Di Maj Sjowall e Per Wahloo non ho null’altro, all’infuori del bellissimo Det slutna rummer, “La Camera Chiusa”.
Il romanzo, scritto e pubblicato nel 1972, in Italia è apparso, per Sellerio, solo nel 2010.
Sellerio, si sa, è conosciuta per essere una casa
editrice dal forte impegno culturale; e anche sul versante del romanzo
poliziesco non tradisce questa sua vocazione: pochi autori, e neanche
notissimi (basti pensare alla serie del Commissario De Vincenzi, di
Augusto De Angelis, o al più recente Wilcox, a Carofiglio, Gimenez
Bartlett, Camilleri). Perché allora Sjowall e Wahloo avrebbero dovuto
interessare questa casa editrice? Non lo sappiamo con certezza. Ma, le
note sul risvolto della quarta di copertina, ci danno una delle
soluzioni: i due autori con i polizieschi che hanno scritto non hanno
solo dato un contributo alla narrativa poliziesca ma anche all’impegno
politico, impegnandosi nel denunciare i mali e le storture della società
capitalistica svedese. E anche questo Det slutna rummet, non tradisce quest’impostazione.
Innanzitutto segnalo il romanzo per una
singolarità: all’interno della trama vi sono 2 plot ben contraddistinti,
che non sembrerebbero avere alcun contatto tra loro: il primo presenta
una classicissima Camera Chiusa e il secondo una rapina in banca. Cosa
lega due fatti così lontani?
Sgombriamo intanto il campo da fantastiche ipotesi,
che potrebbero venire spontanee: l’ammazzato non c’entra nulla con la
rapina; eppure..i due plot hanno un punto in comune che si spiega solo
nel finale.
Il romanzo comincia con una rapina in banca: alla
fine di giugno, a Stoccolma, una rapinatrice solitaria svaligia una
banca e ci scappa il morto, un cliente, uno che voleva fare l’eroe,
centrato in pieno viso da un colpo di pistola che gli spappola viso e
cranio. Dopo la rapina, un procuratore rampante, «Bulldozer» Olsson, chiede l’intervento della squadra speciale, in quanto sicuro che il colpo sia parte di altro e più vasto piano criminale.
Qualche giorno dopo, il 3 luglio 1972, il
Commissario Martin Beck, con un matrimonio fallito alle spalle e dopo un
lungo periodo di convalescenza, ritorna alla vita lavorativa in
polizia, e proprio come primo incarico gli viene assegnato un caso che
avrebbe fatto la felicità di John Dickson Carr. L’incartamento riguarda
quello che appare un caso misterioso, ma forse solo perché degli eventi
di natura umana o casuale l’hanno reso tale. Nella domenica del 18
giugno precedente, al numero 57 di Bergsgatan nel quartiere di
Kungsholmen, due poliziotti Kenneth Kvastmo e Karl Kristiansson vengono
inviati ad investigare, dopo una segnalazione proveniente dallo stabile:
una donna, che abita al secondo piano del palazzo, ha
detto che da qualche giorno l’interno delle scale è ammorbato da un
fetore indescrivibile, come di carne marcia. I due poliziotti ben presto
scoprono che l’origine del puzzo proviene da un’abitazione al primo
piano, abitata da un certo Karl Edvin Svard, un pensionato che pare
essere in condizioni quasi indigenti, e che da lavorante faceva il
magazziniere. I due, solo con la forza bruta, riescono ad entrare in
casa sfasciando i cardini, giacchè la porta è munita di due robusti
chiavistelli e di una “fox-lock”, una robusta sbarra di ferro che si
infila negli stipiti, e si trovano davanti ad uno spettacolo
raccapricciante: un uomo è steso a terra, vicino ad una finestra, ma non
sotto, o meglio è steso quel che resta di un uomo, le cui carni
putrefatte ed enfiate dal caldo soffocante, anche a causa di una
stufetta, sono lì a chiedere che qualcuno apra la finestra e disinfetti
il locale, visto anche il discreto numero di vermi da cadavere che
gironzolano sul pavimento sotto di esso. Mentre un poliziotto, sta lì a
vomitare, l’altro, più duro, controlla che gli addetti alla rimozione
del corpo, non tralascino nulla, vigilando lui e poi loro che tutto ciò
che sta attorno al cadavere venga raccolto e classificato, persino i
vermi che se ne stanno cibando. L’unica cosa che verrebbe da chiedere
che dovesse essere da qualche parte, e che non c’è, è proprio la
pistola, una pistola di grosso calibro, visto che l’autopsia rivela
essere morto Svard per un colpo di pistola che l’ha beccato in pieno
petto, al cuore: se fosse suicidio, come il caso viene frettolosamente
chiuso, si dovrebbe trovare l’arma. Ma l’arma non si trova. E allora
Beck comincia la sua indagine, andando a ritroso, interrogando i due
poliziotti, i necrofori comunali, il responsabile del procedimento che
ha frettolosamente chiuso l’indagine con un verdetto di suicidio (ma
senza pistola, in una abitazione rigorosamente chiusa dall’interno con
serratura e chiavistelli vari, con la finestra serrata da un
chiavistello interno e senza altre uscite) e persino il medico legale,
cui la polizia ha dato istruzioni, indirizzando già il caso verso il
suicidio, che si è astenuto dal fare qualsiasi altra indagine.
