nella storia della letteratura poliziesca,
si attua solo nel 1983 con The Gold Solution, opera prepotente e anche
ammiccatamene ruffiana che gli fa conquistare una nomination a sorpresa per la
miglior opera prima nel campo dei romanzi, agli Edgar Award del 1984.
E’ il suo
debutto ufficiale. Rinuncia alla Crime Novel americana contemporanea, fatta di
Hard-boiled mischiato a temi sociali per recuperare la Detection Novel più
classica, ammiccando a Van Dine e Rex Stout.
E’ stato per
molti anni ingegnere edile, combattendo nel Genio Militare durante la Seconda
Guerra Mondiale, e svolgendo la propria professione fino al giorno in cui ha
deciso di scrivere un romanzo giallo. L’occasione, se così si volesse dire,
gliela fornì un avvenimento doloroso: colpito da infarto, decise di ingannare
il tempo scrivendo prima racconti, poi un romanzo in cui inserisse le proprie
conoscenze di tecnica delle costruzioni assieme ad una trama poliziesca di tipo
classico. Fino alla morte, avvenuta sempre per questioni cardiache, ha scritto
parecchi altri romanzi alcuni dei quali hanno ottenuto notevoli successi di
pubblico. Simpatico, “bello in carne”, si è interessato anche alla costruzione
di impianti hi-fi avveniristici. Hobby: polizieschi e musica classica. Forse per
questo mi è anche così simpatico. Al tempo disse ironicamente che “il comitato
(n.d.r. : per l’assegnazione degli Egar) forse ha dei pregiudizi contro gli
ebrei di mezza età, casalinghi, sposati, piccoli e grassi”. A distanza di
quindici anni, comunque, pochi si ricordano di lui. Parecchi dei suoi romanzi
sono stati pubblicati ne Il Giallo Mondadori
L’opera
prima di Herbert Resnicow è The Gold Solution, 1983.
In essa si
ritrovano accenni biografici: infatti, Alexander Gold, costruttore, come il suo
ideatore, Resnicow appunto, ha subito un grave infarto. Durante la
convalescenza, dal suo amico e mentore Hanslick Burton, ricchissimo avvocato,
gli viene proposto di occuparsi di un caso apparentemente senza via d’uscita:
un giovane architetto alle prime armi, Jonathan Candell, è stato trovato con un
coltello grondante di sangue in mano davanti all’agonizzante celeberrimo
architetto Roger Allen Talbott, dell’omonimo studio, famoso per i suoi edifici
a piramide. Cosa c’è di interessante? Il fatto che allo studio dove è stato
trovato il moribondo, sito nell’attico di una avveniristica costruzione dotata
dei sistemi di allarme più efficienti, si accede solo attraverso un ascensore,
che viene sbloccato da Talbott stesso; che Candell è stato chiamato da Talbott
meno di un minuto prima del suo accoltellamento, e dopo solo la cameriera gli
aveva portato dei formaggini danesi e del latte; che nello studio non ci fosse
nessun altro all’infuori di Candell e dello stesso Talbot; e che le uniche
porte di sicurezza esistenti fossero dotate di allarmi e campanelli, tali che
nessuno avrebbe potuto usarle senza essere individuato immediatamente; inoltre
non esistono passaggi segreti o false pareti. Insomma..in pratica una camera
chiusa, con un unico possibile assassino. Che però si professa innocente: è
ebreo praticante, contrario alla violenza, non avrebbe avuto nessun movente per
uccidere Talbott. Del suo caso si è dapprima interessata Norma, moglie di
Hanslick. Poi ella, amica di Pearl, a sua volta moglie di Alexander Gold, pensa
che solo lui, l’investigatore dilettante, possa risolvere il caso, evitare la
pena di morte a Candell, e togliere una grossa gatta da pelare a Hanslick che
non sa come vincere una causa disperata.
Alexander
accetta, ma solo in cambio di una grossa ricompensa: dovrà, da casa sua,
impossibilitato a muoversi per almeno tre mesi, risolvere il caso sulla base
dei dossier e delle prove circostanziali e delle indagini svolte, al suo posto,
dalla moglie, Norma. Ecco il legame con Stout: come Nero Wolfe, Alexander Gold
è pesante, e non si sposta, e svolge le indagini, e risolverà questo
intricatissimo caso, basandosi sull’aiuto prezioso di sua moglie Norma che come
Archie Goodwin, fa da spalla al grande investigatore. Archie, non Watson:
Watson assiste alle indagini di Sherlock Holmes, non le conduce come fa Archie,
e Norma.
