Herbert
Resnicow è scomparso quindici anni fa, dopo aver vissuto 77 anni. Era nato nel
1920, ma la sua entrata di diritto nella storia della letteratura poliziesca,
si attua solo nel 1983 con The Gold Solution, opera prepotente e anche
ammiccatamene ruffiana che gli fa conquistare una nomination a sorpresa per la
miglior opera prima nel campo dei romanzi, agli Edgar Award del 1984.
E’ il suo
debutto ufficiale. Rinuncia alla Crime Novel americana contemporanea, fatta di
Hard-boiled mischiato a temi sociali per recuperare la Detection Novel più
classica, ammiccando a Van Dine e Rex Stout.
E’ stato per
molti anni ingegnere edile, combattendo nel Genio Militare durante la Seconda
Guerra Mondiale, e svolgendo la propria professione fino al giorno in cui ha
deciso di scrivere un romanzo giallo. L’occasione, se così si volesse dire,
gliela fornì un avvenimento doloroso: colpito da infarto, decise di ingannare
il tempo scrivendo prima racconti, poi un romanzo in cui inserisse le proprie
conoscenze di tecnica delle costruzioni assieme ad una trama poliziesca di tipo
classico. Fino alla morte, avvenuta sempre per questioni cardiache, ha scritto
parecchi altri romanzi alcuni dei quali hanno ottenuto notevoli successi di
pubblico. Simpatico, “bello in carne”, si è interessato anche alla costruzione
di impianti hi-fi avveniristici. Hobby: polizieschi e musica classica. Forse per
questo mi è anche così simpatico. Al tempo disse ironicamente che “il comitato
(n.d.r. : per l’assegnazione degli Egar) forse ha dei pregiudizi contro gli
ebrei di mezza età, casalinghi, sposati, piccoli e grassi”. A distanza di
quindici anni, comunque, pochi si ricordano di lui. Parecchi dei suoi romanzi
sono stati pubblicati ne Il Giallo Mondadori
L’opera
prima di Herbert Resnicow è The Gold Solution, 1983.
In essa si
ritrovano accenni biografici: infatti, Alexander Gold, costruttore, come il suo
ideatore, Resnicow appunto, ha subito un grave infarto. Durante la
convalescenza, dal suo amico e mentore Hanslick Burton, ricchissimo avvocato,
gli viene proposto di occuparsi di un caso apparentemente senza via d’uscita:
un giovane architetto alle prime armi, Jonathan Candell, è stato trovato con un
coltello grondante di sangue in mano davanti all’agonizzante celeberrimo
architetto Roger Allen Talbott, dell’omonimo studio, famoso per i suoi edifici
a piramide. Cosa c’è di interessante? Il fatto che allo studio dove è stato
trovato il moribondo, sito nell’attico di una avveniristica costruzione dotata
dei sistemi di allarme più efficienti, si accede solo attraverso un ascensore,
che viene sbloccato da Talbott stesso; che Candell è stato chiamato da Talbott
meno di un minuto prima del suo accoltellamento, e dopo solo la cameriera gli
aveva portato dei formaggini danesi e del latte; che nello studio non ci fosse
nessun altro all’infuori di Candell e dello stesso Talbot; e che le uniche
porte di sicurezza esistenti fossero dotate di allarmi e campanelli, tali che
nessuno avrebbe potuto usarle senza essere individuato immediatamente; inoltre
non esistono passaggi segreti o false pareti. Insomma..in pratica una camera
chiusa, con un unico possibile assassino. Che però si professa innocente: è
ebreo praticante, contrario alla violenza, non avrebbe avuto nessun movente per
uccidere Talbott. Del suo caso si è dapprima interessata Norma, moglie di
Hanslick. Poi ella, amica di Pearl, a sua volta moglie di Alexander Gold, pensa
che solo lui, l’investigatore dilettante, possa risolvere il caso, evitare la
pena di morte a Candell, e togliere una grossa gatta da pelare a Hanslick che
non sa come vincere una causa disperata.
Alexander
accetta, ma solo in cambio di una grossa ricompensa: dovrà, da casa sua,
impossibilitato a muoversi per almeno tre mesi, risolvere il caso sulla base
dei dossier e delle prove circostanziali e delle indagini svolte, al suo posto,
dalla moglie, Norma. Ecco il legame con Stout: come Nero Wolfe, Alexander Gold
è pesante, e non si sposta, e svolge le indagini, e risolverà questo
intricatissimo caso, basandosi sull’aiuto prezioso di sua moglie Norma che come
Archie Goodwin, fa da spalla al grande investigatore. Archie, non Watson:
Watson assiste alle indagini di Sherlock Holmes, non le conduce come fa Archie,
e Norma.