Dell’assassinio, perché questo Beck immagina che sia, rimane il rapporto
che ha sotto gli occhi ed il proiettile che per puro caso non si è
perso. Un po’ poco. Ma a Martin Beck basta: è il classico poliziotto
metodico, attento, ligio, che passa tutto al setaccio, un po’ Lord un
po’ Carella, che non si lascia scoraggiare dalla pochezza delle prove:
neanche sul quel che resta del corpo può investigare, visto che quando
gli mollano la patata bollente, son passati quindici giorni già dal
ritrovamento del cadavere e , dato lo stato assai precario in cui si
trova, e visto che nessuno si presenta a riconoscerlo (ma come farebbe?)
o a reclamarne la salma, hanno provveduto a cremarlo; così deve Martin
solo affidarsi alle poche risultanze che nell’autopsia erano state
attuate esaminando quel che restava degli organi: la ferita d’arma da
fuoco è l’unica cosa che potesse essere accertata; neanche era possibile
investigare sul fatto che all’assassinato gli fosse stato inferto un
qualche colpo per tramortirlo o gli fosse stato somministrato qualcosa
da renderlo incosciente. La cosa, una delle poche su cui deve
necessariamente basarsi, è che in quella torrida estate, nessuno ha
sentito nessun colpo d’arma da fuoco; eppure avrebbe dovuto trovare
qualcuno che l’avesse sentita, il commissario, perché il calibro pare
piuttosto grosso. Anche se non si può accertarlo con precisione visto
che manca il bossolo. Già un’altra cosa strana. Nell’incartamento egli
trova un parere di qualcuno: l’arma doveva per forza essere a tamburo,
mancando il bossolo, un revolver insomma: se non lo fosse stato, il
bossolo sarebbe dovuto essere espulso dalla pistola all’atto dello sparo
e trovarsi assieme al corpo e quindi essere ritrovato con esso: ma
nessun bossolo si trova.
E’ omicidio allora. Ma..come è avvenuto?
Rinunciando alla tentazione di risolvere il puzzle, che si presenta
ingarbugliato, Beck, ricomincia dal principio: ritorna
nell’appartamento, i cui muri hanno assorbito quell’odore caratteristico
della morte, e ne esamina gli arredi e le povere cose ricavando
l’impressione che si trattasse di un pover’uomo.
Nello stesso due
criminali di primo piano, tali Malmstrom e Mohrén, cronicamente
sfortunati perche vengono sempre acciuffati, hanno deciso di mettere a
segno un grande colpo, e per farlo si associano ad un altro tipo, che fa
il basista e che ha il compito di procurare loro varie cose, tra cui
una Santa Barbara di tutto rispetto: pistole, revolver, fucili a canne
mozze e pistole-mitragliatrici; egli fa anche il ricettatore e tratta
droga e pornografia.
Un
giorno per un errore, una vigilessa lo accusa di aver derubato una
passante, viene con la vigilessa e la passante portato alla centrale di
polizia, perquisito e rilasciato; ha però la sfortuna di beccare un cane
antidroga che si interessa stranamente della borsa dalla quale poco
prima gli agenti avevano tirato fuori la spesa. Il tipo capisce che deve
cercare di farla franca e per questo decide di vendere i suoi “clienti”
al procuratore «Bulldozer» Olsson, che si dimostra più che interessato alla cosa.
Accade
però che i poliziotti Larsson e Kollberg che fanno parte della
talk-force che si occupa delle rapine, vadano a perquisire la sua
abitazione, non trovandoci alcunché di interessante. Anche questa volta
accade però l’imprevisto: in un locale condominiale trovano, occultata
in una cassa di sabbia, risalente alla seconda guerra mondiale, una
borsa militare contenente una parrucca bionda, una camicia azzurra, un
cappello ed una pistola automatica, calibro 45, insomma gli indumenti e
la pistola che riportano alla rapina in banca in cui c’era scappato il
morto. E così questo povero tale, che chiameremo M, che già pensava di
essersela scampata, si ritrova coinvolto in una rapina e omicidio di cui
non sa nulla: il procuratore è sicuro che alla base del supercolpo che
stanno progettando i due con lui ci sia Werner Roos, un supercriminale.
Malmstrom
e Mohrén secondo il Procuratore dovrebbero rapinare una superbanca a
Stoccolma; peccato che invece essi abbiano preso di mira una banca di
Malmo; e così mentre c’è gente che è pronta a far scattare una trappola
altrove, quelli indisturbati fanno il colpo e se ne vanno.