I soli
possibili sospetti sono i quattro soci di Talbott (Bauer, Bishop, Dakin, Kirsh)
che però al momento della morte non erano lì, la moglie Irma (che però nel
momento in cui moriva il marito era dabbasso assieme alla cameriera), ed il
suocero (Rufus C. Miller). Ma quale movente avrebbero avuto tutti e sei ad
uccidere la classica gallina dalle uova d’oro, il più celebre architetto
d’America, che monetizzava in fiumi di denaro qualsiasi idea, con i suoi
celeberrimi schizzi a matita, perfetti, senza cancellature (si diceva persino
che in gioventù avesse emulato Giotto, disegnando a mano libera una O perfetta,
ed inscrivendo al suo interno un altro cerchio perfetto), sviluppati poi dal
team di architetti che gli stava attorno in soluzionia architettoniche ardite?.
Sta ad Alexander trovarlo.
Riesce a
togliere la maschera a tutti e quattro (invidiosi fino all’estremo e desiderosi
di succedergli nella società, almeno tre su quattro): tutti e quattro lo
odiavano, ognuno rimproverandogli la fama acquistata a spese loro, senza che
avessero una pur minima parte della sua celebrità e dei suoi soldi, quando non
esistesse altra ragione valida, più segreta. Norma fornisce a suo marito
l’indizio che lui Gold, tramuta in altro movente: l’amore morboso di Talbott,
che come alcuni produttori cinematografici degli anni ’20, approfittava
sessualmente di tutte le collaboratrici “piccole, bionde e cicciotelle”, per
una sola volta, nel suo studio, dopo averle irretite, e portandole sempre o
quasi, all’esaurimento nervoso, o a gravi sindromi da suicidio (la segretaria
di cui si innamora il dirigente ricchissimo, che poi la abbandona).
Riuscirà a
individuare l’unico assassino, tra i sei sospettati, distruggendo un alibi inattaccabile.
Basandosi sulla massima poliziesca più classica, che cioè quando il possibile
non trova posto bisogna attaccarsi all’impossibile per spiegare l’inspiegabile,
Gold imbastisce la sua accusa, facendo leva su una serie di indizi che gli
fornisce la moglie, già archivista, e principalmente concentrando le indagini
su chi potesse trarne dei vantaggi: Cui Prodest?
Se
all’inizio pareva che tutti e sei avrebbero avuto solo a rimetterci dalla morte
di Talbott, scavando in profondità, facendo domande, anche le meno sensate,
costruendo possibili rapporti tra persone apparentemente estranee, Gold e la
moglie riescono a mettere in luce un piano accuratamente premeditato, per il
quale abbisognava solo avere a portata un capro espiatorio, Candell appunto, che
non avesse alcun possibile rapporto di odio/amore con l’assassino, cosicché non
si potesse con lui trovare alcun tipo di legame. Un qualsiasi capro espiatorio:
se non ci fosse stato Candell, probabilmente qualche altro povero Cristo
sarebbe stato scelto per essere immolato sull’altare del delitto perfetto. Ma
la costruzione ha però delle incrinature invisibili, che Gold riesce a rendere
visibili.
La Camera
Chiusa viene spiegata non sulla base di aggeggi o diavolerie meccaniche strane,
bensì sulla contemporaneità di azioni di cui originariamente non si sapeva
nulla e che egli suppone, ricercando poi una serie di prove che la possano
suffragare; e soprattutto su un patto di morte.
Interessante
romanzo, non si distingue per qualità narrativa o stilistica, quanto per l’uso
sapiente e manieristico dei riferimenti, attingendo da tutta la letteratura che
prima di lui si è sviluppata: da Carr, da Rex Stout, e persino da Ellery Queen.
Infatti, cos’altro sarebbero gli innocenti schizzi buttati giù da Talbott
sull’ultimo suo progetto, su cui stava lavorando mentre l’assassino lo ha
sorpreso, fatto arrivare lì all’ultimo piano da qualcuno, e camminando
silenzioso sulla spessa e morbida moquette, se non “the dying message” di
queeniana memoria? Ignorati da poliziotti troppo reali per possedere un
briciolo di quella fantasia che permette a Gold di risolvere il caso, e troppo
ignoranti per non aver letto neanche un romanzo della grande stagione creativa
di Ellery Queen, non riescono a vedere nella “rapa e nel salame”, per esempio,
uno dei soli possibili indizi che il morente Talbott avrebbe potuto trasmettere
senza che il suo assassino che gli era accanto potesse in alcun modo sospettare
che essi fossero delle accuse a suo carico.