I soli
possibili sospetti sono i quattro soci di Talbott (Bauer, Bishop, Dakin, Kirsh)
che però al momento della morte non erano lì, la moglie Irma (che però nel
momento in cui moriva il marito era dabbasso assieme alla cameriera), ed il
suocero (Rufus C. Miller). Ma quale movente avrebbero avuto tutti e sei ad
uccidere la classica gallina dalle uova d’oro, il più celebre architetto
d’America, che monetizzava in fiumi di denaro qualsiasi idea, con i suoi
celeberrimi schizzi a matita, perfetti, senza cancellature (si diceva persino
che in gioventù avesse emulato Giotto, disegnando a mano libera una O perfetta,
ed inscrivendo al suo interno un altro cerchio perfetto), sviluppati poi dal
team di architetti che gli stava attorno in soluzionia architettoniche ardite?.
Sta ad Alexander trovarlo.
Riesce a
togliere la maschera a tutti e quattro (invidiosi fino all’estremo e desiderosi
di succedergli nella società, almeno tre su quattro): tutti e quattro lo
odiavano, ognuno rimproverandogli la fama acquistata a spese loro, senza che
avessero una pur minima parte della sua celebrità e dei suoi soldi, quando non
esistesse altra ragione valida, più segreta. Norma fornisce a suo marito
l’indizio che lui Gold, tramuta in altro movente: l’amore morboso di Talbott,
che come alcuni produttori cinematografici degli anni ’20, approfittava
sessualmente di tutte le collaboratrici “piccole, bionde e cicciotelle”, per
una sola volta, nel suo studio, dopo averle irretite, e portandole sempre o
quasi, all’esaurimento nervoso, o a gravi sindromi da suicidio (la segretaria
di cui si innamora il dirigente ricchissimo, che poi la abbandona).
Riuscirà a
individuare l’unico assassino, tra i sei sospettati, distruggendo un alibi inattaccabile.
Basandosi sulla massima poliziesca più classica, che cioè quando il possibile
non trova posto bisogna attaccarsi all’impossibile per spiegare l’inspiegabile,
Gold imbastisce la sua accusa, facendo leva su una serie di indizi che gli
fornisce la moglie, già archivista, e principalmente concentrando le indagini
su chi potesse trarne dei vantaggi: Cui Prodest?
Se
all’inizio pareva che tutti e sei avrebbero avuto solo a rimetterci dalla morte
di Talbott, scavando in profondità, facendo domande, anche le meno sensate,
costruendo possibili rapporti tra persone apparentemente estranee, Gold e la
moglie riescono a mettere in luce un piano accuratamente premeditato, per il
quale abbisognava solo avere a portata un capro espiatorio, Candell appunto, che
non avesse alcun possibile rapporto di odio/amore con l’assassino, cosicché non
si potesse con lui trovare alcun tipo di legame. Un qualsiasi capro espiatorio:
se non ci fosse stato Candell, probabilmente qualche altro povero Cristo
sarebbe stato scelto per essere immolato sull’altare del delitto perfetto. Ma
la costruzione ha però delle incrinature invisibili, che Gold riesce a rendere
visibili.
La Camera
Chiusa viene spiegata non sulla base di aggeggi o diavolerie meccaniche strane,
bensì sulla contemporaneità di azioni di cui originariamente non si sapeva
nulla e che egli suppone, ricercando poi una serie di prove che la possano
suffragare; e soprattutto su un patto di morte.
Interessante
romanzo, non si distingue per qualità narrativa o stilistica, quanto per l’uso
sapiente e manieristico dei riferimenti, attingendo da tutta la letteratura che
prima di lui si è sviluppata: da Carr, da Rex Stout, e persino da Ellery Queen.
Infatti, cos’altro sarebbero gli innocenti schizzi buttati giù da Talbott
sull’ultimo suo progetto, su cui stava lavorando mentre l’assassino lo ha
sorpreso, fatto arrivare lì all’ultimo piano da qualcuno, e camminando
silenzioso sulla spessa e morbida moquette, se non “the dying message” di
queeniana memoria? Ignorati da poliziotti troppo reali per possedere un
briciolo di quella fantasia che permette a Gold di risolvere il caso, e troppo
ignoranti per non aver letto neanche un romanzo della grande stagione creativa
di Ellery Queen, non riescono a vedere nella “rapa e nel salame”, per esempio,
uno dei soli possibili indizi che il morente Talbott avrebbe potuto trasmettere
senza che il suo assassino che gli era accanto potesse in alcun modo sospettare
che essi fossero delle accuse a suo carico.
L’unico
rimpianto e anche il solo rimprovero che gli posso fare è di non esser riuscito
a mantenere fino alla fine la tensione per l’accusa dell’assassino, tradendosi
alcune pagine prima, e mantenendo la tensione solo per la scoperta del
complice, l’ideatore della messinscena.
Alla base di
tutto cosa c’è? Ma ovviamente il vil danaro! E anche il sesso! Due delle
cause preferite che da sempre, sotto sotto, costituiscono la base per i delitti
veri e soprattutto per quelli di carta, i nostri amati “Delitti per diletto” di
Mandeliana memoria.
Pietro De
Palma
Nessun commento:
Posta un commento