Intanto il commissario Beck per cercare di dare un nome all’assassino si Svard, comincia
ad indagare nel suo ambiente lavorativo: subito raccoglie vari giudizi
dei suoi ex colleghi da cui ricava essere stato lo Svard “un gran
bastardo”, una persona capace di costruirsi una seconda attività
all’ombra dei furti di merce dai colli avuti in affidamento, denunciati
come effetto del danneggiamento del trasporto, senza che le stesse
agenzie di assicurazione avessero mai sospettato nulla. Le indagini lo
portano anche ad un palazzo più elegante della topaia in cui è stato
trovato, dove pare abbia abitato qualche tempo prima, dove incontra Rea
Nielsen, l’affittacamere, una donna molto diversa dall’ex-moglie,
anticonformista da far paura, di cui poco a poco si innamora.
Parallelamente all’amore che sente crescere, Beck viene informato da una
banca di un conto, intestato a Svard, molto consistente, che contrasta
con le sue condizioni indigenti; inoltre egli appura che l’uomo aveva
paura di qualcosa, o qualcuno. Dalla successiva constatazione che ogni
mese versava un importo fisso sul suo conto, ricava che egli avesse
ricattato qualcuno, e che quel qualcuno deve averlo ucciso.
Un’osservazione poi della sua amica, che si è chiusa inavvertitamente la
porta dell’appartamento alle spalle, gli da modo di capire come il
mistero della Camera Chiusa possa essere spiegato. Ma perché questo
abbia un valore è necessario capire come egli abbia fatto ad uccidere il
malcapitato. E così Beck ritrova il bossolo: è fuori dalla casa, su un
pendio erboso che guarda in direzione della casa: come ci è finito là?
A
questo punto la rivelazione che incanala le due indagini: delle rapine e
della Camera Chiusa: il bossolo ritrovato, si spiega esser stato
espulso dalla stessa arma usata nelle rapine. Ecco come i 2
plot si intersecano. L’assassino verrà così incastrato: la cosa curiosa
è che egli, quasi per uno scherzo del destino, o per colpa di altro
apparato della società, la giustizia, viene condannato per un reato di
cui egli giura essere innocente, cioè una rapina in banca
con il morto; mentre viene assolto dal reato di omicidio nei confronti
di Svard, delitto di cui egli aveva riconosciuto la paternità.
Il
romanzo di Sjowall e Wahloo è un procedural, anche se particolare:
segue l’iter delle indagini di Beck da un lato; Olsson e la Squadra
Specialedall’altro. Se li esaminassimo separatamente, avremmo due generi
diversi: un hard-boiled classico, con un detective triste, uno
sfortunato delinquente, e una storia d’amore; un giallo classicissmo con
Camera Chiusa. E ognuno dei due avrebbe la possibilità di un proprio
iter autonomo, anche se non la forza di un romanzo. Ecco allora cosa
i due autori escogitano: uniscono i due racconti assieme, dando loro un
finale comune e quindi unendoli ad arte, e realizzando un romanzo
indimenticabile.
Tra
le tante presenti nel romanzo, la figura del Commissario Martin Beck, è
quella di un anti-eroe, di un personaggio ormai abituato alla vita
consuetudinaria, che all’improvviso si accorge del fatto di non riuscire
più a fare le cose che faceva prima dell’incontro con Rea, poliziotto
Martin Beck, privo di una qualsiasi ambizione condivisa invece dai suoi
colleghi, che ci ricorda tanto l’Arkady Renko di Gorky Park, il
poliziotto malinconico di Martin Cruz Smith.
Un’ultima
cosa che è una chicca: chi lo leggerà, troverà a pag. 350 la
spiegazione del perché abbia detto all’inizio che è un giallo che
avrebbe fatto la felicità di John Dickson Carr, e del perché io pensi
che probabilmente proprio a Carr i due autori abbiano fatto riferimento,
confezionando una Camera semplice ma assai efficace, e in cui il
calibro della pistola ha una grande importanza.
Il
modo di tratteggiare le figure, di descrivere i luoghi e le
circostanze, lo stesso incedere e l’analisi dei particolari, fa sì che
l’atmosfera del romanzo non sia mai solare, ma come offuscata da una
coltre spessa di nebbia; e delle atmosfere uggiose, la trama conserva la
malinconia. E la critica sociale è molto spesso velenosa, come quando
per esempio si rapportano le carriere criminali di Malmstrom e Mohrén a
quelle di tanti insospettabili che forse sono maggiormente criminali:
chi corrompe per appalti e specula sulle abitazioni, chi avvelena
l’ambiente, etc..
Se
non fosse un procedural, direi trattarsi di un Hard-boiled con movenze
da Giallo Classico. E come tutti gli Hard-Boiled di una certa classe, ha
il finale in..pianissimo, un finale amaro, con una promozione a Beck
che non arriva e lui che dimostra, nell’accettazione della sua mancata
promozione, di essere tutto sommato un uomo semplice, del tutto diverso
dagli arrivisti che lo circondano.
Un romanzo poliziesco originale nell’ideazione.
Da leggere.
Pietro De Palma
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