L’unico
rimpianto e anche il solo rimprovero che gli posso fare è di non esser riuscito
a mantenere fino alla fine la tensione per l’accusa dell’assassino, tradendosi
alcune pagine prima, e mantenendo la tensione solo per la scoperta del
complice, l’ideatore della messinscena.
Alla base di
tutto cosa c’è? Ma ovviamente il vil danaro! E anche il sesso! Due delle
cause preferite che da sempre, sotto sotto, costituiscono la base per i delitti
veri e soprattutto per quelli di carta, i nostri amati “Delitti per diletto” di
Mandeliana memoria.
Pietro De
Palma
sabato 15 ottobre 2016
Paul Halter : A 139 Passi dalla morte (A 139 Pas de la Mort, 1994) – trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N. 2603 del 1998.
Il titolo originale francese del romanzo di Paul Halter, che esaminiamo oggi, è A 139 pas de la mort, tradotto fedelmente e in maniera inconsueta nell’italiano A 139 passi dalla morte.
Roland Lacourbe, anni fa, parlandone, lo etichettò
come uno dei lavori minori dello scrittore alsaziano: io, pur
riconoscendo l’indiscussa autorevolezza di Lacourbe, sono di diverso
avviso: per me, si tratta di uno dei lavori migliori, un autentico
capolavoro.
Su che basi faccio queste affermazioni?
Il romanzo è un vero florilegio di situazioni
bizzarre, strane. La storia è sviluppata sulla base di una trama
quantomai strampalata e macabra, che più non si può: chi ama come me i
romanzi francesi (fu Igor Longo a gettare in me i semi di questo amore),
sa che spesso il “macabre” è una caratteristica dei polizieschi
francesi di un certo periodo. Halter ha ereditato questa peculiarità, e
chi lo ama sa che in molti dei suoi romanzi sono presenti le scene
macabre, probabilmente una eredità anche di Edgar Allan Poe. Nel nostro
caso, il “macabro” abbonda.
Ma Halter è anche un manierista, l’ho già detto in
altro tempo; e del resto non potrebbe che essere così, visto che dopo
Carr (e Rawson) tutto il resto dei romanzieri che ha seguito le loro
orme, è finito invariabilmente per ripetere le loro invenzioni, magari
solo inventando nuovi modi per attuarle. Ma anche se manierista, Halter
ha un grande pregio: è un romanziere nato, con una fantasia straripante e
delirante.
Qui riesce a fondere due situazioni, che a prima
vista sono assolutamente slegate, in una macchinazione che pur non
riuscendo a convincere al pari dei plot carriani (è pur sempre un
manierista) almeno impressiona per la fantasia che mette in campo.
Neville Richardson, detective privato, si imbatte
una sera in una bella ragazza che gli appare spaventata da qualcuno o
qualcosa. Decide di seguirla e la becca poco dopo mentre parla con un
tizio. Da lontano non riesce ad identificarlo tranne che per un
particolare che lo fa rabbrividire: una voce ed una risata roca e
stridula. Abbordata la ragazza, e atteggiandosi come quel tizio (bavero
alto e cercando di non far vedere il viso), riesce a sapere che qualcosa
dovrebbe accadere il 16 aprile. E a ciò è connesso una mossa che lui ha
visto fare, nel dialogo tra l’individuo e la ragazza: un pugno col
pollice alzato. E poi la frase sibillina: “Il 16 alle 21,la porta in fondo sopra l’uccello” Cosa mai significheranno?
L’azione si sposta altrove. Un tale Paxton rivela
all’Ispettore Hurst e al criminologo e investigatore a tempo perso Alan
Twist, che un tale lo ha assunto per fare una cosa del tutto senza
senso: indossando degli abiti e delle scarpe, messi a disposizione da
lui (e solo quelli: non può indossarne altri, per esempio propri), deve
camminare tutto il giorno per recapitare della corrispondenza, da un
posto ad un altro, sempre gli stessi: deve recapitare una busta, e
consegnare gli abiti; e poi il giorno dopo prelevare da lì un’altra
busta e riportarla al suo datore di lavoro, re-indossando gli stessi
abiti: sempre e solo due buste, sempre gli stessi abiti.. Ma la cosa
bella è – e viene anticipato proprio da Twist nella rivelazione – che
all’interno delle buste non c’è nulla.
Cosa c’entra questa singolare occupazione, con
quanto narrato precedentemente? Il fatto che il misterioso imprenditore
che lo ha assunto per una cosa apparentemente senza senso, abbia una
voce roca e stridula.
Il fatto che ci siano stati dei furti di gioielli,
fa sì che qualcuno pensi ad un traffico di preziosi, magari occultabili
nel tacco delle scarpe che invariabilmente si consumano e a cui devono
essere cambiate suole e tacchi.
Intanto la scena si sposta in un piccolo villaggio
distante mezzora da Londra: qui abita un ex poliziotto con la nipote.
Mentre è intento a cercarla, la trova che fissa una casa abbandonata e
in rovina, prima appartenuta ad un vecchio eccentrico, un certo
Fiddymont. Si dice che un alone di mistero aleggi su quella casa.
Il 16 aprile arriva ed intanto non si è capito
ancora cosa sia quel misterioso gesto con la mano. O meglio, ci si
arriva in ritardo, in quel giorno: “L’uccello nella mano”
(traduzione “The Bird in Hand”) è il nome di un pub, nelle vicinanze del
Covenant Garden. Nella soffitta del palazzo in cui trovasi il locale,
viene trovato un uomo ucciso: è il fattorino di cui si è parlato prima:
Paxton.
Perché mai è stato ucciso?
Intanto qualcuno avvisa la polizia, l’uomo con la
voce stridula, che “qualcuno” è stato visto aggirarsi nei pressi della
dimora del defunto Fiddimont. Ecco cosa collega le due parti: l’uomo
dalla voce stridula. Una casualità? Twist ed Hurst non ci credono. E si
recano in questa casa abbandonata: assi sconnesse, erbacce dappertutto,
finestre sbarrate, e la porta dell’ingresso chiusa dall’interno.
Trafficando con bastoncini di legno e con fogli di giornale, riescono a
far cadere la chiave dall’altra parte, recuperarla col giornale ed
usarla per aprire la porta. Appare uno scenario da incubo: i mobili e
quant’altro all’interno della casa, abbandonata da cinque anni, sono
ricoperti di polvere che uniformante è diffusa ovunque. Eppure i due
annusando l’aria sono inquieti: aleggia un odore di..morte. In una
stanza, chiusa verso l’esterno, su una poltrona posta tra la finestra ed
il camino, ritrovano il cadavere del vecchio Fiddimont, ancora sporco
di terreno, vecchio di cinque anni. Come ha fatto a finire lì, se non vi
sono impronte sul pavimento ricoperto di polvere? E come è potuto
accadere che la casa fosse a sua volta chiusa dall’interno, come se il
vecchio Fiddymont fosse uscito dalla tomba e vi si fosse recato?
Qualcuno aveva, un po’ di tempo prima, parlato di rumori e voci
provenienti dalla tomba del vecchio, e la stessa terra era apparsa
smossa. Ovviante, recuperata la bara, seppellita a breve profondità
nella terra, essa si presenta vuota. La cosa singolare è che,
all’interno della casa, qualsiasi cosa si sia verificata, ad essa hanno
assistito innumerevoli testimoni: decine di paia di scarpe, di tutte le
fogge, dimensioni, colori, femminili e maschili, allineate le une alle
altre una a fianco all’altra, per terra, coperte di polvere.
Si viene a sapere che qualcuno, nell’entourage dei
parenti di Fiddymont, aveva ipotizzato che l’interesse del defunto a
tutte quelle scarpe potesse esser messo in relazione a gioielli
occultativi all’interno. Cosa legherebbe Fiddymont al misterioso
individuo dalla voce stridula?
E ha una sua importanza nella vicenda la sparizione di un pezzo di grondaia della casa?
Fatto sta che ben presto, un nuovo assassinio si
verifica: viene ucciso il professor Lynch, sposato a Emma Lynch erede
del vecchio Fiddymont. Viene trovato in un’altra casa abbandonata,
stavolta vicino a Covenat Garden: ma quante case abbandonate! E accanto
al cadavere, sempre le vecchie scarpe.
Toccherà a Twist inchiodare un assassino diabolico,
non prima che questi abbia ucciso ancora una volta: il vecchio
poliziotto Winslow, amico di Twist ed Hurst, che con loro ha partecipato
alle indagini, e che abita nel villaggio. Ha avuto anche lui una parte?
E quale?
Il romanzo è un portentoso “divertissement”, pieno
di false piste ( a cominciare dal primo assassinio; altra falsa pista è
quella delle scarpe: ma poi perché il vecchio Fiddymont aveva voluto che
restassero nella sua casa, in quella quantità? E terza falsa pista è
quella della profanazione della tomba del vecchio, del disseppellimento
del suo cadavere, e della sua ostentazione in una casa ermeticamente
chiusa dall’interno), di falsi indizi (la voce stridula), di veri indizi
(i rapporti adulterini che quattro personaggi hanno tessuto tra di
loro; il pezzo di grondaia sparita).
Il romanzo è pieno di falsi indiziati e di
colpevoli dissimulati: i furti hanno la loro importanza, ma non
costituiscono una ragione o tantomeno un movente degli assassini. Halter
in questo, mi sembra che citi l’Ellery Queen de “The Twins Siamese
Mystery”, solo che, come molto spesso opera nei suoi romanzi, inverte la
situazione: chi conosce bene quel romanzo di Ellery Queen, sa a cosa mi
riferisca quando parlo di furti. Lì l’assassino è il ladro, qui no. Ma
il movente dell’omicidio mascherato è lo stesso. E così come lì, anche
qui l’omicida cerca di far incolpare chi non c’entra nulla. Una serie di
coincidenze che mi sembrano assai poco casuali per non essere
ricordate. Tuttavia c’è anche dell’altro.
Ci sono infatti altre citazioni, che sono volute e manifestate : He Wouldn’t Kill Patience di
Carter Dickson/J.D.Carr, ma anche volute e non manifestate. Come quella
di Ellery Queen prima citata, un altro passo famoso è tratto dal
racconto di Conan Doyle “The Adventure of the Red-Headed League” tratto da “The Adventures of Sherlock Holmes”:
si riferisce all’occupazione di Paxton che viene assunto per un fine a
lui ignoto, determinante per la riuscita di un fatto criminoso (nel suo
caso, il suo assassinio).Qui rilevo, un’altra delle caratteristiche
comuni nei romanzi di Halter: il fatto che spesso nei suoi romanzi le
vittime siano al centro di macchinazioni; ma anche che gli stessi
assassini finiscano per essere delle vittime, di eventi che accadono a
loro insaputa. Qui, per esempio, l’omicida che aveva premeditato un
assassinio perfetto, viene scoperto perchè qualcuno, a sua insaputa,
avendo compreso che un pericolo sta sovrastando una persona, fà sì che
intervenga la polizia. Come? Leggete il romanzo!
Al di là poi delle vere o presunte citazioni che possano esserci, deriva indubbiamente da Carr e più precisamente da The Mat Hatter Mystery, il metodo utilizzato dall'assassino per mettere sulla vecchia poltrona, il cadavere più che decomposto, non lasciando tracce sul pavimento.
Altra citazione è quella del canale della grondaia utilizzato per creare delle voci che mi ricorda un racconto di Hoch, The Problem of the Whispering House.
Ma oltre alla doppia impossibilità (camera chiusa, senza orme, e cadavere disseppellito), la cosa interessantissima di questo romanzo è la “Locked-Room Lecture”, che Halter pone come omaggio alle grandi dissertazioni sulle Camere Chiuse, inventate prima della sua, innanzitutto quella di Carr.
Ma oltre alla doppia impossibilità (camera chiusa, senza orme, e cadavere disseppellito), la cosa interessantissima di questo romanzo è la “Locked-Room Lecture”, che Halter pone come omaggio alle grandi dissertazioni sulle Camere Chiuse, inventate prima della sua, innanzitutto quella di Carr.
Ed
è proprio questa presenza emblematica e caratterizzante ad impreziosire
il romanzo (come ho rimarcato nei miei tre saggi sul Blog Mondadori,
una dissertazione rende unico il romanzo in cui viene posta).
Ma
le scarpe? Cosa c’entrano? Sarà il finale, un finale da lasciare a
bocca aperta, che ha il sapore di una fiaba melanconica, a spiegarne il
significato. Soprattutto alla luce degli atteggiamenti “di pazzia”
attribuiti al vecchio Fiddymont, ma che pazzo proprio non era. Semmai un
nostalgico di quell’infanzia che non aveva avuto.
Pietro De Palma
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